mercoledì 12 agosto 2009

Di Pietro e l'apocalisse

Tonino sogna il golpe e vuole i politici "blindati" di Filippo Facci

E pensare che la giornata pareva perfetta, stupendamente estiva, capace di restituire un senso di riequilibrio cosmico: Di Pietro era in Molise a fare il contadino. E quelli di Libero che hanno fatto? Sono andati a intervistarlo, a svegliare il can che dorme, a rompergli l’equilibrio cosmico: e sono cose che non si fanno. Ignoravano che Di Pietro d'estate si annoia, spara più sciocchezze del solito, insomma è pericoloso. L'estate scorsa, per dire, maltrattò i giornalisti e ne derivò il lancio Ansa col più bel titolo di tutti i tempi: «Di Pietro ai giornalisti: sbrigatevi che devo trebbiare». Poi, nell’arco di un pugno di giorni, dopo aver dato di «magnaccia» a Berlusconi, il trebbiatore parlò dello «stile mafioso» del governo e circa il Lodo Alfano disse che voleva «fermare il diavolo». Quest’estate poteva andar peggio, perché a Tonino - lui stesso ha confermato la notizia - si è pure ingolfato il trattore: niente di strano che l'intervista rilasciata a Libero, a questo punto, fosse titolata «Di Pietro promette l’apocalisse». Cominciamo allora dall’apocalisse. Ha detto: «Sarà il tempo del Pil in caduta libera, delle piccole e medie imprese ridotte alla fame, dei migliaia di posti di lavoro sull’orlo del baratro, dell’Italia davvero spaccata in due». E ha parlato di «grandi mobilitazioni di settembre sulla libertà d’informazione e sul lavoro». In precedenza aveva detto che «potrebbero tornare sia le Br pilotate che quelle non pilotate» e che «l’Italia dei Valori sarà nei consigli di fabbrica e nelle piazze in difesa dei cassintegrati e dei lavoratori, saremo protagonisti dell’autunno caldo». Più che una previsione, un auspicio: Di Pietro auspica un autunno rovente e sarà nelle fabbriche a cercar di convincere gli astenuti della sinistra radicale che ancora non votano per lui. Dall’altra seguiterà a martellare il Capo dello Stato e la Corte Costituzionale nella sua logica di tanto peggio tanto meglio. Il suo obiettivo è un clima pre-rivoluzionario, come si evince anche da quanto ha scritto ieri sul suo blog: «Se i giornali avessero fatto informazione seriamente, a quest'ora avremmo le barricate in strada contro questa maggioranza e la casta politica girerebbe con gli autoblindo di scorta invece delle lussuose auto blu con il lampeggiante». Il malanimo accumulato da Tonino, ieri, ha trovato sfogo persino in un attacco contro Repubblica: «Il fatto stesso che su La Repubblica venga dato più spazio al partito di Cuffaro, che ha raggiunto uno scarso 5 per cento alle ultime elezioni, rispetto all’Idv che si è attestata all’8 per cento, è la dimostrazione della faziosità anche di questo giornale, il quale segue quella certa opposizione che, in fondo, legittima l’esistenza politica di questo Governo». Anche Repubblica fa parte del regime. Basta che non parli di Di Pietro come vorrebbe Di Pietro. Ha poi detto, sempre su Libero: «Sono contrario a Lombardo». Una sintesi mirabile. L’indigeno, nel suo idioma, intendeva dire che era contrario a un partito del Sud e a indiscriminati finanziamenti a pioggia: «È come il vestito nuovo che ti vuoi comprare a Natale: se non c’hai i soldi, non te lo compri. Capisci la metafora?». No, ma Antonio D'Adamo forse a suo tempo la capì: è l’ex sodale che quando Tonino era magistrato riforniva di vestiti (gratis) lui e tutta la famiglia. A parte questo, comunque, una volta appreso che non servirebbero a sbatterci dentro Berlusconi, Di Pietro si è detto contrario anche alle gabbie salariali. Ha infine detto: «De Magistris non si dimette da magistrato perché se lo fa l’inchiesta in corso su di lui del Csm decade senza un giudizio. E lui vuole uscirne a testa alta, senza macchia». Bella questa. Dell’inchiesta del Csm, anzitutto, erano al corrente anche il 17 marzo scorso, quando i due - Di Pietro e De Magistris - fecero una bella conferenza stampa poche ore prima della notizia che il magistrato di Catanzaro era ufficialmente indagato: e non al Csm, ma dalla Procura di Roma e poi di Perugia. Lo sapevano già, cioè, quando giurarono e stra-giurarono che De Magistris si sarebbe dimesso da magistrato: «La mia è una scelta irreversibile, anche qualora non dovessi essere eletto»; poi gli fece eco Di Pietro, accanto a lui: «De Magistris si dimetterà dalla magistratura subito dopo le elezioni, lo assicuro. Per noi questa è una regola non scritta che ci applichiamo, non un generico richiamo. Noi applichiamo la legge morale». Il 30 luglio era intervenuto anche Marco Intini Travaglio: «De Magistris si dimetterà, lo ha promesso e lo farà». Gente di parola. Ma è una sciocchezza in qualsiasi caso: se anche non lo giudicasse il Csm, lo giudicherebbe un ordinario tribunale come capita ai comuni cittadini: De Magistris forse avrebbe qualcosa in contrario. Infine, a proposito di uscirne «senza macchia», De Magistris ne ha già più di un leopardo: dalla decisione di trasferirlo (e degradarlo) a quando il consiglio giudiziario, eccezionalmente, respinse la sua nomina a magistrato di Corte d’Appello: capita a meno di un magistrato su mille. Una carriera fallimentare: era pronto per l’Italia dei Valori.

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