domenica 29 marzo 2009

Il commento

Meno male che Fini c'è di Eugenio Scalfari

Era stato concepito come un congresso-show e così si è svolto, ma sarebbe grave errore interpretarlo solo come un evento mediatico. Il Popolo della libertà ha ancora l'apparenza d'un partito di plastilina, malleabile e manipolabile con facilità, ma ha un'armatura di ferro costituita da interessi largamente diffusi nella società italiana: le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro. A suo modo è un blocco sociale che crede di aver trovato la sua rappresentanza e la sua tutela nel carisma berlusconiano. Lo show fa parte della rappresentazione, serve a celebrare il Capo che oggi sarà incoronato; ha anche i suoi aspetti impietosi che rivelano lo spirito del luogo. Uno di tali aspetti l'abbiamo colto nell'esibizione dei quattro giovani che hanno parlato in apertura del congresso. Non tanto per i discorsetti che hanno letto quanto per i gesti di commento del Capo seduto in platea. Quando uno di essi l'ha chiamato eroe lui ha alzato il dito pollice in segno di euforica approvazione e di nuovo l'ha alzato quando un altro ha aggiunto che tutto quanto di buono è stato fatto in Italia lo si deve soltanto a lui. Il giorno dopo, durante il discorso di Fini nei suoi passaggi più dissenzienti, la maschera del Capo era del tutto diversa: un sorriso-smorfia gli increspava le labbra e il teleschermo diffondeva quell'immagine di evidente fastidio che le parole del presidente della Camera gli suscitavano. Intanto la colonna sonora dello show passava dall'inno di Mameli all'inno alla gioia beethoveniano per affidare alla canzone "Meno male che Silvio c'è" la conclusione della sigla musicale. Un'altra osservazione, per restare ancora sullo show: nella grande platea predominavano le bionde e nelle primissime file i giovani e le giovani di bell'aspetto perché al Capo piacevano così e così è stato fatto. Alcune (attendibili) malelingue dicono che per esaurire in modo conveniente i 56 posti a sedere di ogni fila, gli organizzatori siano anche ricorsi ad appositi centri di ricerca di figuranti e comparse, ma forse non è vero. Ci sarebbe molto altro materiale per irridere, ma sarebbe inadatto a commentare un congresso serio e importante; perciò cambiamo registro. La prima conclusione da trarre contrasta con quanto dicono alcuni attendibili sondaggi circa la durata del nuovo partito quando il suo leader non sarà più Silvio Berlusconi. Quei sondaggi dicono a forte maggioranza che il partito si dissolverà, non sopravviverà al suo fondatore. Ma a noi sembra sbagliato. La fusione con Alleanza nazionale non gli porta idee diverse con le quali confrontarsi, ma gli porta una prospettiva di durata che va oltre la sua leadership. Questo sì, è il plusvalore che Forza Italia, se fosse rimasta sola, non aveva. An è meno liquida di Forza Italia, perciò ha maggior resistenza al trascorrere del tempo e questo è il valore aggiunto di questa fusione. Perciò, quale che sarà il leader che verrà dopo Berlusconi, il partito nato oggi ci sarà ancora per lunghi anni e non sarà facile smontare il blocco sociale che intorno ad esso si è coagulato. In altri tempi l'abbiamo creduto ma oggi crederlo ancora sarebbe profondamente sbagliato. La sinistra si dovrà confrontare a lungo e seriamente con questa realtà a cominciare da subito se ci riuscirà. La parola popolo è stata quella più pronunciata nei vari interventi congressuali e soprattutto nel discorso di apertura del premier. Il quale ha fatto di quella parola il pilastro della sua concezione politica e istituzionale. Il popolo sovrano esprime il leader. Nel caso nostro è piuttosto il leader che ha costruito politicamente quel popolo, questo merito (o demerito) gli va onestamente riconosciuto. Tra il popolo e il leader non ci sono intermediari e se ci sono vanno spazzati via o conservati come semplici simboli senza funzioni. Il popolo si esprime plebiscitando il leader e votando per il suo partito e instaura in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, la legittima dittatura della maggioranza che è lo strumento tecnico per trasformare in norme giuridiche e atti di governo le decisioni del Capo. Nel suo discorso di apertura Berlusconi ha fatto un elenco dei valori comuni a tutto il Popolo della libertà. Il primo valore è, ovviamente, la libertà stessa. Il secondo la modernizzazione. Il terzo la meritocrazia. Il quarto l'identità nazionale a formare la quale entrano in gioco il mito della romanità, i Comuni e le Repubbliche marinare del medioevo, il Rinascimento, il Risorgimento, De Gasperi e ovviamente la Chiesa, Craxi e infine lui, il nuovo eroe (scusate se torno ad usare questa parola ma essa fa parte integrante della sostanza della concezione politica berlusconiana). In quel lungo discorso di 90 minuti manca del tutto una menzione. Si parla di libertà, si parla di democrazia, si parla di Costituzione, si parla di giustizia sociale, ma non una menzione e neppure il concetto della divisione dei poteri. Cioè di stato di diritto. Cioè di controllo. I poteri di controllo politico del Parlamento. I poteri di controllo costituzionale del Capo dello Stato e della Corte. I poteri di controllo di legalità della magistratura. Neppure un cenno alla natura indipendente di tali poteri. Si parla invece diffusamente del potere sovraordinato del leader scelto dal popolo di fronte al quale tutti gli altri debbono essere subordinati, rotelle d'un ingranaggio, o debbono scomparire perché inutilmente lenti, frenanti, ostacolanti, incompatibili con la cultura del fare. Il fare non è un obbligo, è inerente alla vita di ciascuno, il fare costituisce il senso stesso della vita. Una vita inerte è una non vita. Non è dunque una cultura, quella del fare, ma un fattore biologico come il respiro, il movimento, il desiderio, la speranza. Insomma il senso. Oppure il fare è una nevrosi, un'egolatria, un'ipertrofia dell'io, che per realizzarsi deve sopra-fare: fare intorno il deserto, sbarazzarsi dei corpi intermedi, di ogni opposizione, di ogni stato di diritto, di ogni organo di controllo. Perciò l'aspirazione e l'evocazione d'un consenso che superi il 50 per cento degli elettori. Le monarchie di diritto divino, quelle dell'"ancien régime", erano collegate al popolo senza intermediari, in lotta perenne contro i Parlamenti e contro i nobili. Lo Stato faceva tutt'uno col patrimonio del Principe, che riuniva in sé il potere di fare le leggi e di eseguirle oppure di ignorarle a suo piacimento. Le monarchie costituzionali (lo dice la parola stessa) furono tali perché soggette alla Costituzione. Perché la magistratura conquistò l'indipendenza. E i Parlamenti divennero i destinatari delle scelte del popolo sovrano. Tutto questo per dire che la concezione politica di Silvio Berlusconi fa a pugni con l'obiettivo della rivoluzione liberale da lui indicato come il fine principale del Popolo della libertà. Ma ci sono altre ragioni per le quali quella rivoluzione non si farà e non s'è mai fatta: gran parte degli interessi agglomerati e rappresentati dal centrodestra sono contrari ad essa così come gli sono contrari gran parte degli interessi rappresentati dalla sinistra. Perciò i tentativi di rivoluzione liberale in questo paese sono sempre falliti. Per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra. Li ha sostenuti soltanto il riformismo nei brevissimi periodi in cui ha governato: nel quindicennio giolittiano del primo Novecento, nella fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni, nelle regioni centro-settentrionali guidate dall'egemonia socialdemocratica del Partito comunista e nel triennio prodiano del 1996-'98 abbattuto dalla sinistra. C'è ancora una pepita di riformismo nel Partito democratico che stenta tuttavia a farne un valore condiviso dai suoi aderenti. Sarà una lotta lunga e dura. Quella di Berlusconi è più facile perché fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l'antipolitica. In nessun paese dell'Occidente l'antipolitica è un sentimento così diffuso e questa è una delle cause che ha ridotto la politica ad un livello poco meno che abietto; è un corpo separato e quindi aggredito e aggredibile da tutte le disfunzioni e da tutti gli inquinamenti. Nel secondo giorno il congresso del Popolo della libertà ha cambiato faccia con il discorso congressuale di Gianfranco Fini. Non sembri una sviolinatura al "compagno" Fini, premio di consolazione ai disagi della sinistra, ma è invece un'analisi oggettiva d'un intervento degno di un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d'un uomo di Stato. Gran parte di quel discorso Fini l'aveva già pronunciata al congresso di scioglimento del suo partito pochi giorni fa, ma averlo ripetuto al congresso del nuovo partito in presenza del suo re incoronato e del suo pubblico devoto e osannante è un atto di coraggio che non si può sottovalutare. All'inizio ha dovuto bruciare qualche grano d'incenso alla lungimiranza di Silvio, alla perseveranza e alle capacità di Silvio, alla sua lealtà e qualche altro grano di assenzio nei confronti della sinistra, della sua incapacità riformatrice e del suo sguardo perennemente rivolto al passato. (Ma Fini ha voluto dimenticare che vengono dalla cultura della sinistra alcune regole di mercato come la creazione della Consob e dell'Autorità antitrust, l'obbligo di trasparenza delle società quotate in Borsa, la legge sull'Offerta pubblica di acquisto-Opa e infine la massima delle riforme della storia italiana, l'abbandono della lira e l'adozione dell'euro. Non sono fatti che smentiscono le sue affermazioni, onorevole Fini?). Ma poi è cominciata la parte vera del discorso ed è allora che il volto del Capo si è impietrito nel sorriso-smorfia e la variazione somatica è apparsa anche evidente sui volti dei suoi ex colonnelli di An. Fini ha detto che il nuovo partito dev'essere pluralista. Che su Berlusconi, capo indiscusso, incombe però il compito di garantire quel pluralismo. Che è necessario intraprendere una riforma costituzionale per instaurare una democrazia governante. Ha insistito tre volte su questo binomio e la terza volta l'ha scandito perché entrasse nella memoria degli ascoltatori. E ne ha spiegato il senso: maggior potere al governo e al premier per governare con la rapidità richiesta dai tempi; ma anche maggiori poteri di controllo democratico al Parlamento. Se non è governante la democrazia affonda, se non è democratica si trasforma in autocrazia. Le due parole stanno insieme o affondano insieme. Ha parlato del principio di legalità (che Berlusconi non aveva neppure nominato) come dire dello stato di diritto. Ha auspicato che il Partito democratico si riconsolidi ricordando che esso è portatore di valori necessari ad una democrazia compiuta. Ha descritto come sarà l'Italia tra dieci anni, pluri-etnica, pluri-religiosa, pluri-culturale, e quindi la necessità di prepararsi a questi eventi soprattutto nella scuola, nelle norme di integrazione e nel rispetto dei diritti ai quali debbono corrispondere i doveri sia dei cittadini che degli immigrati. Ha ricordato il diritto di esser curati anche per gli immigrati clandestini. Il finale a sorpresa l'ha introdotto con una citazione latina: "In cauda venenum". E poi: "La legge che avete votato al Senato sul testamento biologico è una cattiva legge, lede i diritti di libertà. So di essere in minoranza su questa questione e sul mio concetto di laicità dello Stato, ma mi auguro che ci ripensiate". Così ha concluso. Se avesse un Apicella, forse gli scriverebbe una canzone e la intitolerebbe "Meno male che Fini c'è" ma forse lui invece di alzare il pollice, gliela strapperebbe in faccia. O almeno così si spera.

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