giovedì 27 agosto 2009

Italia razzista

La bimba che fa paura agli Usa. Adottata ma respinta per la Tbc. Curata a Milano

MILANO
- Quando l’incontrano per la prima volta, Tsehaynesh, che in amarico vuol dire Tu-sei-il-sole, si dondola sull’altalena dell’orfanotrofio di Addis Abeba. Sono le due del pomeriggio del 28 luglio. Per coronare il sogno di avere un figlio l’economista italiano Luca Rigotti e la moglie americana Marily Nixon hanno appena attraversato l’Oceano, 18 ore di volo dagli Stati Uniti all’Etiopia, quasi due anni d’attesa per completare le pratiche burocratiche. Finalmente tutto sembra pronto per portare nella nuova casa la bambina, 4 anni, i genitori naturali morti entrambi nel giro di pochi anni e sei fratelli che tirano a campare con mezzo ettaro di terra nella sperduta campagna africana. Niente di fatto, invece. Il suo test per la tubercolosi risulta positivo. Il visto per gli Usa viene bloccato. È quanto prevedono le ultime norme americane sull’immigrazione diventate operative per le adozioni in Etiopia lo scorso 1˚ aprile. Misure restrittive criticate anche dal Washington Post. Per Tsehaynesh è impossibile salire sull’aereo per Chapel Hill, Carolina del Nord. Poco importa se è solo una bambina e per i medici non è in grado di contagiare nessuno. Così cambia lo scenario. Oggi la bimba rifiutata dagli Stati Uniti è a Milano. In cura alla clinica pediatrica De Marchi. E da qui parte la battaglia dei genitori adottivi per potere tornare in America tutti e tre insieme. Il prima possibile. «Per le leggi statunitensi avremmo dovuto lasciarla in Etiopia, aspettare due mesi e mezzo per avere i risultati di altri esami medici e, poi, ancora due/tre settimane per farle seguire eventuali cure contro la tubercolosi — dice Luca Rigotti, 46 anni, milanese, laureato all’Università Bocconi e docente alla Duke University —. Tsehaynesh si sarebbe trovata sola un’altra volta. Assurdo». Non è l’unico a pensarla così. Le storie di genitori costretti a rientrare negli Usa senza i bambini adottati in Etiopia e in Cina iniziano a rincorrersi sulla stampa Usa. Un articolo del Washington Post si conclude con l’immagine di una bimba cinese di 4 anni, Harper Yue, che grida: «Papà, papà, papà». L’uomo che aveva appena imparato a conoscere aveva dovuto andarsene via. «Eppure questi bambini non sono in grado di infettare praticamente nessuno — spiega Lee B. Reichman alla guida del Global Tuberculosis Institute della New Jersey Medical School —. Possono prendere la tubercolosi dagli adulti, ma non trasmetterla. La loro carica batterica è troppo bassa». Luca Rigotti e Marily Nixon sono riusciti a cavarsela in un altro modo. L’idea di portare Tsehaynesh in Italia risale ai primi di agosto. Viene contattato il Centro del bambino viaggiatore della De Marchi. Decisione azzeccata. Con una lettera al console italiano in Etiopia, Paolo Di Gianantonio, la responsabile dell’unità di Infettivologia pediatrica, Susanna Esposito, rende disponibile un ricovero immediato a Milano. «Sulla base della storia clinica e del referto radiologico la bambina non sembra presentare una forma di tubercolosi contagiosa e non richiede, quindi, particolari precauzioni durante il viaggio aereo — si legge nel documento —. Ma è importante iniziare quanto prima a curarla». Tac al torace, esami del sangue e valutazioni batterioscopiche confermano che Tsehaynesh non rischia di contagiare nessuno. È venuta in contatto con la Tbc nei primi mesi di vita: l’infezione, però, è rimasta latente. «Ma le cure sono fondamentali per evitare alla malattia di esplodere nei prossimi anni — sottolinea Esposito —. La bambina ha iniziato da più di due settimane una terapia antitubercolare a base di tre farmaci. È in via di guarigione totale». Nei prossimi giorni il medico della De Marchi spedirà una relazione clinica ai Centers for disease control and prevention di Atlanta nella speranza di convincere gli Usa a rilasciare il visto. Altrimenti Tsehaynesh e i genitori dovranno restare in Italia ancora un altro mese e mezzo. In attesa dei risultati dei nuovi test medici in grado di escludere una volta per tutte la tubercolosi. Ma almeno lei è riuscita ad andarsene e a curarsi. Durante la festa d’addio, con addosso un vestito di lino bianco dai bordi color oro, ascolta la canzone che le dedicano gli altri bambini dell’orfanotrofio di Addis Abeba. Il ritornello dice: «Che bello partire...».

Simona Ravizza

1 commenti:

100% Antikomunista ha detto...

Toh, gli Usa del multiculturale Obama sono più razzisti dell' Italia nazifascista?

E Don Sciortino, il Kompagno Fini, il PD non dicono niente?