Era la roccaforte dell’Old labour. Vantava il più grande cantiere navale del mondo. Oggi è arrugginito. E la gente si dà all’alcol e alla xenofobia. «Fanno lavorare i polacchi. Come possiamo non odiarli?» Sono passate le 16 di un sabato pomeriggio di inizio marzo e al Jackson’s - l’unico pub della Lower Dundas Street - è in corso l’evento più importante della settimana: la squadra di casa, il Sunderland, gioca contro il Tottenham nella speranza di allontanarsi dalla bassa classifica del campionato inglese. Gli avventori sono tutti uomini, intenti a contemplare lo schermo in silenzio seduti intorno a tavoli pieni di pinte di birra. Hanno l’aspetto un po’ dimesso. Ogni tanto qualcuno mugugna e protesta per un fallo. Ma non succede granché. Il Sunderland strappa solo un pareggio. E dopo il fischio finale il chiacchiericcio riprende e ricomincia la vita di prima. «Calcio, calcio e ancora calcio» scherza Patricia Burnell, la barista. «E anche disoccupazione. Sono questi, i principali argomenti di conversazione dei miei clienti. Su dieci che entrano da quella porta, uno solo ha un impiego fisso. Gli altri vivono di sussidi ed espedienti. La partita è l’unico momento in cui riescono a dimenticare i loro problemi». Fuori dal locale, la città sembra morta. Le strade sono vuote e le serrande dei negozi abbassate, alcune da mesi o anni. Bisognerà aspettare la sera, perché i giovani si riversino in strada per l’ennesimo weekend di musica e alcool. Benvenuti a Sunderland, piccola località della costa orientale inglese. Fino alla prima metà del secolo scorso, i suoi abitanti potevano vantarsi di vivere nel più importante cantiere navale del mondo, circondato da miniere con tonnellate di carbone. E avrebbero guardato con tranquillità al G20 che si apre il 2 aprile a Londra. Oggi questo luogo, come Newcastle, Gateshead, Durham County e Middlesbrough, fa parte di una regione - il Northeast - che da spina dorsale dell’industria pesante e manifatturiera britannica, è diventato il fanalino di coda dell’economia nazionale. Le miniere hanno cominciato a chiudere a metà degli anni Ottanta tra violenti scioperi e proteste, e così pure gli shipyards, i cantieri navali dove generazioni di operai avevano piegato l’acciaio sotto cieli perennemente grigi, ma almeno con una busta paga a fine mese. Quei giorni sembrano appartenere al passato. Oggi lo stipendio medio a Sunderland è di 383 sterline settimanali (circa 407 euro) contro le 479 della media nazionale (510 euro), uno degli ultimi cinque in tutto il Paese. Per migliaia di ex-lavoratori, il tempo viene scandito dalle umilianti visite mensili negli uffici comunali a ritirare il “dole” (il sussidio statale), e il benessere ha lasciato terreno a disoccupazione (nel Nordest è ai massimi nazionali con l’8,2 per cento), disagio sociale e alcolismo. Una miscela esplosiva che, con l’attuale crisi economica, rischia di rendere questa regione inglese ancora più simile al nostro Sud. O di causare forti ondate di protesta, quando uno dei beni più rari e preziosi - il lavoro - viene dato in appalto a stranieri, come nel caso degli operai italiani nel Lincolnshire a fine gennaio. Nella sola Sunderland si stima che nel 2009 perderanno il lavoro altre tremila persone, che finiranno nel bacino dei 3,3 milioni di disoccupati previsti in Gran Bretagna entro la fine della recessione. Ne sanno qualcosa allo stabilimento della Nissan, appena fuori dalla città. Inaugurato nel 1986, e attualmente il più grosso produttore di macchine nel Regno Unito, aveva portato cinquemila nuove assunzioni e una ventata di sollievo. Poi, a gennaio, in piena crisi del settore automobilistico, l’annuncio-shock: 1.200 posti di lavori “axed”, tagliati con l’accetta. Tra gli operai in mezzo alla strada c’è anche Mark Derrick, 34 anni, tre figli a carico e tanta rabbia: «Ero lì da 12 anni e guadagnavo 400 sterline la settimana (426 euro). Ora sono a casa, e adesso al mio posto c’è un operaio polacco. Lo Stato mi passa 240 sterline al mese (255) e me le devo far bastare per tutta la famiglia. Nessuno si stupisca se ce la prendiamo con gli stranieri». Per anni Derrick ha votato Labour. Oggi invece è sostenitore del British national party (Bnp), il partito dell’ultra-destra nazionalista xenofoba che continua a raccogliere consensi nel Nordovest e nel Centro dell’Inghilterra, incolpando gli immigrati per la recessione e fomentando rivolte sociali. A Sunderland e nel Nordest laburista le teorie xenofobe del Bnp attecchiscono meno, anche perché la presenza di immigrati è ridotta. Ma in una terra segnata dalla disoccupazione, la logica del “British jobs for British workers” è condivisa da tutti. «Sono d’accordo con loro, noi inglesi dobbiamo avere la priorità» dice Kevin McKenna, 31 anni e un brutto passato alle spalle. Dopo aver perso il posto nelle miniere di Durham, il padre non ha più smesso di bere, lasciando che lui si cacciasse nei guai: droga, risse, rapine, arresti, ricoveri per abuso di alcool. Storie molto comuni, tra i giovani di qui. Kevin va avanti grazie al sussidio e al cosiddetto “fiddle”, la pratica dei lavoretti in nero pagati in contanti a fine giornata. «Non ne faccio una questione di razzismo» precisa. «Solo di buonsenso. Se adesso gli stranieri ci rubano anche il lavoro, qui scoppieranno rivolte». Fino ad allora, l’unica soluzione per arrotondare i miseri contributi statali è quella di affinare l’arte di arrangiarsi. Alto quasi un metro e novanta, stazza da pugile e berretto nero di lana, Kevin Whitehead, 53 anni, non ha un lavoro dal 1986, quando fu licenziato dal cantiere navale di Sunderland. Quasi un quarto di secolo dopo, le mani e la faccia portano i marchi di decine di scazzottate a colpi di bottiglia nei bassifondi della città: tagli, nocche rotte, legamenti fuori uso e una lunga cicatrice che gli attraversa la guancia sinistra. Il curriculum di un picchiatore di professione, che oggi riscuote pagamenti per la malavita di Londra. «Questa città mi ha preso a schiaffi da quando ero giovane» dice Whitehead. «Un giorno lavori e hai una moglie. Il giorno dopo sei in mezzo a una strada senza un soldo. Se non ti arrangi, non sopravvivi». La crisi minaccia anche le casse dello Stato. A dicembre, il numero di richiedenti sussidio in tutto il Paese ha superato il milione. E a Sunderland e nel Nordest i sussidi sono tutto. «Il rischio di una crisi fiscale è reale» commenta David Byrne, professore di sociologia all’università di Durham, che prevede anni bui. «Questo istituto è uno dei più prestigiosi del Regno Unito, ma i nostri studenti già sanno che, una volta laureati, non ci sarà quasi nulla per loro». Eppure c’è anche chi lascia spazio all’ottimismo. È Mark, 20 anni, studente di ingegneria meccanica della piccola università di Sunderland. La maggior parte dei suoi compagni dice di volersene andare appena finiti gli studi. Lui no. Dopotutto tra 1998 e 2008, prima della crisi, la città aveva investito nel settore dei servizi, riuscendo a creare la cifra record di 14mila posti di lavoro: «È vero, qui è pieno di disoccupati, ma mio nonno è stato un minatore e conosco bene l’etica di questa gente. A breve saranno avviati nuovi progetti tecnologici in tutta la regione. Voglio restare qui e credere nello sviluppo della mia città».
Pablo Trincia
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