Sukaina è una delle circa 200 candidate (per lo più di fede sciita, una minoranza nella penisola arabica), che hanno partecipato alla kermesse ideata in funzione dell’elezione di miss Arabia Saudita. A dire il vero, il titolo esatto che viene attribuito alla vincitrice sarebbe “Regina della bella moralità”, quest’anno alla sua seconda edizione, ed avrebbe la malcelata ambizione di celebrare il prototipo della perfetta donna araba e musulmana. Per circa dieci settimane le ragazze hanno frequentato, a Safwa, una città non a caso a maggioranza sciita, corsi preparatori su temi rigorosamente conciliabili con il rigido protocollo wahabita. Scopriamo così che la miss saudita deve aver primeggiato nel corso “scoprire la vostra forza interna” (che sa vagamente di training autogeno) o, ancora, in quello intitolato “madre, il paradiso è ai tuoi piedi“, (che richiama un proverbio attribuito a Maometto), volto a sottolineare l'importanza del rispetto verso i genitori nell’islam. Le candidate, hanno anche trascorso un giorno con la propria madre in una casa di campagna, osservate da giudici esclusivamente femminili, pronte ad annotare le eventuali sbavature nel loro comportamento obbediente. Nessun contributo audiovisivo. Nessun uomo ammesso in alcun modo, condizione che ha permesso alle partecipanti di potersi muovere senza indossare l’abaya, il lungo abito nero che le accompagna nelle apparizioni pubbliche. Ed è nel classico scafandro nero, tanto simile al burqa, che è stata presentata ai fotografi la vincitrice, Aya Ali Al-Mulla, 18 anni, accompagnata dalle due ancelle battute sul filo di lana. Tutte e tre, manco a dirlo, portavano l’abaya. Mentre lo speaker magnificava il trittico vincente, i giornalisti si affannavano in primi piani degli occhi, unica parte del corpo realmente apprezzabile, fra il goffrato monocromatico del vestito (chiamiamolo così), protocollare.Dunque la “Regina della bella moralità” non primeggia per la bellezza, quanto per il suo altruismo ed i buoni risultati scolastici. Fondamentale la prova di “obbedienza”. Al di là del premio elargito (un girocollo di perle ed un altro di diamanti, un orologio in diamanti, un biglietto per un soggiorno in Malesia ed un simbolico assegno di 5.000 riyals, ossia 930 euro), è legittimo riflettere su cosa rappresenti realmente questo concorso. Forse la risposta potrebbe essere data proprio da Zhara al-Shurafa, la vincitrice della prima edizione. Dall’alto dei suoi ventuno anni, ha suggerito alle candidate di questa edizione “che guadagnare non è importante, quanto piuttosto obbedire ai propri genitori”. Dunque, miss Arabia Saudita rappresenta i costumi islamici della società araba DOC. Un target che, statene certi, si replicherà nell’altra kermesse ricorrente, l’elezione della più bella miss araba, dove sfilano le vincitrici delle varie nazioni ad etnia araba (ed i razzisti saremmo noi), dal Marocco al Kuwait. Con un’amarezza per questa scelta razzista: non poter primeggiare con le nostre imbattibili suore Orsoline.
martedì 4 agosto 2009
Mia cara Miss...
Miss Arabia Saudita 2009, ovvero “la donna invisibile” di Maurizio De Santis
Sukaina è una delle circa 200 candidate (per lo più di fede sciita, una minoranza nella penisola arabica), che hanno partecipato alla kermesse ideata in funzione dell’elezione di miss Arabia Saudita. A dire il vero, il titolo esatto che viene attribuito alla vincitrice sarebbe “Regina della bella moralità”, quest’anno alla sua seconda edizione, ed avrebbe la malcelata ambizione di celebrare il prototipo della perfetta donna araba e musulmana. Per circa dieci settimane le ragazze hanno frequentato, a Safwa, una città non a caso a maggioranza sciita, corsi preparatori su temi rigorosamente conciliabili con il rigido protocollo wahabita. Scopriamo così che la miss saudita deve aver primeggiato nel corso “scoprire la vostra forza interna” (che sa vagamente di training autogeno) o, ancora, in quello intitolato “madre, il paradiso è ai tuoi piedi“, (che richiama un proverbio attribuito a Maometto), volto a sottolineare l'importanza del rispetto verso i genitori nell’islam. Le candidate, hanno anche trascorso un giorno con la propria madre in una casa di campagna, osservate da giudici esclusivamente femminili, pronte ad annotare le eventuali sbavature nel loro comportamento obbediente. Nessun contributo audiovisivo. Nessun uomo ammesso in alcun modo, condizione che ha permesso alle partecipanti di potersi muovere senza indossare l’abaya, il lungo abito nero che le accompagna nelle apparizioni pubbliche. Ed è nel classico scafandro nero, tanto simile al burqa, che è stata presentata ai fotografi la vincitrice, Aya Ali Al-Mulla, 18 anni, accompagnata dalle due ancelle battute sul filo di lana. Tutte e tre, manco a dirlo, portavano l’abaya. Mentre lo speaker magnificava il trittico vincente, i giornalisti si affannavano in primi piani degli occhi, unica parte del corpo realmente apprezzabile, fra il goffrato monocromatico del vestito (chiamiamolo così), protocollare.Dunque la “Regina della bella moralità” non primeggia per la bellezza, quanto per il suo altruismo ed i buoni risultati scolastici. Fondamentale la prova di “obbedienza”. Al di là del premio elargito (un girocollo di perle ed un altro di diamanti, un orologio in diamanti, un biglietto per un soggiorno in Malesia ed un simbolico assegno di 5.000 riyals, ossia 930 euro), è legittimo riflettere su cosa rappresenti realmente questo concorso. Forse la risposta potrebbe essere data proprio da Zhara al-Shurafa, la vincitrice della prima edizione. Dall’alto dei suoi ventuno anni, ha suggerito alle candidate di questa edizione “che guadagnare non è importante, quanto piuttosto obbedire ai propri genitori”. Dunque, miss Arabia Saudita rappresenta i costumi islamici della società araba DOC. Un target che, statene certi, si replicherà nell’altra kermesse ricorrente, l’elezione della più bella miss araba, dove sfilano le vincitrici delle varie nazioni ad etnia araba (ed i razzisti saremmo noi), dal Marocco al Kuwait. Con un’amarezza per questa scelta razzista: non poter primeggiare con le nostre imbattibili suore Orsoline.
Sukaina è una delle circa 200 candidate (per lo più di fede sciita, una minoranza nella penisola arabica), che hanno partecipato alla kermesse ideata in funzione dell’elezione di miss Arabia Saudita. A dire il vero, il titolo esatto che viene attribuito alla vincitrice sarebbe “Regina della bella moralità”, quest’anno alla sua seconda edizione, ed avrebbe la malcelata ambizione di celebrare il prototipo della perfetta donna araba e musulmana. Per circa dieci settimane le ragazze hanno frequentato, a Safwa, una città non a caso a maggioranza sciita, corsi preparatori su temi rigorosamente conciliabili con il rigido protocollo wahabita. Scopriamo così che la miss saudita deve aver primeggiato nel corso “scoprire la vostra forza interna” (che sa vagamente di training autogeno) o, ancora, in quello intitolato “madre, il paradiso è ai tuoi piedi“, (che richiama un proverbio attribuito a Maometto), volto a sottolineare l'importanza del rispetto verso i genitori nell’islam. Le candidate, hanno anche trascorso un giorno con la propria madre in una casa di campagna, osservate da giudici esclusivamente femminili, pronte ad annotare le eventuali sbavature nel loro comportamento obbediente. Nessun contributo audiovisivo. Nessun uomo ammesso in alcun modo, condizione che ha permesso alle partecipanti di potersi muovere senza indossare l’abaya, il lungo abito nero che le accompagna nelle apparizioni pubbliche. Ed è nel classico scafandro nero, tanto simile al burqa, che è stata presentata ai fotografi la vincitrice, Aya Ali Al-Mulla, 18 anni, accompagnata dalle due ancelle battute sul filo di lana. Tutte e tre, manco a dirlo, portavano l’abaya. Mentre lo speaker magnificava il trittico vincente, i giornalisti si affannavano in primi piani degli occhi, unica parte del corpo realmente apprezzabile, fra il goffrato monocromatico del vestito (chiamiamolo così), protocollare.Dunque la “Regina della bella moralità” non primeggia per la bellezza, quanto per il suo altruismo ed i buoni risultati scolastici. Fondamentale la prova di “obbedienza”. Al di là del premio elargito (un girocollo di perle ed un altro di diamanti, un orologio in diamanti, un biglietto per un soggiorno in Malesia ed un simbolico assegno di 5.000 riyals, ossia 930 euro), è legittimo riflettere su cosa rappresenti realmente questo concorso. Forse la risposta potrebbe essere data proprio da Zhara al-Shurafa, la vincitrice della prima edizione. Dall’alto dei suoi ventuno anni, ha suggerito alle candidate di questa edizione “che guadagnare non è importante, quanto piuttosto obbedire ai propri genitori”. Dunque, miss Arabia Saudita rappresenta i costumi islamici della società araba DOC. Un target che, statene certi, si replicherà nell’altra kermesse ricorrente, l’elezione della più bella miss araba, dove sfilano le vincitrici delle varie nazioni ad etnia araba (ed i razzisti saremmo noi), dal Marocco al Kuwait. Con un’amarezza per questa scelta razzista: non poter primeggiare con le nostre imbattibili suore Orsoline.
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