Nel momento del dolore, nel momento in cui si è rinnovato il lutto di Nassirya, non ho potuto fare a meno di andarmi a rileggere l'articolo sulle malefatte del presidente Karzai che ho scritto appena otto giorni fa e che Il Giornale ha intitolato, quasi profeticamente, "Vale la pena morire per quest'uomo?". Allora, mi riferivo in generale ai 1.400 militari della Nato caduti sul fronte afghano dall'inizio della guerra e alla escalation di attentati degli ultimi mesi che ha colpito un po' tutti i contingenti dell'Isaf; ma oggi che i morti sono nostri, giovani volontari paracadutati in un Paese lontano per "difendere la democrazia", la domanda si fa ancora più pertinente, perché nel momento stesso in cui le immagini della strage sono entrate nelle nostre case è finita con prepotenza sulla bocca di tutti. Fino a ieri, all'italiano medio non importava poi molto che le elezioni che abbiamo "protetto" siano state contrassegnate da brogli inaccettabili, che il capo del governo che sosteniamo sia debole, incapace e corrotto, che a otto anni dalla liberazione dell'Afghanistan dal dominio talebano i fondamentalisti controllino di nuovo molte province e che il Paese produca - sotto i nostri occhi - l'80% dell'eroina consumata nel mondo. Sembrava, se mai, più importante che le ragazze afghane potessero finalmente andare a scuola, che si fosse posta fine alla barbarie della sharia e che la Nato non si limitasse a combattere i fondamentalisti, ma provvedesse alla costruzione di strade, ospedali e altre infrastrutture in un Paese devastato da 30 anni di guerre. Insomma, il bilancio appariva, nonostante tutto, più che accettabile. Ma ora che l'Italia è stata - d'improvviso - chiamata a pagare per questa causa il tributo di sangue che altre nazioni hanno già abbondantemente pagato (gli americani hanno avuto 51 morti nel solo mese di agosto e 830 in totale, gli inglesi 214), siamo quasi costretti a considerare di nuovo i pro e i contro della nostra partecipazione a quella che non è più una missione di pace, ma una guerra in piena regola; e tornano alla mente le parole pronunciate dieci giorni fa da Abdullah Abdullah, il principale avversario di Karzai alle elezioni: "Sarà difficile per i governi alleati giustificare il sostegno al risultato di un’elezione per cui sono stati spesi centinaia di milioni di dollari e molti soldati della Nato sono morti, ma che si sta rivelando una tragica farsa". Tutto vero, tutto logico. Il ragionamento tuttavia, ha un difetto di fondo. Se fosse solo per Karzai e la sua cricca, non varrebbe la pena di combattere; se fosse solo per esportare la democrazia in un Paese che non l'ha mai conosciuta e le cui strutture tribali tendono a rifiutarla, non varrebbe la pena di combattere; se in Afghanistan si svolgesse, come in tanti altri Paesi del Terzo mondo, solo un conflitto tra fazioni rivali, non varrebbe la pena di combattere. Il fatto è che non siamo a Kabul per sostenere Karzai, ma perché è lì che si combatte oggi la battaglia decisiva contro il terrorismo islamista. Che vincesse Karzai o Abdullah, in fondo ci era indifferente. L'importante è impedire che l'Afghanistan, il Paese in cui Osama Bin Laden preparò l'11 settembre, torni grazie a una vittoria dei talebani sotto il controllo di Al Qaida. Non è solo un problema militare, perché lo sceicco del terrore potrebbe sempre spostare il suo quartiere generale in Somalia o in qualche altro Paese in cui le sue milizie sono penetrate; è, soprattutto, un problema simbolico, perché una nostra ritirata dall'Afghanistan prima di avervi consolidato un regime filoccidentale significherebbe il trionfo dell'Islam estremista e della Jihad e il rilancio del terrorismo globale: un’eventualità che, nonostante i molti lutti, le contestazioni e i risultati negativi dei sondaggi nessuno dei governi che partecipano all'Isaf osa seriamente contemplare. I ragazzi della Folgore non sono in realtà morti per l'Afghanistan, ma per noi e per tutti coloro che non vogliono piegarsi all'assalto di un fanatismo feroce. Non sono i primi, e purtroppo non saranno gli ultimi. Forse è esagerato parlare di una guerra dei trent'anni, ma la guerra sarà lunga e senza pietà. Chi, in preda allo choc, invoca già una exit strategy non si rende conto che il solo parlarne comporta l'ammissione che non possiamo vincere.
venerdì 18 settembre 2009
Afghanistan
Ma com’è difficile morire per il signor Karzai di Livio Caputo
Nel momento del dolore, nel momento in cui si è rinnovato il lutto di Nassirya, non ho potuto fare a meno di andarmi a rileggere l'articolo sulle malefatte del presidente Karzai che ho scritto appena otto giorni fa e che Il Giornale ha intitolato, quasi profeticamente, "Vale la pena morire per quest'uomo?". Allora, mi riferivo in generale ai 1.400 militari della Nato caduti sul fronte afghano dall'inizio della guerra e alla escalation di attentati degli ultimi mesi che ha colpito un po' tutti i contingenti dell'Isaf; ma oggi che i morti sono nostri, giovani volontari paracadutati in un Paese lontano per "difendere la democrazia", la domanda si fa ancora più pertinente, perché nel momento stesso in cui le immagini della strage sono entrate nelle nostre case è finita con prepotenza sulla bocca di tutti. Fino a ieri, all'italiano medio non importava poi molto che le elezioni che abbiamo "protetto" siano state contrassegnate da brogli inaccettabili, che il capo del governo che sosteniamo sia debole, incapace e corrotto, che a otto anni dalla liberazione dell'Afghanistan dal dominio talebano i fondamentalisti controllino di nuovo molte province e che il Paese produca - sotto i nostri occhi - l'80% dell'eroina consumata nel mondo. Sembrava, se mai, più importante che le ragazze afghane potessero finalmente andare a scuola, che si fosse posta fine alla barbarie della sharia e che la Nato non si limitasse a combattere i fondamentalisti, ma provvedesse alla costruzione di strade, ospedali e altre infrastrutture in un Paese devastato da 30 anni di guerre. Insomma, il bilancio appariva, nonostante tutto, più che accettabile. Ma ora che l'Italia è stata - d'improvviso - chiamata a pagare per questa causa il tributo di sangue che altre nazioni hanno già abbondantemente pagato (gli americani hanno avuto 51 morti nel solo mese di agosto e 830 in totale, gli inglesi 214), siamo quasi costretti a considerare di nuovo i pro e i contro della nostra partecipazione a quella che non è più una missione di pace, ma una guerra in piena regola; e tornano alla mente le parole pronunciate dieci giorni fa da Abdullah Abdullah, il principale avversario di Karzai alle elezioni: "Sarà difficile per i governi alleati giustificare il sostegno al risultato di un’elezione per cui sono stati spesi centinaia di milioni di dollari e molti soldati della Nato sono morti, ma che si sta rivelando una tragica farsa". Tutto vero, tutto logico. Il ragionamento tuttavia, ha un difetto di fondo. Se fosse solo per Karzai e la sua cricca, non varrebbe la pena di combattere; se fosse solo per esportare la democrazia in un Paese che non l'ha mai conosciuta e le cui strutture tribali tendono a rifiutarla, non varrebbe la pena di combattere; se in Afghanistan si svolgesse, come in tanti altri Paesi del Terzo mondo, solo un conflitto tra fazioni rivali, non varrebbe la pena di combattere. Il fatto è che non siamo a Kabul per sostenere Karzai, ma perché è lì che si combatte oggi la battaglia decisiva contro il terrorismo islamista. Che vincesse Karzai o Abdullah, in fondo ci era indifferente. L'importante è impedire che l'Afghanistan, il Paese in cui Osama Bin Laden preparò l'11 settembre, torni grazie a una vittoria dei talebani sotto il controllo di Al Qaida. Non è solo un problema militare, perché lo sceicco del terrore potrebbe sempre spostare il suo quartiere generale in Somalia o in qualche altro Paese in cui le sue milizie sono penetrate; è, soprattutto, un problema simbolico, perché una nostra ritirata dall'Afghanistan prima di avervi consolidato un regime filoccidentale significherebbe il trionfo dell'Islam estremista e della Jihad e il rilancio del terrorismo globale: un’eventualità che, nonostante i molti lutti, le contestazioni e i risultati negativi dei sondaggi nessuno dei governi che partecipano all'Isaf osa seriamente contemplare. I ragazzi della Folgore non sono in realtà morti per l'Afghanistan, ma per noi e per tutti coloro che non vogliono piegarsi all'assalto di un fanatismo feroce. Non sono i primi, e purtroppo non saranno gli ultimi. Forse è esagerato parlare di una guerra dei trent'anni, ma la guerra sarà lunga e senza pietà. Chi, in preda allo choc, invoca già una exit strategy non si rende conto che il solo parlarne comporta l'ammissione che non possiamo vincere.
Nel momento del dolore, nel momento in cui si è rinnovato il lutto di Nassirya, non ho potuto fare a meno di andarmi a rileggere l'articolo sulle malefatte del presidente Karzai che ho scritto appena otto giorni fa e che Il Giornale ha intitolato, quasi profeticamente, "Vale la pena morire per quest'uomo?". Allora, mi riferivo in generale ai 1.400 militari della Nato caduti sul fronte afghano dall'inizio della guerra e alla escalation di attentati degli ultimi mesi che ha colpito un po' tutti i contingenti dell'Isaf; ma oggi che i morti sono nostri, giovani volontari paracadutati in un Paese lontano per "difendere la democrazia", la domanda si fa ancora più pertinente, perché nel momento stesso in cui le immagini della strage sono entrate nelle nostre case è finita con prepotenza sulla bocca di tutti. Fino a ieri, all'italiano medio non importava poi molto che le elezioni che abbiamo "protetto" siano state contrassegnate da brogli inaccettabili, che il capo del governo che sosteniamo sia debole, incapace e corrotto, che a otto anni dalla liberazione dell'Afghanistan dal dominio talebano i fondamentalisti controllino di nuovo molte province e che il Paese produca - sotto i nostri occhi - l'80% dell'eroina consumata nel mondo. Sembrava, se mai, più importante che le ragazze afghane potessero finalmente andare a scuola, che si fosse posta fine alla barbarie della sharia e che la Nato non si limitasse a combattere i fondamentalisti, ma provvedesse alla costruzione di strade, ospedali e altre infrastrutture in un Paese devastato da 30 anni di guerre. Insomma, il bilancio appariva, nonostante tutto, più che accettabile. Ma ora che l'Italia è stata - d'improvviso - chiamata a pagare per questa causa il tributo di sangue che altre nazioni hanno già abbondantemente pagato (gli americani hanno avuto 51 morti nel solo mese di agosto e 830 in totale, gli inglesi 214), siamo quasi costretti a considerare di nuovo i pro e i contro della nostra partecipazione a quella che non è più una missione di pace, ma una guerra in piena regola; e tornano alla mente le parole pronunciate dieci giorni fa da Abdullah Abdullah, il principale avversario di Karzai alle elezioni: "Sarà difficile per i governi alleati giustificare il sostegno al risultato di un’elezione per cui sono stati spesi centinaia di milioni di dollari e molti soldati della Nato sono morti, ma che si sta rivelando una tragica farsa". Tutto vero, tutto logico. Il ragionamento tuttavia, ha un difetto di fondo. Se fosse solo per Karzai e la sua cricca, non varrebbe la pena di combattere; se fosse solo per esportare la democrazia in un Paese che non l'ha mai conosciuta e le cui strutture tribali tendono a rifiutarla, non varrebbe la pena di combattere; se in Afghanistan si svolgesse, come in tanti altri Paesi del Terzo mondo, solo un conflitto tra fazioni rivali, non varrebbe la pena di combattere. Il fatto è che non siamo a Kabul per sostenere Karzai, ma perché è lì che si combatte oggi la battaglia decisiva contro il terrorismo islamista. Che vincesse Karzai o Abdullah, in fondo ci era indifferente. L'importante è impedire che l'Afghanistan, il Paese in cui Osama Bin Laden preparò l'11 settembre, torni grazie a una vittoria dei talebani sotto il controllo di Al Qaida. Non è solo un problema militare, perché lo sceicco del terrore potrebbe sempre spostare il suo quartiere generale in Somalia o in qualche altro Paese in cui le sue milizie sono penetrate; è, soprattutto, un problema simbolico, perché una nostra ritirata dall'Afghanistan prima di avervi consolidato un regime filoccidentale significherebbe il trionfo dell'Islam estremista e della Jihad e il rilancio del terrorismo globale: un’eventualità che, nonostante i molti lutti, le contestazioni e i risultati negativi dei sondaggi nessuno dei governi che partecipano all'Isaf osa seriamente contemplare. I ragazzi della Folgore non sono in realtà morti per l'Afghanistan, ma per noi e per tutti coloro che non vogliono piegarsi all'assalto di un fanatismo feroce. Non sono i primi, e purtroppo non saranno gli ultimi. Forse è esagerato parlare di una guerra dei trent'anni, ma la guerra sarà lunga e senza pietà. Chi, in preda allo choc, invoca già una exit strategy non si rende conto che il solo parlarne comporta l'ammissione che non possiamo vincere.
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