sabato 22 agosto 2009

Demografie

Migrazioni di massa nel mondo contemporaneo, La nuova etica demografica: tutela dell'identità e responsabilità dei popoli di Victor Zaslavsky

Come parte del suo giro di vite contro l’immigrazione illegale, due settimane fa l’Italia ha rispedito in Libia una nave carica di migranti, intercettata in acque internazionali senza che l’identità dei suoi passeggeri fosse stata verificata prima della richiesta d’asilo. L’agenzia ONU per i rifugiati, il Vaticano e le organizzazioni per i diritti umani, come pure alcune forze politiche italiane, hanno espresso tutta la loro contrarietà, accusando l’Italia di violare il diritto internazionale. C’è una dose considerevole d’ipocrisia in queste accuse. Tutti sanno che in Italia la piaga immigrazione è particolarmente acuta perché la sua linea costiera e le isole vicine all’Africa ne fanno la destinazione prescelta per operazioni di contrabbando organizzate in Libia e in altre paesi. L’Italia riceve il quarto numero più alto al mondo di richieste d’asilo ogni anno, dopo gli Stati Uniti, il Canada e la Francia. Circa 40 mila immigrati dall’Africa e altre aree arrivano annualmente in Italia via mare. Stando alla nuova legge sull’immigrazione in corso di approvazione, entrare o rimanere in Italia senza permesso sarà considerato un crimine punibile con una multa da 5 a 10 mila euro. Gli immigrati non andranno in prigione, ma la legge prevede fino a tre anni di carcere per coloro che intenzionalmente affittano case a un immigrato illegale al momento della firma o dell’estensione del contratto. Questa nuova legge andrebbe valutata in una prospettiva internazionale. In Grecia, uno dei maggiori punti d’ingresso in Europa per gli immigrati, entrare illegalmente è un crimine punibile con la prigione, da 6 mesi a 5 anni, e una multa salata, sebbene l’ultima misura sia solo simbolica perché di norma non può essere implementata. Chi assume un immigrato illegale è punito sempre con il carcere, da 3 mesi a 5 anni. Gli olandesi, d’altro canto, pagano gli immigrati illegali con piccole somme di denaro come incentivo a lasciare immediatamente il paese dopo che la loro domanda di asilo è stata respinta, così da non ingolfare il sistema legale con le successive richieste di appello. La nuova legge italiana, tuttavia, non predispone altro che una soluzione di breve periodo a una questione, la cui importanza e difficile risolvibilità cresceranno col passare del tempo. Il problema è l’esplosione demografica, l’elemento strutturale che più caratterizza le migrazioni di massa nel mondo contemporaneo. In meno di tre anni, la popolazione mondiale raggiungerà i 7 miliardi di persone; se il tasso di fertilità rimarrà ai livelli di oggi nel 2050 la cifra salirà a 10.5 miliardi. I paesi in via di sviluppo dell'Africa e dell'Asia saranno responsabili per circa l’85% della crescita demografica. Finora i tentativi di programmazione demografica si sono dimostrati fallimentari. Che non esista nessuna soluzione rapida lo si può dedurre analizzando l'unico successo raggiunto dalla Cina continentale in materia di politica demografica. La leadership cinese, a fronte della sua situazione demografica, già trent’anni fa, per la prima volta nella storia, ha posto l'obiettivo della riduzione della propria popolazione, attualmente superiore ai 1.3 miliardi. La politica cinese, combinando un rigido controllo delle nascite con la pesante penalizzazione delle coppie che mettono al mondo più di un figlio, è riuscita ad arrivare ad un tasso di natalità pari a quello delle società industrializzate, grazie anche allo sviluppo della sanità, alla riduzione della mortalità infantile, all'istruzione di massa, quella femminile in particolare. Ma la società cinese, con la sua struttura molto giovane per fasce d'età, smetterà di crescere soltanto verso la metà del XXI secolo, dopo aver toccato la soglia di un miliardo e 500 milioni di abitanti. La situazione in altri paesi del Terzo mondo è molto più drammatica, come dimostra il caso dell'India che tra due generazioni supererà numericamente la popolazione cinese. L’Italia invece dovrebbe riflettere sulla crescita della popolazione nell’Africa subsahariana, specialmente nella fascia d’età tra i 20 e i 39 anni, la più propensa ad emigrare. Secondo l’eminente demografo, Antonio Golini, nell’area economica europea per ogni 10 giovani dai 20 ai 39 anni nel 1980 se ne contavano 23 nella parte sud del Mediterraneo, 32 nel 2000 e ci si aspetta che il numero cresca fino a 60 circa entro il 2020. Basta esaminare questi dati per capire che la pressione dell'immigrazione legale e illegale sui paesi industrializzati può soltanto aumentare. Il fenomeno, senza una politica europea comune in fatto d’immigrazione, può diventare irrefrenabile portando a sconvolgimenti drammatici nei rapporti economici, politici e religiosi tra il Nord e il Sud del mondo. Non c'è un collegamento meccanico tra la crescita sproporzionata della popolazione in un certo paese e quella del flusso migratorio proveniente dal paese stesso: la gente è spinta ad emigrare non dall'aumento della densità della popolazione, bensì dal divario nello standard di vita tra un paese del Terzo Mondo e quello dei paesi industrializzati. Le nuove tecnologie hanno notevolmente ridotto la disuguaglianza nelle società industrializzate, ma hanno enormemente aumentato quella tra paesi ricchi e poveri nel sistema mondiale. Oggi, con la diffusione delle nuove tecnologie, gli aiuti economici e la cooperazione tra paesi industrializzati e quelli del Terzo Mondo, ogni paese che riesce a domare la sua crescita demografica, arrivando alla crescita-zero, può assicurare uno standard di vita decente alla sua popolazione. C'è, invece, uno stretto collegamento tra il livello di vita e la demografia, che permette di definire "terzomondisti" quei paesi che sono caduti nella trappola dell'esplosione demografica. In queste società, fino al 50% di abitanti sono ragazzi al di sotto dei 16 anni che ovviamente non producono ma consumano, perché richiedono un investimento, per quanto basso, nell'educazione e nella sanità. Come risultato, la struttura per fasce d'età dei paesi del Terzo Mondo ha un doppio effetto deleterio per lo standard di vita: da un lato, il ritmo della crescita ha superato l'abilità dei governi locali di garantire gli investimenti produttivi, l'unico fattore in grado di creare nuovi posti di lavoro e migliorare lo standard di vita; dall'altro, la massa dei giovani mette su le proprie famiglie e comincia a riprodursi quando le famiglie dei loro genitori non sono ancora uscite dal ciclo riproduttivo. La corsa per fornire servizi a popolazioni in rapida crescita è come cercare di salire su una scala mobile in discesa. Si può concludere che per ogni paese in via di sviluppo la precondizione principale del successo nell'aumento dello standard di vita sta nel fermare l'esplosiva crescita demografica. È vero che la crescita del benessere economico porterebbe nell'arco di un paio di generazioni alla diminuzione volontaria del tasso di crescita della popolazione. Il problema è che nelle condizioni di esplosione demografica l'aumento dello standard di vita non può verificarsi. Come risultato, la migrazione economica verso i paesi industrializzati rappresenta, a livello individuale, l'unica possibilità realistica di sfuggire dalla dannazione del Terzo Mondo. L'immigrazione di massa nei paesi industrializzati ha già prodotto forti tensioni interne il cui carattere varia da un paese all'altro. La crisi e il successivo crollo dell'impero sovietico potrebbero fornirci una utile lezione sulle conseguenze dell'esplosione demografica tra alcune repubbliche della defunta Unione Sovietica. Tra le cause del fallimento del più grande esperimento di ingegneria sociale della storia, quale fu appunto l'URSS, non vi sono stati soltanto disastri economici o fallimenti ideologici. C'è stato anche un fenomeno di forti squilibri demografici e migrazioni interne che hanno in larga misura alimentato l'emergere dei movimenti nazionalisti e separatisti all'interno dell'URSS, movimenti che lo stato centrale, indebolito dall'inefficienza dell'economia a pianificazione centrale e dallo spreco del complesso militare-industriale, non poteva più sopprimere o neutralizzare. Mentre nelle repubbliche baltiche e slave si registrava una crescita demografica minima o addirittura prossima allo zero (in Estonia, per esempio, tra il 1979 e il 1989 la popolazione è cresciuta soltanto dello 0.7%), nelle repubbliche musulmane dell'Asia centrale si verificò un forte aumento demografico, in seguito al quale le popolazioni del Tagikistan e dell'Uzbekistan nello stesso decennio sono cresciute del 45,5% e del 34% rispettivamente. Per mantenere la stabilità interna, il governo sovietico doveva combattere una massiccia disoccupazione e assicurare un certo livello d'istruzione e di servizi sanitari nell'Asia centrale. Era costretto così a spostare una crescente fetta del surplus economico verso le repubbliche asiatiche in preda alla crisi demografica. Questo fatto ha rafforzato ulteriormente i movimenti separatisti baltici e slavi emersi nelle repubbliche più produttive del paese multinazionale. In particolare, sono stati i separatisti baltici a sviluppare l'argomentazione a favore dello scioglimento dell'Unione Sovietica che ha contribuito a creare le basi della nuova "etica demografica" del XXI secolo e merita così un'attenzione speciale. Partendo dal postulato incontrovertibile che le diversità linguistiche e culturali sono condizioni naturali e auspicabili, che ogni lingua e cultura nazionale rappresenta un bene comune dell'umanità e va salvaguardata, le elités baltiche hanno sottolineato l'impossibilità della coabitazione sotto un tetto politico comune di popolazioni con storie, culture e, in particolare, con comportamenti demografici così diversi, come quelle baltiche e centroasiatiche. La crescita esplosiva delle popolazioni asiatiche non solo abbassava il loro tenore di vita ma forniva un flusso crescente di emigranti nelle repubbliche slave e baltiche, flusso che non poteva essere frenato perché essi erano cittadini della stessa Unione Sovietica. La minaccia alla stessa esistenza delle popolazione baltiche in quanto unità linguistiche e culturali aumentava a vista d'occhio: in mezzo secolo del dominio sovietico, la popolazione estone è diminuita del 61% e quella lettone del 52%. Sarebbe bastata una, o al massimo due, generazioni per arrivare alla situazione in cui i baltici, diventando una minoranza sempre calante nei propri territori, non sarebbero stati più in grado di mantenere né l'istruzione né la produzione culturale nelle loro lingue. Ogni diretta minaccia alla sopravvivenza etnica provoca nella comunità sentimenti tra i più elementari e potenti che si cristallizzano in una mobilitazione politica permanente. In queste condizioni, lo sviluppo di forti movimenti secessionisti poteva essere arrestato soltanto dal massiccio apparato repressivo dello stato centrale. E questo fu un aspetto principale della politica sovietica delle nazionalità, finché il sistema sovietico aveva le risorse necessarie per la repressione e la ridistribuzione. Con l'erosione delle risorse economiche, coercitive e ideologiche, l'Unione Sovietica è crollata sotto le pressioni dei vari movimenti nazionalisti. Gli altri stati multinazionali di tipo sovietico, come Jugoslavia e Cecoslovacchia, hanno seguito il suo esempio. Dall'esperienza drammatica dell'ex Unione Sovietica si possono trarre alcune conclusioni. Primo, nel mondo di oggi ogni paese multinazionale con una struttura etnoterritoriale è intrinsecamente instabile. Il grado d'instabilità cresce con l'aumento del divario nello sviluppo socioeconomico e specialmente demografico tra i componenti etnici di una tale società, perché nessun governo centrale può reggere la prova del controllo della crescita costante di diseguaglianza tra i territori etnici, né può realizzare con successo una politica demografica che corrisponda ad esigenze e realtà così diverse. Secondo, i tentativi del governo centrale autoritario di introdurre una politica di ridistribuzione forzata nel territorio "nazionale", sia delle risorse prodotte sia della popolazione interna, secondo i criteri di necessità generale, può determinare una grave conseguenza: la scomparsa di interi gruppi etnico-linguistici, la cancellazione di civiltà, usi e costumi trasmessi nel corso dei secoli e delle generazioni. A sua volta, molti gruppi etnoterritoriali, in particolare quelli con un basso tasso di natalità e a più elevate condizioni socioeconomiche, vedono la loro salvezza nell'organizzazione di un proprio stato nazionale, l'unico strumento che può attuare il rigoroso controllo dei propri confini e mantenere il sistema d'istruzione in lingua locale. Terzo, il crollo dell'URSS ha immediatamente prodotto una serie di società che possiamo definire "malthusiane", che hanno varcato il solco della sostenibilità rispetto alle risorse esistenti e non sono state in grado di mantenere la propria popolazione senza ricevere permanenti sostegni dall'esterno. Come risultato, le società come quella del Tagikistan si sono rivelate terreno fertilissimo per guerre e scontri interni, conflitti etnosociali e politico-religiosi, la cui vera natura sta nella lotta generate dall’inadeguatezza delle risorse. Quarto, nessun governo centrale di un paese multinazionale è in grado di introdurre una politica demografica differenziata per i diversi gruppi etnici. Così, durante il periodo di Gorbacev, i tentativi del governo sovietico di vincolare gli aiuti alle repubbliche centroasiatiche con una politica di controllo dell'esplosione demografica da parte dell'amministrazione locale hanno provocato una violenta reazione. Sia le élites politiche che le classi medie istruite hanno accusato il governo centrale di razzismo e tentato genocidio dei popoli dell'Asia centrale. Dopo che il crollo sovietico ha imposto l'inaspettata indipendenza alle repubbliche centroasiatiche, le loro leadership politiche hanno cercato di elaborare una politica di pianificazione demografica, contestata qualche anno prima. L'esperienza sovietica ha dimostrato che il mondo sta entrando in una fase in cui è in via di affermazione una nuova etica demografica basata su due principi interconnessi. Primo, caduti i miti della società senza etnie e nazioni alla sovietica o del "melting pot" all'americana, i popoli proteggono le loro lingue, culture, civiltà e territori attraverso i propri stati nazionali. Secondo, nessuna forza esterna può dettare al popolo il ritmo della sua crescita, ma ogni popolo è responsabile per il proprio comportamento demografico. A prima vista, questi principi contraddicono certi processi in atto nel sistema mondiale come la globalizzazione economica, l'integrazione europea o nordamericana, l'affermazione della priorità dei diritti dell'uomo su quelli del gruppo, l'appartenenza alla nazione sulla base della cultura e non della provenienza etnica. Tenendo presente, però, che dopo il crollo del mondo bi-polare l'evoluzione del sistema mondiale è stata fortemente condizionata dalla crisi demografica e dall'immigrazione, si può riconoscere che l'emergere di questa etica demografica è una conseguenza inevitabile della crescita e del radicale cambiamento nella composizione della popolazione mondiale. Infatti, parafrasando Mark Twain, si può dire che le voci insistenti sulla morte dello stato nazionale si sono rivelate esagerate. Nello stesso tempo la necessità di fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione accresce sempre di più il ruolo dello stato come controllore del territorio e dei confini nazionali. La fine della guerra fredda ha addirittura favorito il peculiare processo della "riconversione" degli eserciti nazionali in corpi di guardia di frontiera, impegnati ad impedire l'ingresso di immigrati clandestini, processo chiaramente osservabile nei paesi europei, in particolare in Francia, Spagna, Italia e Germania. Inoltre, col tramonto dell'idea di progresso universale, si può affermare che nessuna cultura, nessun modello di civiltà ha il diritto di considerarsi superiore rispetto ad altre civiltà e altri modelli. Ogni popolo ha il diritto di stabilire il proprio criterio di sviluppo così come il proprio ordinamento politico-istituzionale. Ed ha, perciò, anche il dovere di affrontare le conseguenze - positive o negative che siano - delle scelte compiute e del comportamento dei propri cittadini. Può essere una verità amara o brutale, ma da affermare senza margini di ambiguità o artifici retorici: non esiste altra possibilità per ciascun popolo che quella di salvarsi con le proprie mani, prendendo coscienza del proprio destino al di là di ogni aiuto, sostegno o sussidio che possa giungere da paesi piu sviluppati. Ogni prospettiva di affidare la soluzione della crisi demografica a vari organismi internazionali si è rivelata illusoria. Soltanto i paesi dotati di classi dirigenti capaci di riconoscere lo stretto collegamento tra l'esplosione demografica e l'ulteriore caduta degli standard di vita, e in grado di assumersi la responsabilità di attuare una politica demografica efficace - per forza di cose impopolare -, avranno buone possibilità di evitare la trasformazione in società malthusiane.
I paesi sviluppati, invece, sono destinati a convivere con il fenomeno della crescente pressione migratoria. Non possono sottrarsi al compito di aiutare i paesi del Terzo Mondo a condurre la doppia politica della riduzione della crescita demografica e dello sviluppo economico, non soltanto per motivi di solidarietà e decenza, ma anche per la semplice ragione che i metodi di controllo demografico delle società malthusiane - carestie, epidemie e guerre interetniche - sono destabilizzanti per tutto il sistema mondiale. E non possono neanche rinchiudersi davanti alla crisi demografica mondiale senza proclamare una rigorosa politica dell'immigrazione legale, specificando le sue dimensioni, le regole di accettazione e in certi casi le aree di provenienza degli immigrati. In questo senso sembra utile ricordare i principi a cui si è ispirata la politica nei confronti dell’immigrazione legale, regolamentata e controllata, di uno dei classici paesi d'immigrazione come il Canada. In Canada vige una rigorosa programmazione dell'immigrazione che riserva agli immigrati l'1% della popolazione interna. La legge canadese individua tre tipi di immigrati: i parenti di primo grado dei cittadini canadesi, gli immigrati il cui ingresso è sponsorizzato da parte di qualche ditta o cittadino privato canadese e gli immigrati indipendenti. Se l'ingresso dei primi due gruppi è notevolmente facilitato, l'ingresso degli immigrati indipendenti è regolato sulla base di una elaborata graduatoria. Le domande pervenute alle autorità canadesi sono classificate in base a precisi criteri. I punteggi prendono in considerazione l'età del richiedente, i paesi di provenienza, la conoscenza delle lingue ufficiali canadesi, il livello d'istruzione, l'esperienza di lavoro. Nella filosofia che ha ispirato la politica canadese, l'immigrazione deve fornire un contributo positivo all'economia e alla società, deve corrispondere all'esigenza di non indebolire le famiglie dei cittadini canadesi e non deve stravolgere il funzionamento del sistema dell’istruzione e alterare gli equilibri linguistici e culturali del paese. Nessuno intende privare gli immigrati della loro lingua e cultura, ma neanche gli immigrati hanno diritto di imporle sulla popolazione canadese, né aspettare che lo stato canadese stanzi notevoli risorse per perpetuarle in Canada. Per esempio, gli immigrati che intendono prendere la residenza in Quebec sono obbligati a mandare i loro figli nelle scuole di lingua francese per evitare il fenomeno dell'"anglicizzazione" della popolazione, che avrebbe potuto portare al cambiamento del carattere linguistico-culturale della provincia e all'inasprimento delle tensioni tra gli anglofoni e i francofoni. I figli dei nuovi arrivati sono rapidamente integrati nel sistema educativo canadese per assicurare un costante ritmo di acculturazione, per prepararli a competere alla pari con i figli dei cittadini canadesi per l'accesso all'università e al mondo del lavoro. Come risultato, gli immigrati, pur arricchendo la cultura o, per meglio dire, le culture della società canadese, non ne modificano il suo particolare carattere. Sono loro che modificano la propria identità culturale, ma essendo immigrati legali con gli stessi pieni diritti dei cittadini canadesi, lo fanno volontariamente e coscientemente, stabilendo da soli fino a che punto possono conservare l'identità culturale del paese di provenienza. I paesi industrializzati liberal-democratici non hanno niente di cui vergognarsi rispetto alle proprie tradizioni o alla propria cultura politica. Piuttosto hanno l'obbligo di difendere la loro cultura democratica che comincia ad essere sottoposta a pressioni anche dall'interno. È evidente che la selezione degli immigrati legali viene compiuta con motivazioni in cui prevalgono gli interessi dello stato d'accoglienza, ma ancora una volta, fuori da ogni retorica, l'esperienza dimostra che una seria e rigorosa programmazione dei flussi migratori deve rispondere ai seguenti criteri: a) non deve incidere sul tasso di disoccupazione interna; b) deve essere in sintonia con gli interessi del paese di accoglienza; c) non deve alterare i suoi equilibri culturali, economici e sociali; d) deve avere un effetto positivo anche sulla situazione del paese di provenienza. Quest'ultimo criterio non è in contraddizione con quelli precedenti perché l'immigrazione legale non è un gioco in cui il guadagno del paese d'accoglienza avviene a scapito di quello di provenienza, non è una famigerata "fuga dei cervelli", bensì uno scambio di persone che può essere vantaggioso per tutte e due le parti. L'immigrazione legale crea un canale privilegiato di collegamento tra il paese d'accoglienza e quello di provenienza degli immigrati, che costituiscono una sorta di lobby a favore del loro vecchio paese, facilitando il flusso di aiuti. Inoltre, gli emigrati non di rado ritornano nella loro madrepatria, portando con sé l’esperienza e i risparmi maturati nel paese d’accoglienza, rappresentando così un'importante base per la creazione di nuove classi dirigenti e imprenditoriali. La politica dell'immigrazione legale seguita da paesi di immigranti come il Canada o gli Stati Uniti, intesa a produrre integrazione, pace sociale e cooperazione, non sempre raggiunge gli scopi proclamati e di tanto in tanto può ledere gli interessi di certe categorie della popolazione. Infatti, in entrambi i paesi ripetutamente appaiono movimenti che cercano di ridurre drasticamente il flusso migratorio. Nel Congresso americano, nell’ultimo periodo della presidenza di Bush, è scoppiata una accesa lotta intorno alla proposta di introdurre la più grande sanatoria nella storia americana che avrebbe dovuto regolarizzare i 12 milioni d’immigrati illegali, prevalentemente messicani, che vivono negli Stati Uniti. La decisione non è stata ancora presa e il problema è uno dei più spinosi da risolvere per l’amministrazione Obama.

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