Mio padre ha fatto il minatore per 41 anni, tre dei quali passati a Marcinelle. I fumi tossici della miniera non gli hanno permesso di raccontarmi direttamente quegli anni di stenti, lavoro duro e emarginazione. Li chiamavano ovviamente “mafiosi”, aspettavano mesi il consenso per partire per il Belgio (grazie ad un accordo bilaterale Italia-Belgio, in cambio di tonnellate di carbone per il nostro Paese), il ricongiungimento era caldamente sconsigliato, pena il licenziamento, e ogni mese spedivano in Italia i soldi, al netto delle tasse pagate in Belgio. La domenica (se non erano di turno) andavano a Messa ed era un momento pieno di nostalgia, perché il “latinorum” del sacerdote gli ricordava la parrocchia di casa; nel pomeriggio riparavano il tetto della canonica in cambio di improvvisate lezioni di francese e poi con dignità andavano a bersi un bicchiere al bar, fieri delle vittorie di Coppi. Mia madre mi racconta che lui imparò a fare la carbonade (una sorta di stufato allungato con la birra) tipico piatto della Vallonia ed era un maestro a friggere le patatine, altra leccornia tradizionale del luogo. Tornò in Italia e quando seppe che un'italiana sarebbe diventata Regina del Belgio, fu, per lui, come vincere il mondiale. In questo turbinio di affetti, valori, identità, tradizione, dignità, la retorica politically correct sull’immigrazione che ha accompagnato la celebrazione della strage di Marcinelle dove morirono 262 minatori (tra cui 136 italiani), mi ha procurato un senso di noia verso queste frasi fatte, parole di circostanza, piene di utilitarismo politico e di moralismo trito e ritrito. Il Presidente della Camera Fini ci dice, con un’intiuzione pedagogica senza precedenti: “il lavoratore merita rispetto anche se non ha il papier”. Purtroppo Presidente Fini, il rispetto non è una categorie della politica, appartiene a ciascuno di noi, al grado di rispetto che riceviamo nel quotidiano, dipende dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze, dal nostro senso civico del quale il Presidente della Camera in quanto tale (che ci sia qualche antico rigurgito di stato etico?) non è il custode. A meno che per rispetto non si intenda chiudere un occhio sul lavoro nero degli immigrati, sul loro sfruttamento, sullo stato di insicurezza in cui operano, sullo sfruttamento dei minori o sui matrimonio combinati. Il monito poi prosegue con una passaggio degno della miglior storiografia: “Nel ’56 (anno della strage di Marcinelle, ndr) la parola extracomunitari non esisteva ancora, ma se ci fosse stata i lavoratori italiani che morirono in quella strage sarebbero stati definiti extracomunitari e magari qualcuno l’avrebbe fatto con disprezzo”. Non so, semanticamente, in quale epiteto, tra extracomunitario o mafioso resieda il maggior grado di disprezzo, ma misurare le politiche sull’immigrazione partendo dalla semantica, sembra quantomeno banale (a proposito sindaco Alemanno le chiami come vuole: servizi spontanei oppure pippo o topolino, ma le istituisca queste ronde, senza più pruriti linguistici). Le reazioni delle comunità ai flussi migratori sono frutto dei cambiamenti che questi impongono ai tessuti sociali, delle paure e delle incomprensioni che generano. Questi cambiamenti vanno governati, regolamentati, favorendo la reciprocità dei comportamenti e delle identità. Difficilmente lo si può fare tollerando la clandestinità. Questo è il ruolo della politica, che poco ha a che fare con la semantica applicata alla sociologia. L’integrazione ha bisogno di trasparenza e i buchi neri della clandestinità non la favoriscono di certo. Anzi, rigettano semplicemente l’immigrato in quello stato di disperazione e fragilità per il quale ha scelto di andar via dal suo paese. Per finire ed a proposito di rispetto, ci piacerebbe Presidente Fini che lo mostrasse per una legge approvata anche dall’assise che Lei presiede: o le prerogative del Parlamento meritano rispetto a geometria variabile? D’altronde è una legge i cui contenuti stavano tutti nel programma di coalizione con il quale Lei è stato eletto e che Le ha consentito di presiedere Montecitorio. Uno scranno da cui è fin troppo facile lanciare moniti.
lunedì 10 agosto 2009
Marcinelle
Dopo Marcinelle. Modeste riflessioni su immigrazione, rispetto e politica del Presidente Fini di Milton
Mio padre ha fatto il minatore per 41 anni, tre dei quali passati a Marcinelle. I fumi tossici della miniera non gli hanno permesso di raccontarmi direttamente quegli anni di stenti, lavoro duro e emarginazione. Li chiamavano ovviamente “mafiosi”, aspettavano mesi il consenso per partire per il Belgio (grazie ad un accordo bilaterale Italia-Belgio, in cambio di tonnellate di carbone per il nostro Paese), il ricongiungimento era caldamente sconsigliato, pena il licenziamento, e ogni mese spedivano in Italia i soldi, al netto delle tasse pagate in Belgio. La domenica (se non erano di turno) andavano a Messa ed era un momento pieno di nostalgia, perché il “latinorum” del sacerdote gli ricordava la parrocchia di casa; nel pomeriggio riparavano il tetto della canonica in cambio di improvvisate lezioni di francese e poi con dignità andavano a bersi un bicchiere al bar, fieri delle vittorie di Coppi. Mia madre mi racconta che lui imparò a fare la carbonade (una sorta di stufato allungato con la birra) tipico piatto della Vallonia ed era un maestro a friggere le patatine, altra leccornia tradizionale del luogo. Tornò in Italia e quando seppe che un'italiana sarebbe diventata Regina del Belgio, fu, per lui, come vincere il mondiale. In questo turbinio di affetti, valori, identità, tradizione, dignità, la retorica politically correct sull’immigrazione che ha accompagnato la celebrazione della strage di Marcinelle dove morirono 262 minatori (tra cui 136 italiani), mi ha procurato un senso di noia verso queste frasi fatte, parole di circostanza, piene di utilitarismo politico e di moralismo trito e ritrito. Il Presidente della Camera Fini ci dice, con un’intiuzione pedagogica senza precedenti: “il lavoratore merita rispetto anche se non ha il papier”. Purtroppo Presidente Fini, il rispetto non è una categorie della politica, appartiene a ciascuno di noi, al grado di rispetto che riceviamo nel quotidiano, dipende dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze, dal nostro senso civico del quale il Presidente della Camera in quanto tale (che ci sia qualche antico rigurgito di stato etico?) non è il custode. A meno che per rispetto non si intenda chiudere un occhio sul lavoro nero degli immigrati, sul loro sfruttamento, sullo stato di insicurezza in cui operano, sullo sfruttamento dei minori o sui matrimonio combinati. Il monito poi prosegue con una passaggio degno della miglior storiografia: “Nel ’56 (anno della strage di Marcinelle, ndr) la parola extracomunitari non esisteva ancora, ma se ci fosse stata i lavoratori italiani che morirono in quella strage sarebbero stati definiti extracomunitari e magari qualcuno l’avrebbe fatto con disprezzo”. Non so, semanticamente, in quale epiteto, tra extracomunitario o mafioso resieda il maggior grado di disprezzo, ma misurare le politiche sull’immigrazione partendo dalla semantica, sembra quantomeno banale (a proposito sindaco Alemanno le chiami come vuole: servizi spontanei oppure pippo o topolino, ma le istituisca queste ronde, senza più pruriti linguistici). Le reazioni delle comunità ai flussi migratori sono frutto dei cambiamenti che questi impongono ai tessuti sociali, delle paure e delle incomprensioni che generano. Questi cambiamenti vanno governati, regolamentati, favorendo la reciprocità dei comportamenti e delle identità. Difficilmente lo si può fare tollerando la clandestinità. Questo è il ruolo della politica, che poco ha a che fare con la semantica applicata alla sociologia. L’integrazione ha bisogno di trasparenza e i buchi neri della clandestinità non la favoriscono di certo. Anzi, rigettano semplicemente l’immigrato in quello stato di disperazione e fragilità per il quale ha scelto di andar via dal suo paese. Per finire ed a proposito di rispetto, ci piacerebbe Presidente Fini che lo mostrasse per una legge approvata anche dall’assise che Lei presiede: o le prerogative del Parlamento meritano rispetto a geometria variabile? D’altronde è una legge i cui contenuti stavano tutti nel programma di coalizione con il quale Lei è stato eletto e che Le ha consentito di presiedere Montecitorio. Uno scranno da cui è fin troppo facile lanciare moniti.
Mio padre ha fatto il minatore per 41 anni, tre dei quali passati a Marcinelle. I fumi tossici della miniera non gli hanno permesso di raccontarmi direttamente quegli anni di stenti, lavoro duro e emarginazione. Li chiamavano ovviamente “mafiosi”, aspettavano mesi il consenso per partire per il Belgio (grazie ad un accordo bilaterale Italia-Belgio, in cambio di tonnellate di carbone per il nostro Paese), il ricongiungimento era caldamente sconsigliato, pena il licenziamento, e ogni mese spedivano in Italia i soldi, al netto delle tasse pagate in Belgio. La domenica (se non erano di turno) andavano a Messa ed era un momento pieno di nostalgia, perché il “latinorum” del sacerdote gli ricordava la parrocchia di casa; nel pomeriggio riparavano il tetto della canonica in cambio di improvvisate lezioni di francese e poi con dignità andavano a bersi un bicchiere al bar, fieri delle vittorie di Coppi. Mia madre mi racconta che lui imparò a fare la carbonade (una sorta di stufato allungato con la birra) tipico piatto della Vallonia ed era un maestro a friggere le patatine, altra leccornia tradizionale del luogo. Tornò in Italia e quando seppe che un'italiana sarebbe diventata Regina del Belgio, fu, per lui, come vincere il mondiale. In questo turbinio di affetti, valori, identità, tradizione, dignità, la retorica politically correct sull’immigrazione che ha accompagnato la celebrazione della strage di Marcinelle dove morirono 262 minatori (tra cui 136 italiani), mi ha procurato un senso di noia verso queste frasi fatte, parole di circostanza, piene di utilitarismo politico e di moralismo trito e ritrito. Il Presidente della Camera Fini ci dice, con un’intiuzione pedagogica senza precedenti: “il lavoratore merita rispetto anche se non ha il papier”. Purtroppo Presidente Fini, il rispetto non è una categorie della politica, appartiene a ciascuno di noi, al grado di rispetto che riceviamo nel quotidiano, dipende dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze, dal nostro senso civico del quale il Presidente della Camera in quanto tale (che ci sia qualche antico rigurgito di stato etico?) non è il custode. A meno che per rispetto non si intenda chiudere un occhio sul lavoro nero degli immigrati, sul loro sfruttamento, sullo stato di insicurezza in cui operano, sullo sfruttamento dei minori o sui matrimonio combinati. Il monito poi prosegue con una passaggio degno della miglior storiografia: “Nel ’56 (anno della strage di Marcinelle, ndr) la parola extracomunitari non esisteva ancora, ma se ci fosse stata i lavoratori italiani che morirono in quella strage sarebbero stati definiti extracomunitari e magari qualcuno l’avrebbe fatto con disprezzo”. Non so, semanticamente, in quale epiteto, tra extracomunitario o mafioso resieda il maggior grado di disprezzo, ma misurare le politiche sull’immigrazione partendo dalla semantica, sembra quantomeno banale (a proposito sindaco Alemanno le chiami come vuole: servizi spontanei oppure pippo o topolino, ma le istituisca queste ronde, senza più pruriti linguistici). Le reazioni delle comunità ai flussi migratori sono frutto dei cambiamenti che questi impongono ai tessuti sociali, delle paure e delle incomprensioni che generano. Questi cambiamenti vanno governati, regolamentati, favorendo la reciprocità dei comportamenti e delle identità. Difficilmente lo si può fare tollerando la clandestinità. Questo è il ruolo della politica, che poco ha a che fare con la semantica applicata alla sociologia. L’integrazione ha bisogno di trasparenza e i buchi neri della clandestinità non la favoriscono di certo. Anzi, rigettano semplicemente l’immigrato in quello stato di disperazione e fragilità per il quale ha scelto di andar via dal suo paese. Per finire ed a proposito di rispetto, ci piacerebbe Presidente Fini che lo mostrasse per una legge approvata anche dall’assise che Lei presiede: o le prerogative del Parlamento meritano rispetto a geometria variabile? D’altronde è una legge i cui contenuti stavano tutti nel programma di coalizione con il quale Lei è stato eletto e che Le ha consentito di presiedere Montecitorio. Uno scranno da cui è fin troppo facile lanciare moniti.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento