lunedì 28 settembre 2009

Unione europea

Cittadinanza e immigrazione: le colpe dell'Europa

Rispondendo a un ascoltatore che si lamentava del ponziopilatismo della Comunità Europea sul problema degli immigrati che sbarcano a frotte sulle nostre coste, Massimo Teodori, conduttore—va detto, con grande equilibrio—della rubrica radiofonica ‘Prima Pagina’, ha fatto rilevare (giustamente) che quel problema non rientra nelle competenze delle istituzioni europee. Sennonché è proprio questa la tragedia dell’Unione europea, la sua incapacità di mettere mano alle sfide epocali che investono le nostre società: in questo caso, la prospettiva di trasformazioni sociali ed etno-culturali che minacciano di stravolgere le nostre tradizioni, i nostri costumi e, alla lunga, le leggi e le istituzioni—dal momento che leggi e istituzioni vengono sempre plasmate da quelli che Tocqueville definiva i ‘moeurs’. Tali trasformazioni possono essere buone o cattive, auspicabili o comunque ritenute inevitabili: in ogni caso, non possono venir lasciate al caso ma vanno sottoposte al popolo sovrano (forse non è inutile ricordare che siamo in democrazia) che, attraverso i suoi rappresentanti, è chiamato a decidere ‘quanto’ e ‘quale’ mutamento è disposto ad accettare e quali costi intende sostenere. Non abbiamo ancora lo stato federale europeo (se mai ce l’avremo) ma una parte sempre più estesa delle leggi che regolano le nostre vite e i nostri rapporti sociali non dipendono più dai governi e dai parlamenti nazionali. Un’immensa, vorace, burocrazia—gli esperti, che nessun giornale intervista, sanno che, in certi settori, il suo grado di corruzione raggiunge livelli tali che al confronto il Palazzo dei Normanni è abitato da una confraternita di arcangeli—legifera, s’impiccia, mette vincoli, fissa regole di buona condotta, produce materiali di studio per centinaia di nuove cattedre universitarie, - cui si aggiungono, piovute da Bruxelles, le cattedre Jean Monnet -, assegna migliaia di borse, finanzia ogni giorno un convegno su ‘quanto s’è fatto e quanto resta ancora da fare’, ma si dichiara impotente in fatto di immigrazione extracomunitaria e si guarda bene dal far pressioni sugli organi competenti—ministri e commissari designati dagli stati membri—perché si rivedano, su un punto così cruciale, i Trattati e se ne estendano le materie. Dinanzi all’urgenza di una legge europea sull’immigrazione, gli eurocrati si trincerano comodamente dietro le normative vigenti e i loro limiti. Gli stati nazionali hanno perduto la pienezza della loro sovranità ma nessun super-stato europeo l’ha acquisita. Siamo in un limbo—potremmo dire, ironicamente, che siamo entrati nell’era del ‘postmoderno’ in politica—in cui ciò che giustifica la nascita dello ‘stato moderno’ e ne legittima la maggior presa sui sudditi divenuti cittadini, a cominciare dallo [ius pacis ac belli], in sostanza, non fa più capo ad alcun organo sicché al potere vessatorio, che hanno le autorità comunitarie sull’agire economico, sulla vita culturale, sui diritti individuali delle nostre società civili, non corrisponde nessun servizio ‘fondamentale’. Anche perché non ci sono eserciti e forze pubbliche europee al servizio di un governo federale, eletto da tutti i cittadini del continente, ristretto nel suo ambito di sua competenza ma in tale ambito fortissimo—giusta la teorizzazione degli immortali autori del ‘Federalist’. Ci troviamo in mezzo al guado con la sensazione penosa che vi rimarremo a lungo e che, nel frattempo, altri stati e altri continenti scriveranno la storia del mondo—e non certo per il piacer nostro. Per di più, avendo adottato il registro dell’ipocrisia, non riusciamo neppure a vedere che ormai le vite degli europei sono così intrecciate che ogni decisione nazionale, in fatto di cittadinanza, ha ricadute incontrollabili sull’intera comunità. E’ il caso della ‘fraternité algerina’ che ha indotto Sarkozy a concedere la cittadinanza francese a tutti gli algerini nati prima del 1962 (sul senso di questa politica, v. il bell’articolo di Gaetano Quagliariello, ‘L’Eliseo raccoglie l’eredità di Charles De Gaulle’ - ‘Libero’26 settembre u.s.), una misura che potrebbe riversare in Europa centinaia di migliaia, se non qualche milione, di ex cittadini del territorio metropolitano d’oltremare. Quanti come me, in gioventù, erano culturalmente liberali e politicamente socialriformisti e federalisti, grazie all’Europa, a questa Europa, hanno fatto tre grandi scoperte:
a. il federalismo è compatibile col vampirismo di apparati di governo elefantiaci, irresponsabili e costosissimi (quante conferme alle diagnosi pessimistiche del grande Friedrich Hayek che allora consideravamo un bieco conservatore!) ;
b. lo stato nazionale non [necessariamente] è nemico del liberalismo e della democrazia (il paese più diffidente nei confronti delle attuali istituzioni europee, non a caso, è il paese che ha inventato il liberalismo moderno, l’Inghilterra);
c. il liberalismo ha bisogno della democrazia per non essere castrato dal non casto connubio tra tecnocrati e giuristi, gli uni e gli altri timorosi, ‘et pour cause’, dell’immaturità ovvero dell’indisponibilità delle masse a venir tartassate per la gioia dei Padoa Schioppa, dei Romano Prodi e degli altri europeisti ‘ante-marcia’ che quando sentono dire [l'europa così com'è non ci piace] evocano tutti i cavalieri dell’Apocalisse ‘fascista’, dal populismo al qualunquismo, dal gretto provincialismo ai rigurgiti di sciovinismo. A riconferma che non solo il ‘patriottismo’ ma anche il suo contrario può diventare the last refuge of a scoundrel.

Dino Cofrancesco

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