«Roma sembra l’Africa» ha detto uno (Berlusconi). Sia in periferia, dove il suocero di un altro (Casini) ha costruito migliaia di palazzine e neanche un cassonetto. Dove le precedenti amministrazioni si sono dimenticate di organizzare la raccolta dei rifiuti. Sia nelle zone centrali. Dove nelle famose buche, ereditate dalle precedenti amministrazioni, ripara ogni sorta di schifezza, mentre ai margini della strada o sui marciapiedi – ne sanno qualcosa le turiste americane che passeggiano in infradito col naso al cielo – si deposita il ciarpame (quello vero). Tanto a Prati, quanto a Testaccio e Ponte Milvio, complici i mercati rionali di giorno e la movida di notte. Roma sembra l’Africa anche a Trastevere, dove l’amministrazione dell’Unto (Veltroni) ha lasciato in eredità al barbaro (Alemanno) il “tradizionale” mercato di Porta Portese elevato a cagnara. Dove si vendono merci dalla dubbia provenienza. Dove alcuni ambulanti pagavano il pizzo, come emerso da una recente inchiesta, grazie al coraggio di Maurizio Cavalieri, leader di un’associazione di colleghi. Che però è moralizzatore solo a metà (unico a non vendere paccottiglie, ma esclusivamente dvd pornografici nuovi di zecca). Porta Portese funziona così: alle 3.00 della domenica mattina i pizzardoni chiudono al traffico le vie Portuense, Rolli, Parboni, Nievo, Ripari e degli Orti. Con gran sollievo di residenti e automobilisti inesperti. Affari loro se hanno parcheggiato la macchina nel triangolo del folclore. Se non di-sturba, passeranno a ritirarla dopo le 20.00. Altrimenti, il lunedì successivo, dovranno recarsi in via dei Cocchieri e versare 120 euro alla proprietà del deposito, sulla cui porta le scritte folcloristiche si sprecano.Porta Portese sgombera alle 17.00, quando le banche cedono il passo a carrelli sospinti da varie forme di umanità. Gente che svuota i cassonetti, preventivamente lasciati pieni dagli addetti dell’Azienda municipalizzata ambiente (Ama). Polacchi, moldavi, soprattutto rumeni che si arrabattano tra cartoni, boiserie e vecchi computer. Gente che vive nelle baracche lungo il Tevere o al Casilino 900, il più antico campo rom della capitale. Un posto dove se entri a far domande ti prendono a schiaffi, come capitato a Pier Damiani D’Agata, un collega della Rai. Dove ogni famiglia può contare su un cassonetto per l’immondizia. Che resta fatalmente vuoto. Dove l’odore di copertoni e cavi elettrici bruciati si sparge tutt’attorno. Poco male. Lì non c’è spazio perché i due principali palazzinari di Roma, proprietari dei due principali quotidiani di Roma, possano costruirci qualcosa sopra. Nemmeno le fogne. Che mancano all’appello anche nel quartiere adiacente al Casilino, come fa notare Alessandro Bracchini, presidente di un’associazione di residenti: «Sono trent’anni che chiediamo al Comune una rete fognaria alla quale poterci allacciare, e ora, per una disputa legale fra privati, rischiamo di venire sanzionati come se fossimo abusivi e inquinanti». Roma sembra l’Africa anche a Gaetano Pecorella, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, secondo il quale il Lazio rischia di ritrovarsi presto in una situazione “stile Campania”. Le discariche hanno superato ogni limite di capienza e i nuovi siti non sono pronti. Servirà a poco, ma l’Ama ha recepito il messaggio e ha annunciato l’assunzione di 540 nuovi addetti (alla selezione si sono presentati in duemila). Siccome si tratta di gente che bisognerà pagare, e i fondi mancano, l’Ama sta provando a fare cassa. Come? Vendendo loculi. Tombe e cappelle storiche nei cimiteri Verano, Flaminio e Maccarese (andare sul sito www.amaroma.it per credere). Con prezzi che superano i 300 mila euro. Prezzi fuori dalla portata di chi vive nelle baracche. Dove probabilmente viveva anche il signore ritrovato cadavere il 3 giugno scorso, abbandonato come un televisore rotto di fianco a un cassonetto di via di Vigna Murata, estremo Laurentino. Una zona talmente anonima da non figurare nemmeno nella seconda edizione aggiornata di Grande Raccordo Anulare, la guida alternativa della città di Mario De Quarto, già redattore al Manifesto, quindi al di sopra di ogni sospetto. Un quartierino racchiuso fra quattro complessi residenziali e qualche baracca, come spiega Raffaella, 43 anni, che porta a spasso il cane nel boschetto ripulito di fresco, prospiciente via Vigna Murata: «Erano anni che non tagliavano l’erba. Praticamente da quando il parco è passato in gestione dal Municipio all’Eur s.p.a. Hanno aspettato che ci scappasse il morto per fare pulizia». O quasi: perché dall’erba tagliata affiora ogni sorta di rifiuto. Specie attorno a un crocicchio di tende piantate a una decina di metri da dove giaceva il corpo di cui sopra, carbonizzato, avvolto in un maglione, cadavere da almeno una settimana, ma ad oggi ancora senza identità. Scoperto per caso da un ragazzo che stava andando a scuola. «Ci vivevano dei rumeni, Adesso non si vede più nessuno», nota Raffaella. «Saranno andati lungo il Tevere». Dove altrimenti, se non lungo il fiume che tutti accoglie e tutto raccoglie, compresi numerosi cadaveri? L’ultimo risale al 27 maggio scorso. Una donna. Apparentemente sulla cinquantina. Con addosso un paio di pantaloni neri e una canotta bianca. Ancora, ça va sans dire, senza identità. «Il cadavere non riscontra segni di violenza esteriore, potrebbe anche trattarsi di un suicidio o di un decesso avvenuto per cause naturali», dice Stefano Signoretti, capo della sezione omicidi della Squadra mobile di Roma. «Stiamo ancora attendendo gli esiti dell’autopsia». È passato un mese.Intanto dalle acque del fiume rese insalubri dagli scarichi fognari, acque da cui sono scomparsi i cavedani e le anguille, acque che l’inverno scorso stavano per esondare in Roma, si attendono ulteriori riscontri. «Approssimativamente sono una ventina i corpi che il Tevere restituisce ogni anno. Qualche suicida, soprattutto sbandati senza fissa dimora», conclude Signoretti. Capo della sezione omicidi di una città che è la capitale d’Italia. Che è passata al digitale. Ma che, a tratti, sembra l’Africa.
mercoledì 1 luglio 2009
Roma
Cadaveri e vecchi televisori. In una capitale d’Italia che «sembra l’Africa», si può morire per strada e finire accatastati insieme alla monnezza accanto a un cassonetto, “seppelliti” dal ciarpame (quello vero). Nessuno se ne accorgerà di Carlo Melina
«Roma sembra l’Africa» ha detto uno (Berlusconi). Sia in periferia, dove il suocero di un altro (Casini) ha costruito migliaia di palazzine e neanche un cassonetto. Dove le precedenti amministrazioni si sono dimenticate di organizzare la raccolta dei rifiuti. Sia nelle zone centrali. Dove nelle famose buche, ereditate dalle precedenti amministrazioni, ripara ogni sorta di schifezza, mentre ai margini della strada o sui marciapiedi – ne sanno qualcosa le turiste americane che passeggiano in infradito col naso al cielo – si deposita il ciarpame (quello vero). Tanto a Prati, quanto a Testaccio e Ponte Milvio, complici i mercati rionali di giorno e la movida di notte. Roma sembra l’Africa anche a Trastevere, dove l’amministrazione dell’Unto (Veltroni) ha lasciato in eredità al barbaro (Alemanno) il “tradizionale” mercato di Porta Portese elevato a cagnara. Dove si vendono merci dalla dubbia provenienza. Dove alcuni ambulanti pagavano il pizzo, come emerso da una recente inchiesta, grazie al coraggio di Maurizio Cavalieri, leader di un’associazione di colleghi. Che però è moralizzatore solo a metà (unico a non vendere paccottiglie, ma esclusivamente dvd pornografici nuovi di zecca). Porta Portese funziona così: alle 3.00 della domenica mattina i pizzardoni chiudono al traffico le vie Portuense, Rolli, Parboni, Nievo, Ripari e degli Orti. Con gran sollievo di residenti e automobilisti inesperti. Affari loro se hanno parcheggiato la macchina nel triangolo del folclore. Se non di-sturba, passeranno a ritirarla dopo le 20.00. Altrimenti, il lunedì successivo, dovranno recarsi in via dei Cocchieri e versare 120 euro alla proprietà del deposito, sulla cui porta le scritte folcloristiche si sprecano.Porta Portese sgombera alle 17.00, quando le banche cedono il passo a carrelli sospinti da varie forme di umanità. Gente che svuota i cassonetti, preventivamente lasciati pieni dagli addetti dell’Azienda municipalizzata ambiente (Ama). Polacchi, moldavi, soprattutto rumeni che si arrabattano tra cartoni, boiserie e vecchi computer. Gente che vive nelle baracche lungo il Tevere o al Casilino 900, il più antico campo rom della capitale. Un posto dove se entri a far domande ti prendono a schiaffi, come capitato a Pier Damiani D’Agata, un collega della Rai. Dove ogni famiglia può contare su un cassonetto per l’immondizia. Che resta fatalmente vuoto. Dove l’odore di copertoni e cavi elettrici bruciati si sparge tutt’attorno. Poco male. Lì non c’è spazio perché i due principali palazzinari di Roma, proprietari dei due principali quotidiani di Roma, possano costruirci qualcosa sopra. Nemmeno le fogne. Che mancano all’appello anche nel quartiere adiacente al Casilino, come fa notare Alessandro Bracchini, presidente di un’associazione di residenti: «Sono trent’anni che chiediamo al Comune una rete fognaria alla quale poterci allacciare, e ora, per una disputa legale fra privati, rischiamo di venire sanzionati come se fossimo abusivi e inquinanti». Roma sembra l’Africa anche a Gaetano Pecorella, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, secondo il quale il Lazio rischia di ritrovarsi presto in una situazione “stile Campania”. Le discariche hanno superato ogni limite di capienza e i nuovi siti non sono pronti. Servirà a poco, ma l’Ama ha recepito il messaggio e ha annunciato l’assunzione di 540 nuovi addetti (alla selezione si sono presentati in duemila). Siccome si tratta di gente che bisognerà pagare, e i fondi mancano, l’Ama sta provando a fare cassa. Come? Vendendo loculi. Tombe e cappelle storiche nei cimiteri Verano, Flaminio e Maccarese (andare sul sito www.amaroma.it per credere). Con prezzi che superano i 300 mila euro. Prezzi fuori dalla portata di chi vive nelle baracche. Dove probabilmente viveva anche il signore ritrovato cadavere il 3 giugno scorso, abbandonato come un televisore rotto di fianco a un cassonetto di via di Vigna Murata, estremo Laurentino. Una zona talmente anonima da non figurare nemmeno nella seconda edizione aggiornata di Grande Raccordo Anulare, la guida alternativa della città di Mario De Quarto, già redattore al Manifesto, quindi al di sopra di ogni sospetto. Un quartierino racchiuso fra quattro complessi residenziali e qualche baracca, come spiega Raffaella, 43 anni, che porta a spasso il cane nel boschetto ripulito di fresco, prospiciente via Vigna Murata: «Erano anni che non tagliavano l’erba. Praticamente da quando il parco è passato in gestione dal Municipio all’Eur s.p.a. Hanno aspettato che ci scappasse il morto per fare pulizia». O quasi: perché dall’erba tagliata affiora ogni sorta di rifiuto. Specie attorno a un crocicchio di tende piantate a una decina di metri da dove giaceva il corpo di cui sopra, carbonizzato, avvolto in un maglione, cadavere da almeno una settimana, ma ad oggi ancora senza identità. Scoperto per caso da un ragazzo che stava andando a scuola. «Ci vivevano dei rumeni, Adesso non si vede più nessuno», nota Raffaella. «Saranno andati lungo il Tevere». Dove altrimenti, se non lungo il fiume che tutti accoglie e tutto raccoglie, compresi numerosi cadaveri? L’ultimo risale al 27 maggio scorso. Una donna. Apparentemente sulla cinquantina. Con addosso un paio di pantaloni neri e una canotta bianca. Ancora, ça va sans dire, senza identità. «Il cadavere non riscontra segni di violenza esteriore, potrebbe anche trattarsi di un suicidio o di un decesso avvenuto per cause naturali», dice Stefano Signoretti, capo della sezione omicidi della Squadra mobile di Roma. «Stiamo ancora attendendo gli esiti dell’autopsia». È passato un mese.Intanto dalle acque del fiume rese insalubri dagli scarichi fognari, acque da cui sono scomparsi i cavedani e le anguille, acque che l’inverno scorso stavano per esondare in Roma, si attendono ulteriori riscontri. «Approssimativamente sono una ventina i corpi che il Tevere restituisce ogni anno. Qualche suicida, soprattutto sbandati senza fissa dimora», conclude Signoretti. Capo della sezione omicidi di una città che è la capitale d’Italia. Che è passata al digitale. Ma che, a tratti, sembra l’Africa.
«Roma sembra l’Africa» ha detto uno (Berlusconi). Sia in periferia, dove il suocero di un altro (Casini) ha costruito migliaia di palazzine e neanche un cassonetto. Dove le precedenti amministrazioni si sono dimenticate di organizzare la raccolta dei rifiuti. Sia nelle zone centrali. Dove nelle famose buche, ereditate dalle precedenti amministrazioni, ripara ogni sorta di schifezza, mentre ai margini della strada o sui marciapiedi – ne sanno qualcosa le turiste americane che passeggiano in infradito col naso al cielo – si deposita il ciarpame (quello vero). Tanto a Prati, quanto a Testaccio e Ponte Milvio, complici i mercati rionali di giorno e la movida di notte. Roma sembra l’Africa anche a Trastevere, dove l’amministrazione dell’Unto (Veltroni) ha lasciato in eredità al barbaro (Alemanno) il “tradizionale” mercato di Porta Portese elevato a cagnara. Dove si vendono merci dalla dubbia provenienza. Dove alcuni ambulanti pagavano il pizzo, come emerso da una recente inchiesta, grazie al coraggio di Maurizio Cavalieri, leader di un’associazione di colleghi. Che però è moralizzatore solo a metà (unico a non vendere paccottiglie, ma esclusivamente dvd pornografici nuovi di zecca). Porta Portese funziona così: alle 3.00 della domenica mattina i pizzardoni chiudono al traffico le vie Portuense, Rolli, Parboni, Nievo, Ripari e degli Orti. Con gran sollievo di residenti e automobilisti inesperti. Affari loro se hanno parcheggiato la macchina nel triangolo del folclore. Se non di-sturba, passeranno a ritirarla dopo le 20.00. Altrimenti, il lunedì successivo, dovranno recarsi in via dei Cocchieri e versare 120 euro alla proprietà del deposito, sulla cui porta le scritte folcloristiche si sprecano.Porta Portese sgombera alle 17.00, quando le banche cedono il passo a carrelli sospinti da varie forme di umanità. Gente che svuota i cassonetti, preventivamente lasciati pieni dagli addetti dell’Azienda municipalizzata ambiente (Ama). Polacchi, moldavi, soprattutto rumeni che si arrabattano tra cartoni, boiserie e vecchi computer. Gente che vive nelle baracche lungo il Tevere o al Casilino 900, il più antico campo rom della capitale. Un posto dove se entri a far domande ti prendono a schiaffi, come capitato a Pier Damiani D’Agata, un collega della Rai. Dove ogni famiglia può contare su un cassonetto per l’immondizia. Che resta fatalmente vuoto. Dove l’odore di copertoni e cavi elettrici bruciati si sparge tutt’attorno. Poco male. Lì non c’è spazio perché i due principali palazzinari di Roma, proprietari dei due principali quotidiani di Roma, possano costruirci qualcosa sopra. Nemmeno le fogne. Che mancano all’appello anche nel quartiere adiacente al Casilino, come fa notare Alessandro Bracchini, presidente di un’associazione di residenti: «Sono trent’anni che chiediamo al Comune una rete fognaria alla quale poterci allacciare, e ora, per una disputa legale fra privati, rischiamo di venire sanzionati come se fossimo abusivi e inquinanti». Roma sembra l’Africa anche a Gaetano Pecorella, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, secondo il quale il Lazio rischia di ritrovarsi presto in una situazione “stile Campania”. Le discariche hanno superato ogni limite di capienza e i nuovi siti non sono pronti. Servirà a poco, ma l’Ama ha recepito il messaggio e ha annunciato l’assunzione di 540 nuovi addetti (alla selezione si sono presentati in duemila). Siccome si tratta di gente che bisognerà pagare, e i fondi mancano, l’Ama sta provando a fare cassa. Come? Vendendo loculi. Tombe e cappelle storiche nei cimiteri Verano, Flaminio e Maccarese (andare sul sito www.amaroma.it per credere). Con prezzi che superano i 300 mila euro. Prezzi fuori dalla portata di chi vive nelle baracche. Dove probabilmente viveva anche il signore ritrovato cadavere il 3 giugno scorso, abbandonato come un televisore rotto di fianco a un cassonetto di via di Vigna Murata, estremo Laurentino. Una zona talmente anonima da non figurare nemmeno nella seconda edizione aggiornata di Grande Raccordo Anulare, la guida alternativa della città di Mario De Quarto, già redattore al Manifesto, quindi al di sopra di ogni sospetto. Un quartierino racchiuso fra quattro complessi residenziali e qualche baracca, come spiega Raffaella, 43 anni, che porta a spasso il cane nel boschetto ripulito di fresco, prospiciente via Vigna Murata: «Erano anni che non tagliavano l’erba. Praticamente da quando il parco è passato in gestione dal Municipio all’Eur s.p.a. Hanno aspettato che ci scappasse il morto per fare pulizia». O quasi: perché dall’erba tagliata affiora ogni sorta di rifiuto. Specie attorno a un crocicchio di tende piantate a una decina di metri da dove giaceva il corpo di cui sopra, carbonizzato, avvolto in un maglione, cadavere da almeno una settimana, ma ad oggi ancora senza identità. Scoperto per caso da un ragazzo che stava andando a scuola. «Ci vivevano dei rumeni, Adesso non si vede più nessuno», nota Raffaella. «Saranno andati lungo il Tevere». Dove altrimenti, se non lungo il fiume che tutti accoglie e tutto raccoglie, compresi numerosi cadaveri? L’ultimo risale al 27 maggio scorso. Una donna. Apparentemente sulla cinquantina. Con addosso un paio di pantaloni neri e una canotta bianca. Ancora, ça va sans dire, senza identità. «Il cadavere non riscontra segni di violenza esteriore, potrebbe anche trattarsi di un suicidio o di un decesso avvenuto per cause naturali», dice Stefano Signoretti, capo della sezione omicidi della Squadra mobile di Roma. «Stiamo ancora attendendo gli esiti dell’autopsia». È passato un mese.Intanto dalle acque del fiume rese insalubri dagli scarichi fognari, acque da cui sono scomparsi i cavedani e le anguille, acque che l’inverno scorso stavano per esondare in Roma, si attendono ulteriori riscontri. «Approssimativamente sono una ventina i corpi che il Tevere restituisce ogni anno. Qualche suicida, soprattutto sbandati senza fissa dimora», conclude Signoretti. Capo della sezione omicidi di una città che è la capitale d’Italia. Che è passata al digitale. Ma che, a tratti, sembra l’Africa.
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2 commenti:
Conosco benissimo il punto esatto dove è stato ritrovato il cadavere di quel poveretto il 3 giugno scorso, e l'articolo è molto impreciso.
Il cassonetto accanto al quale è stato ritrovato si trova a quattro/cinque metri dall'ingresso di un grandissimo punto vendita di ceramiche e rivestimenti per bagno, trafficatissimo e frequentatissimo a qualsiasi ora del giorno (fin dalla mattina presto). Il punto esatto è questo: http://tinyurl.com/mbsuor
Quindi, per carità: che lo stato di abbandono di tante zone di Roma sia al limite del Terzo Mondo è fuor di discussione, e bene ha detto Berlusconi quando ha detto quello che ha detto. Ma un'informazione errata e fuorviante come quella dell'articolo non fa bene alla città. Il cadavere di quel signore non era là "da una settimana", non avrebbe potuto passare inosservato.
Grazie per le precisazioni. Ho preso l'articolo così com'è.
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