Oggi è una di quelle giornate, a lungo desiderate, in cui gli Italiani hanno finalmente potuto rallegrarsi riconoscendo che qualcosa comincia a funzionare. Troppo a lungo è durato il disordine, l’insicurezza, l’angoscia di non sentirsi a casa propria, di non avere il diritto, cui ogni uomo ha sempre e dovunque aspirato, di chiudere la porta alle proprie spalle lasciando fuori, concretamente e simbolicamente, ciò che è estraneo. Non avrebbe dovuto essere necessaria una legge per stabilire che è reato entrare di nascosto in casa altrui: il possesso del proprio territorio è un diritto istintivo, che tutti gli animali possiedono e che nell’uomo, come per tutti gli altri istinti, è molto più forte perché ha assunto innumerevoli dimensioni significative. Dimensioni analoghe, al di là del tempo e dello spazio, presso tutti i popoli: da quelli di livello etnologico a quelli delle più mature civiltà, dall’India alla Cina, alla Grecia, a Roma. Gli antropologi, gli archeologi, gli storici hanno raccolto e messo a confronto i riti territoriali nei luoghi più diversi e non hanno mai mancato di rilevare la presenza profonda del ”Sacro” che lega e sostanzia l’identità di un gruppo, formandolo come gruppo sempre e soltanto in quanto si riconosce appartenente ad una stessa terra. Il gesto di Romolo che solca con l’aratro il perimetro del territorio di Roma è appunto un gesto sacrale, con il quale il Fondatore ne identifica l’appartenenza ai Romani. E’ un’appartenenza biunivoca: quel territorio è sacro in quanto appartiene al Popolo Romano; il Popolo Romano è tale in quanto custodisce quel territorio. Ma ogni popolo si trova nella stessa condizione, psicologica oltre che sociale: il territorio sacro della patria è il legame fondante del gruppo, tanto che anche presso i popoli più “primitivi”, così come nell’antica Grecia, sebbene viga per molti reati la pena di morte, colui che uccide un suo concittadino riceve l’unica condanna pari al suo delitto: viene espulso dal territorio. L’ha “profanato”, non perché ha versato del sangue (come spesso è stato affermato), ma perché, avendo ucciso uno dei propri confratelli, ha rotto il sacro legame che lo unisce a quella terra. Del resto chi non ricorda la sacralità del gesto di Papa Wojtyla di chinarsi, scendendo dalla scaletta dell’aereo, a baciare la terra di ogni Paese dove giungeva? Oggi, dunque, l’ordine che viene ripristinato in Italia è un ordine primario essenziale. Ed è su questo fatto, su nient’altro che su questo fatto che siamo tutti chiamati a riflettere. Non si tratta di fornirsi di un supplemento di generosità, di compassione, di tolleranza; né di problemi contingenti che possano essere risolti con la buona volontà; ma di chiedersi realisticamente, senza veli ideali, in quale modo potrebbe sussistere un mondo nel quale, come auspicano i fautori dell’uguaglianza universale, non esistano più patrie, popoli, religioni, costumi, governi diversi. Non fingiamo di non saperlo: la pressione che ormai da diversi anni viene fatta dai governanti, dai politici, dai leader religiosi di tutte le Nazioni dell’Occidente affinché milioni di stranieri vi si riversino abbandonando la propria terra, è dovuta soltanto in minima parte alla povertà o ai disordini tribali; anzi, per essere più precisi, bisogna dire che si spendono inutilmente cifre enormi e spesso si finisce con l’aumentare i problemi del Terzo Mondo con le spericolate avventure del commercio mondiale e delle coltivazioni programmate dell’Europa, proprio per indurre i popoli ad emigrare, e per convincere l’opinione pubblica che l’unica soluzione sono le migrazioni. Di fatto è questo che si vuole: un mondo tutto uguale, privo di conflitti, e che sia perciò possibile governare democraticamente attraverso istituzioni mondiali simili a quelle che già in parte sono state organizzate come l’ONU, il Fondo Monetario mondiale, il Tribunale Penale Internazionale. C’è una crudeltà, una spietatezza terribile in questo progetto, che pur sembra a primo sguardo tanto bello. Prima di tutto, naturalmente, proprio verso i popoli che emigrano. Anche per loro rinunciare alla patria, alla lingua, ai costumi, alla storia è un’esperienza dolorosissima e, checché ne pensino i fautori dell’integrazione, questa è una chimera. Ogni essere umano cerca la compagnia dei suoi simili, e in ogni paese gli emigrati hanno ricreato il loro territorio: la “Little Italy”, la “ Little China” e così via. Questo però è successo negli immensi paesi come gli Stati Uniti d’America, come l’Australia dove c’è una tale abbondanza di spazio che l’immigrazione era indispensabile per poter far sviluppare una civiltà, pur addensandosi in rapporto al proprio gruppo di provenienza. In Australia ancor oggi c’è una densità di 2 abitanti per chilometro quadrato; in America di 24 abitanti per chilometro quadrato. Gli Europei, gli Italiani che sono emigrati, sapevano bene che andavano alla conquista di un “Nuovo Mondo”. Ma la crudeltà, la spietatezza di questo progetto riguarda soprattutto noi, coloro che tutti i giorni vengono spronati a suicidarsi, a conculcare i propri diritti, i propri sentimenti, a calpestare la propria storia, la propria intelligenza. In Europa, infatti, in Italia, lo spazio è pochissimo, occupato da strati su strati di antichissimi insediamenti e la densità demografica è al di sopra di qualsiasi livello di guardia. Non c’è posto per nessun tipo di separazione, per nessun quartiere etnico. Inoltre la pressione numerica degli immigrati è diventata subito pressione di culture, di costumi, di lingue, di cibi, di riti, di religioni. E’ forza di conquista, non di sudditanza. Essi sanno bene che i numeri sono dalla loro parte, che i leader sono dalla loro parte. Malgrado quindi l’ottimismo che sociologi, psicologi, economisti, politici, giornalisti, si sforzano di inculcare nei popoli d’Europa, si sente bene che si respira aria di morte. Forse la ricerca così affannosa e vuota di divertimento, di sfrenatezza, di droghe, di inutile movimento, ne è la conseguenza; segnale della volontà di stordirsi, di non fermarsi neppure per un attimo a pensare quale sarà il prossimo futuro. I governanti ritengono che almeno per loro andrà bene? Può darsi; anzi si è costretti a crederlo altrimenti non si riesce a capire quale sia la logica che guida il loro comportamento. Le Sinistre, però, massime propugnatrici del nuovo ordine mondiale, stanno perdendo consensi ovunque; e se continuano a lavorare contro gli interessi dei popoli, finiranno, come è successo ad alcuni gruppi di sinistra in Italia, con lo sparire dalla vita politica. C’è la possibilità di reagire, quindi; ed per questo motivo che le nuove norme da oggi in vigore appaiono, per quanto piccolo sia il loro raggio d’azione, cariche di grande speranza.
domenica 16 agosto 2009
Difendere se stessi
Un diritto naturale difendere il proprio territorio di Ida Magli
Oggi è una di quelle giornate, a lungo desiderate, in cui gli Italiani hanno finalmente potuto rallegrarsi riconoscendo che qualcosa comincia a funzionare. Troppo a lungo è durato il disordine, l’insicurezza, l’angoscia di non sentirsi a casa propria, di non avere il diritto, cui ogni uomo ha sempre e dovunque aspirato, di chiudere la porta alle proprie spalle lasciando fuori, concretamente e simbolicamente, ciò che è estraneo. Non avrebbe dovuto essere necessaria una legge per stabilire che è reato entrare di nascosto in casa altrui: il possesso del proprio territorio è un diritto istintivo, che tutti gli animali possiedono e che nell’uomo, come per tutti gli altri istinti, è molto più forte perché ha assunto innumerevoli dimensioni significative. Dimensioni analoghe, al di là del tempo e dello spazio, presso tutti i popoli: da quelli di livello etnologico a quelli delle più mature civiltà, dall’India alla Cina, alla Grecia, a Roma. Gli antropologi, gli archeologi, gli storici hanno raccolto e messo a confronto i riti territoriali nei luoghi più diversi e non hanno mai mancato di rilevare la presenza profonda del ”Sacro” che lega e sostanzia l’identità di un gruppo, formandolo come gruppo sempre e soltanto in quanto si riconosce appartenente ad una stessa terra. Il gesto di Romolo che solca con l’aratro il perimetro del territorio di Roma è appunto un gesto sacrale, con il quale il Fondatore ne identifica l’appartenenza ai Romani. E’ un’appartenenza biunivoca: quel territorio è sacro in quanto appartiene al Popolo Romano; il Popolo Romano è tale in quanto custodisce quel territorio. Ma ogni popolo si trova nella stessa condizione, psicologica oltre che sociale: il territorio sacro della patria è il legame fondante del gruppo, tanto che anche presso i popoli più “primitivi”, così come nell’antica Grecia, sebbene viga per molti reati la pena di morte, colui che uccide un suo concittadino riceve l’unica condanna pari al suo delitto: viene espulso dal territorio. L’ha “profanato”, non perché ha versato del sangue (come spesso è stato affermato), ma perché, avendo ucciso uno dei propri confratelli, ha rotto il sacro legame che lo unisce a quella terra. Del resto chi non ricorda la sacralità del gesto di Papa Wojtyla di chinarsi, scendendo dalla scaletta dell’aereo, a baciare la terra di ogni Paese dove giungeva? Oggi, dunque, l’ordine che viene ripristinato in Italia è un ordine primario essenziale. Ed è su questo fatto, su nient’altro che su questo fatto che siamo tutti chiamati a riflettere. Non si tratta di fornirsi di un supplemento di generosità, di compassione, di tolleranza; né di problemi contingenti che possano essere risolti con la buona volontà; ma di chiedersi realisticamente, senza veli ideali, in quale modo potrebbe sussistere un mondo nel quale, come auspicano i fautori dell’uguaglianza universale, non esistano più patrie, popoli, religioni, costumi, governi diversi. Non fingiamo di non saperlo: la pressione che ormai da diversi anni viene fatta dai governanti, dai politici, dai leader religiosi di tutte le Nazioni dell’Occidente affinché milioni di stranieri vi si riversino abbandonando la propria terra, è dovuta soltanto in minima parte alla povertà o ai disordini tribali; anzi, per essere più precisi, bisogna dire che si spendono inutilmente cifre enormi e spesso si finisce con l’aumentare i problemi del Terzo Mondo con le spericolate avventure del commercio mondiale e delle coltivazioni programmate dell’Europa, proprio per indurre i popoli ad emigrare, e per convincere l’opinione pubblica che l’unica soluzione sono le migrazioni. Di fatto è questo che si vuole: un mondo tutto uguale, privo di conflitti, e che sia perciò possibile governare democraticamente attraverso istituzioni mondiali simili a quelle che già in parte sono state organizzate come l’ONU, il Fondo Monetario mondiale, il Tribunale Penale Internazionale. C’è una crudeltà, una spietatezza terribile in questo progetto, che pur sembra a primo sguardo tanto bello. Prima di tutto, naturalmente, proprio verso i popoli che emigrano. Anche per loro rinunciare alla patria, alla lingua, ai costumi, alla storia è un’esperienza dolorosissima e, checché ne pensino i fautori dell’integrazione, questa è una chimera. Ogni essere umano cerca la compagnia dei suoi simili, e in ogni paese gli emigrati hanno ricreato il loro territorio: la “Little Italy”, la “ Little China” e così via. Questo però è successo negli immensi paesi come gli Stati Uniti d’America, come l’Australia dove c’è una tale abbondanza di spazio che l’immigrazione era indispensabile per poter far sviluppare una civiltà, pur addensandosi in rapporto al proprio gruppo di provenienza. In Australia ancor oggi c’è una densità di 2 abitanti per chilometro quadrato; in America di 24 abitanti per chilometro quadrato. Gli Europei, gli Italiani che sono emigrati, sapevano bene che andavano alla conquista di un “Nuovo Mondo”. Ma la crudeltà, la spietatezza di questo progetto riguarda soprattutto noi, coloro che tutti i giorni vengono spronati a suicidarsi, a conculcare i propri diritti, i propri sentimenti, a calpestare la propria storia, la propria intelligenza. In Europa, infatti, in Italia, lo spazio è pochissimo, occupato da strati su strati di antichissimi insediamenti e la densità demografica è al di sopra di qualsiasi livello di guardia. Non c’è posto per nessun tipo di separazione, per nessun quartiere etnico. Inoltre la pressione numerica degli immigrati è diventata subito pressione di culture, di costumi, di lingue, di cibi, di riti, di religioni. E’ forza di conquista, non di sudditanza. Essi sanno bene che i numeri sono dalla loro parte, che i leader sono dalla loro parte. Malgrado quindi l’ottimismo che sociologi, psicologi, economisti, politici, giornalisti, si sforzano di inculcare nei popoli d’Europa, si sente bene che si respira aria di morte. Forse la ricerca così affannosa e vuota di divertimento, di sfrenatezza, di droghe, di inutile movimento, ne è la conseguenza; segnale della volontà di stordirsi, di non fermarsi neppure per un attimo a pensare quale sarà il prossimo futuro. I governanti ritengono che almeno per loro andrà bene? Può darsi; anzi si è costretti a crederlo altrimenti non si riesce a capire quale sia la logica che guida il loro comportamento. Le Sinistre, però, massime propugnatrici del nuovo ordine mondiale, stanno perdendo consensi ovunque; e se continuano a lavorare contro gli interessi dei popoli, finiranno, come è successo ad alcuni gruppi di sinistra in Italia, con lo sparire dalla vita politica. C’è la possibilità di reagire, quindi; ed per questo motivo che le nuove norme da oggi in vigore appaiono, per quanto piccolo sia il loro raggio d’azione, cariche di grande speranza.
Oggi è una di quelle giornate, a lungo desiderate, in cui gli Italiani hanno finalmente potuto rallegrarsi riconoscendo che qualcosa comincia a funzionare. Troppo a lungo è durato il disordine, l’insicurezza, l’angoscia di non sentirsi a casa propria, di non avere il diritto, cui ogni uomo ha sempre e dovunque aspirato, di chiudere la porta alle proprie spalle lasciando fuori, concretamente e simbolicamente, ciò che è estraneo. Non avrebbe dovuto essere necessaria una legge per stabilire che è reato entrare di nascosto in casa altrui: il possesso del proprio territorio è un diritto istintivo, che tutti gli animali possiedono e che nell’uomo, come per tutti gli altri istinti, è molto più forte perché ha assunto innumerevoli dimensioni significative. Dimensioni analoghe, al di là del tempo e dello spazio, presso tutti i popoli: da quelli di livello etnologico a quelli delle più mature civiltà, dall’India alla Cina, alla Grecia, a Roma. Gli antropologi, gli archeologi, gli storici hanno raccolto e messo a confronto i riti territoriali nei luoghi più diversi e non hanno mai mancato di rilevare la presenza profonda del ”Sacro” che lega e sostanzia l’identità di un gruppo, formandolo come gruppo sempre e soltanto in quanto si riconosce appartenente ad una stessa terra. Il gesto di Romolo che solca con l’aratro il perimetro del territorio di Roma è appunto un gesto sacrale, con il quale il Fondatore ne identifica l’appartenenza ai Romani. E’ un’appartenenza biunivoca: quel territorio è sacro in quanto appartiene al Popolo Romano; il Popolo Romano è tale in quanto custodisce quel territorio. Ma ogni popolo si trova nella stessa condizione, psicologica oltre che sociale: il territorio sacro della patria è il legame fondante del gruppo, tanto che anche presso i popoli più “primitivi”, così come nell’antica Grecia, sebbene viga per molti reati la pena di morte, colui che uccide un suo concittadino riceve l’unica condanna pari al suo delitto: viene espulso dal territorio. L’ha “profanato”, non perché ha versato del sangue (come spesso è stato affermato), ma perché, avendo ucciso uno dei propri confratelli, ha rotto il sacro legame che lo unisce a quella terra. Del resto chi non ricorda la sacralità del gesto di Papa Wojtyla di chinarsi, scendendo dalla scaletta dell’aereo, a baciare la terra di ogni Paese dove giungeva? Oggi, dunque, l’ordine che viene ripristinato in Italia è un ordine primario essenziale. Ed è su questo fatto, su nient’altro che su questo fatto che siamo tutti chiamati a riflettere. Non si tratta di fornirsi di un supplemento di generosità, di compassione, di tolleranza; né di problemi contingenti che possano essere risolti con la buona volontà; ma di chiedersi realisticamente, senza veli ideali, in quale modo potrebbe sussistere un mondo nel quale, come auspicano i fautori dell’uguaglianza universale, non esistano più patrie, popoli, religioni, costumi, governi diversi. Non fingiamo di non saperlo: la pressione che ormai da diversi anni viene fatta dai governanti, dai politici, dai leader religiosi di tutte le Nazioni dell’Occidente affinché milioni di stranieri vi si riversino abbandonando la propria terra, è dovuta soltanto in minima parte alla povertà o ai disordini tribali; anzi, per essere più precisi, bisogna dire che si spendono inutilmente cifre enormi e spesso si finisce con l’aumentare i problemi del Terzo Mondo con le spericolate avventure del commercio mondiale e delle coltivazioni programmate dell’Europa, proprio per indurre i popoli ad emigrare, e per convincere l’opinione pubblica che l’unica soluzione sono le migrazioni. Di fatto è questo che si vuole: un mondo tutto uguale, privo di conflitti, e che sia perciò possibile governare democraticamente attraverso istituzioni mondiali simili a quelle che già in parte sono state organizzate come l’ONU, il Fondo Monetario mondiale, il Tribunale Penale Internazionale. C’è una crudeltà, una spietatezza terribile in questo progetto, che pur sembra a primo sguardo tanto bello. Prima di tutto, naturalmente, proprio verso i popoli che emigrano. Anche per loro rinunciare alla patria, alla lingua, ai costumi, alla storia è un’esperienza dolorosissima e, checché ne pensino i fautori dell’integrazione, questa è una chimera. Ogni essere umano cerca la compagnia dei suoi simili, e in ogni paese gli emigrati hanno ricreato il loro territorio: la “Little Italy”, la “ Little China” e così via. Questo però è successo negli immensi paesi come gli Stati Uniti d’America, come l’Australia dove c’è una tale abbondanza di spazio che l’immigrazione era indispensabile per poter far sviluppare una civiltà, pur addensandosi in rapporto al proprio gruppo di provenienza. In Australia ancor oggi c’è una densità di 2 abitanti per chilometro quadrato; in America di 24 abitanti per chilometro quadrato. Gli Europei, gli Italiani che sono emigrati, sapevano bene che andavano alla conquista di un “Nuovo Mondo”. Ma la crudeltà, la spietatezza di questo progetto riguarda soprattutto noi, coloro che tutti i giorni vengono spronati a suicidarsi, a conculcare i propri diritti, i propri sentimenti, a calpestare la propria storia, la propria intelligenza. In Europa, infatti, in Italia, lo spazio è pochissimo, occupato da strati su strati di antichissimi insediamenti e la densità demografica è al di sopra di qualsiasi livello di guardia. Non c’è posto per nessun tipo di separazione, per nessun quartiere etnico. Inoltre la pressione numerica degli immigrati è diventata subito pressione di culture, di costumi, di lingue, di cibi, di riti, di religioni. E’ forza di conquista, non di sudditanza. Essi sanno bene che i numeri sono dalla loro parte, che i leader sono dalla loro parte. Malgrado quindi l’ottimismo che sociologi, psicologi, economisti, politici, giornalisti, si sforzano di inculcare nei popoli d’Europa, si sente bene che si respira aria di morte. Forse la ricerca così affannosa e vuota di divertimento, di sfrenatezza, di droghe, di inutile movimento, ne è la conseguenza; segnale della volontà di stordirsi, di non fermarsi neppure per un attimo a pensare quale sarà il prossimo futuro. I governanti ritengono che almeno per loro andrà bene? Può darsi; anzi si è costretti a crederlo altrimenti non si riesce a capire quale sia la logica che guida il loro comportamento. Le Sinistre, però, massime propugnatrici del nuovo ordine mondiale, stanno perdendo consensi ovunque; e se continuano a lavorare contro gli interessi dei popoli, finiranno, come è successo ad alcuni gruppi di sinistra in Italia, con lo sparire dalla vita politica. C’è la possibilità di reagire, quindi; ed per questo motivo che le nuove norme da oggi in vigore appaiono, per quanto piccolo sia il loro raggio d’azione, cariche di grande speranza.
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