Una delegazione di Human Rights Watch è stata recentemente in Arabia Saudita. Per investigare sui maltrattamenti delle donne sotto la Legge islamica? Per fare una campagna sui diritti degli omosessuali che nella monarchia saudita sono soggetti alla pena di morte? Per protestare contro la mancanza di libertà religiosa? Per pubblicare un report sui prigionieri politici sauditi? No, no e poi no. La delegazione è arrivata per ottenere dei soldi dai ricchi sauditi in modo da mettere in luce la campagna di demonizzazione portata avanti da HRW contro Israele. Un portavoce dell’organizzazione umanitaria, Sarah Leah Whitson, ha sottolineato le battaglie condotte da HRW contro "i gruppi di pressione pro-israeliani attivi negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e alle Nazioni Unite". (Alla signora Whitson è stato chiesto di indossare un burka, o sono delle eccezioni fatte per gli attivisti dei ‘diritti umani’ che visitano l’Arabia Saudita? Guidare una macchina, senza dubbio, è fuori questione). Apparentemente, la signora Whitson non ha avuto tempo di criticare la pessima fedina penale sui diritti umani che vige nel regno saudita. Ma niente paura, recentemente HRW “ha chiesto alla monarchia di fare di più per proteggere i diritti umani dei lavoratori locali”. Non c’è niente di sbagliato se una organizzazione che si occupa di diritti umani si preoccupa anche dei maltrattamenti subiti dai lavoratori. Ma c’è qualcosa di profondamente sbagliato quando la stessa organizzazione va da una delle peggiori nazioni del mondo – sempre per quanto concerne il rispetto dei diritti umani – in cerca di soldi utili a lanciare una battaglia giudiziaria contro Israele, e durante il viaggio non spende neanche una parola sullo status dei diritti umani nel Paese che ha visitato. Infatti quasi certamente ognuno tra gli ascoltatori della Whitson utilizza dei lavoratori interni, e questo le ha dato una perfetta opportunità per vantarsi dell’impegno di HRW nel migliorare lo status dei suddetti lavoratori. Ma la Whitson non sta cercando soldi per i diritti umani, sta facendo fundraising per la campagna propagandista anti-israeliana orchestrata dalla sua organizzazione. Un tizio che dice di aver lavorato per HRW mi ha scritto: “Posso dirle che le persone impegnate in questa inchiesta e la parte politica della organizzazione hanno poco se non nulla a che spartire con la gente che è andata in cerca dei donatori”. Se questo è vero, apparentemente sarebbe un’altra eccezione che HRW fa in direzione di Israele: la signora Whitson, che ha distribuito la presentazione ai potenziali donatori sauditi, è la direttrice della Divisione Nordafricana di HRW. C’è anche da dire che, come ha commentato Nathan Wagner su Opinio Juris: “Esiste certamente una differenza morale tra il cercare fondi nelle nazioni libere facendo appello agli ideali dei diritti umani e cercare soldi in paesi repressivi attraverso appelli che mettano in evidenza come si stia facendo pressione nei confronti dei loro nemici. Il primo tipo di fundraising non mette in pericolo la missione dell'organizzazione, ma il fundraising descritto dal professor Bernstein mette in risalto come, senza alcuna significativa fiducia su questo tipo di fondi, si tenderà a mettere in sordina ogni critica sulle repressioni operate dal governo”. In conclusione, qualcuno potrebbe difendere HRW mostrando che l’organizzazione in passato ha diffuso dei documenti piuttosto severi sui diritti umani. Il punto, tuttavia, non è che HRW è pro-saudita ma che è maniacalmente anti-israeliana. La più recente manifestazione di questo sentimento è che i suoi dirigenti non vedono nulla di indecoroso nel cercare fondi tra l’elite di uno dei regimi più totalitari al mondo, pubblicizzando che hanno bisogno di questi soldi per combattere “le forze pro-israeliane”, senza il bisogno di discutere le molteplici violazioni dei diritti umani, e senza alcuna apparente preoccupazione che - diventando dipendenti dal denaro emanato da una brutale dittatura - saranno anche vulnerabili quando questa dittatura decidesse di tagliare il flusso dei fondi se “non vi comporterete bene”.
David Bernstein insegna legge alla George Mason University ed è autore di You Can’t Say That! The Growing Threat to Civil Liberties from Anti-Discrimination Laws. Tratto da “The Volokh Conspiracy” - Traduzione di Roberto Santoro
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