TRE temi strettamente legati l'uno all'altro dominano il panorama della settimana che oggi si chiude: l'intervento del presidente della Repubblica sulla legge approvata dal Parlamento che riguarda alcuni aspetti della sicurezza pubblica; il dibattito in corso nel Partito democratico in vista del congresso che si concluderà il 25 ottobre; la presentazione del Dpef e del decreto anti-crisi che ha cominciato il suo iter parlamentare. Ma va aggiunto che su questi tre temi ne incombe un quarto che ha carattere preliminare e che può avere come titolo quello usato venerdì scorso da Gustavo Zagrebelsky per il suo articolo pubblicato dal nostro giornale: "Verità e menzogna". Si tratta di un tema capitale per ogni democrazia poiché investe il rapporto fiduciario dei cittadini con le istituzioni, la formazione della pubblica opinione e la sua possibile manipolazione culturale prima ancora che politica e infine il funzionamento dello stato di diritto. Inizierò con il primo tema e concluderò con il quarto: vi è infatti un nesso evidente tra gli interventi del Quirinale e la tutela dello stato di diritto, mai come oggi insidiato, indebolito e vulnerabile. Si è detto da parte di alcuni fondamentalisti del centrodestra che l'intervento di Napolitano sulla legge di sicurezza è stato irrituale. L'ha detto anche Di Pietro che pratica un altro tipo di fondamentalismo. Napolitano, com'è noto, ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento ma ha accompagnato la sua firma con una lunga lettera diretta al presidente del Consiglio, ai ministri proponenti (Maroni, Alfano), ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale. La lettera elenca i punti critici della legge che, secondo il presidente della Repubblica, rischiano di inceppare l'ordinamento penale vigente suscitando effetti contraddittori rispetto a quelli voluti e interpretazioni molteplici da parte di chi dovrà attuarne le norme. I critici di Napolitano si sono domandati perché il Capo dello Stato, avendo ravvisato molteplici difetti della legge, non l'abbia rinviata al Parlamento come la Costituzione gli consente di fare. Questo dire e non dire, questo promulgare criticando e criticare promulgando sarebbe segno di incertezza e configurerebbe l'irritualità rimproverata. Noi non pensiamo che le cose stiano così. Il potere di rinvio alle Camere d'una legge da esse approvata è previsto in caso di mancata copertura finanziaria (e non è questo il caso) e di altre palesi forme di incostituzionalità. Palesi, poiché se tali non fossero spetterebbe alla Corte - se e quando attivata - aprire un'indagine ed emettere la sua sentenza. Napolitano non ha ravvisato palesi incostituzionalità ma preoccupanti elementi di incoerenza rispetto all'ordinamento penale vigente ed ha allertato le competenti istituzioni (e innanzitutto la Corte) affinché vigilino e provvedano a evitare gli incidenti di percorso che quella legge malfatta potrebbe produrre. Non mi pare che ci siano obiezioni da opporre ma soltanto solidarietà da esprimere al Capo dello Stato che sta cercando con diuturna fatica di raddrizzare il timone d'una barca assai mal diretta dai nocchieri che dovrebbero assicurarne un'ordinata navigazione. Il buon andamento della cosa pubblica riposa anche sull'esistenza d'una forte opposizione che abbia idee chiare sulla visione del paese e sui suoi problemi. Un'opinione molto diffusa, non soltanto nel centrodestra ma anche in ampi settori di centrosinistra, ritiene che il Partito democratico non abbia idee chiare sulla propria identità, non conosca né voglia conoscere i problemi del paese e sia percorso da una pulsione alla rissa interna alimentata soltanto da contrastanti ambizioni personali. Offra insomma al pubblico uno spettacolo miserando che qualcuno ha definito tragicomico e che avrebbe il solo effetto di accrescere l'irruente baldanza del potere berlusconiano. Noi non pensiamo che le cose stiano in questo modo anche se non mancano segnali di preoccupazione e forze centrifughe che spingono al peggio. I valori del partito riformista sono largamente condivisi al suo interno. Sono i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà con i deboli, non violenza, difesa dell'ambiente. Ma poi questi valori che distinguono fortemente la sinistra dalla destra, vanno tradotti in una linea concreta e qui, come è naturale, le posizioni divergono. Quella di Bersani punta (sono parole sue) ad un partito di sinistra con forti connotati laici, evoca l'Ulivo, cioè una vasta alleanza di forze unite da un programma e da un comune avversario, si prefigge una legge elettorale alla tedesca e mira ad un'alleanza nazionale con il centro cattolico e moderato di Casini. Il programma di Franceschini fa perno invece sul definitivo superamento delle antiche identità ex Ds ed ex Margherita, esalta un programma riformatore che colga i bisogni e le speranze dei vari ceti sociali e dei territori di insediamento del partito, sottolinea il ruolo degli elettori che si iscrivono al partito per partecipare alle primarie, fissa nel conflitto di interessi e in una legge che lo impedisca un impegno prioritario, conferma la laicità come un connotato di fondo e infine pone il tema d'una classe dirigente nuova e della sua selezione. Marino mette in prima fila il laicismo e si riserva di convergere con i suoi delegati sul nome di quello dei due candidati principali che presenti spiccate affinità con il suo programma. Desidero esprimere un paio d'osservazioni strettamente personali su queste diverse posizioni che comunque denotano un dibattito serio e aperto. C'è in questo dibattito congressuale un'attenzione al laicismo, specie da parte di personalità post-comuniste, che rappresenta un'assoluta e per me positiva novità. È noto che il tema laico fu sempre subordinato nel Pci e lo è stato fino a poco tempo fa nelle successive incarnazioni della sinistra. Questo laicismo spinto si coniuga tuttavia con l'esplicita ipotesi di un'alleanza nazionale con l'Udc di Casini e di Buttiglione, quasi a prefigurare uno schema che ricorda il tacito duopolio Dc-Pci della prima Repubblica. Mi sembra uno schema alquanto "retrò" per un partito riformista, senza dire che l'Udc non farà mai alleanze nazionali con la sinistra e l'ha detto in modo esplicito più e più volte. Per concludere su questo punto: ho molto apprezzato la lettera che Virginio Rognoni ha inviato al "Corriere della Sera" di giovedì scorso e l'articolo di fondo di Sergio Romano in quello stesso numero del giornale. Entrambi hanno sottolineato l'importanza e la serietà del dibattito in corso nel Pd. Di Rognoni non dubitavo. Il Sergio Romano di giovedì è una mosca bianca in un gruppo di mosche nere e fa piacere averlo letto. Uno degli elementi della partita politica è rappresentato dall'andamento della crisi economica, che il governo ha finora esorcizzato, prima disconoscendone l'esistenza e poi dandola già per conclusa. Posso dire che siamo il solo governo del mondo occidentale che abbia avuto questa posizione in due fasi entrambe caratterizzate da una consapevole dissimulazione della realtà. Qualche cifra servirà a chiarire, almeno per chi abbia capacità e voglia di capire, riportandoci coi piedi per terra. Il confronto tra i dati del primo quadrimestre del 2008 con il corrispondente periodo del 2009 registra una diminuzione della produzione industriale del 21 per cento e degli ordinativi di oltre il 30. Ancora più grave è il crollo delle esportazioni che rappresentano il principale elemento di sostegno della domanda: una diminuzione del 24 per cento. Quanto al nostro prodotto interno lordo, le previsioni del Dpef lo collocano al meno 5,1 ma altre attendibili fonti lo collocano addirittura al meno 6. Le altre cifre accolte nel Dpef concernenti il deficit, l'aumento delle spese, la diminuzione delle entrate, l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale confermano che erano giuste le previsioni della Banca d'Italia e sbagliate quelle del Tesoro di appena un mese fa, ma il peggio riguarda il settore dell'occupazione, destinata a una vera e propria discesa che avrà luogo dal prossimo settembre fino alla primavera 2010. Una discesa strutturale e non congiunturale poiché è accompagnata dalla distruzione di posti di lavoro che per molti anni non saranno compensati da un'estensione della base produttiva. Il nostro ministro dell'Economia ostenta ciononostante grande tranquillità. Mette insieme piccoli tasselli di sostegno fiscale, talmente minimali che neppure i diretti interessati ne percepiscono sollievo e tutti comunque postergati alla primavera-estate del 2010, cioè tra un anno da oggi. In questo (tardivo) recupero di frattaglie la sola bistecca è rappresentata dallo scudo fiscale dal quale Tremonti si aspetta un recupero di 3-4 miliardi di capitali e un beneficio per l'erario del 5 per cento sui guadagni che questi capitali hanno realizzato nel periodo in cui restarono imboscati nei vari paradisi fiscali. I giornali hanno cercato nei giorni scorsi di spiegare in che modo la materia imponibile sarà accertata ma, con la migliore buona volontà, non ci sono riusciti tali sono le complicazioni normative. Aspettiamo dunque di poter leggere i testi di legge e soprattutto i regolamenti, ma intanto alcune considerazioni possono essere fatte. 1. Sono stati esclusi dal condono (perché di vero e proprio condono si tratta) i reati di bancarotta e di falso in bilancio. Si tratta d'una giusta esclusione, richiesta dall'opposizione e accettata dal governo. 2. Tuttavia viene escluso da una norma successiva che le dichiarazioni riservate del proprietario dei capitali rientrati alla banca agente possano mai essere utilizzate in giudizio contro il contribuente interessato. Si cancellano cioè le prove che dovrebbero rendere concreta la punibilità prevista dalle norme, sia rispetto al giudice civile che a quello penale. È un rebus del quale il Parlamento dovrà in qualche modo venire a capo o abolendo la punibilità o abolendo il divieto di provarla. 3. La vasta platea dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che paga le imposte per ritenuta alla fonte e quindi fino all'ultimo centesimo, assisterà allo sconcio spettacolo di evasori fiscali che ottengono sanatoria pagando una tassa "una tantum" del 5 per cento. Questo confronto sta già diffondendo rabbia e protesta tra i contribuenti che fanno il loro dovere. È facile capire che la sfiducia verso le istituzioni farà un altro passo avanti di fronte ad un condono che premia per l'ennesima volta i soliti noti e i soliti recidivi. Mi resta da concludere con qualche parola sul tema "menzogna e verità". Su di esso sono state scritte intere biblioteche ma noi italiani abbiamo oggi il triste privilegio di vederne la messa in scena in presa diretta. Le democrazie vivono sul rapporto di fiducia che si instaura tra il popolo e le istituzioni. Ma poiché le istituzioni sono rappresentate da persone, quella fiducia si instaura tra il popolo e le persone istituzionali. Il rapporto fiduciario a sua volta si qualifica con due diverse modalità: la fiducia con partecipazione e quella con delega in bianco. Quest'ultima può essere revocata ma se dura troppo a lungo la revoca diventa difficile e sempre meno probabile anche perché l'area dalla partecipazione tende a restringersi mentre le istituzioni tendono ad assumere connotati sempre più autoritari. Noi stiamo vivendo questa fase con un'intensità che non è mai stata così accentuata in tutti i settant'anni di storia repubblicana. Le democrazie autoritarie derivano dunque da una torsione della democrazia partecipata verso una democrazia autoritaria con tratti di regime stabile e sempre più difficilmente revocabile. Il modello di democrazia autoritaria tende a raccontarsi in modo dissimile dal vero ed è a questo punto che la menzogna istituzionale diventa strumento primario di potere, deforma la realtà, indebolisce i poteri di garanzia, esercita la sua crescente influenza sui mezzi di informazione, dispensa favori e privilegi, viola diritti, narcotizza la pubblica opinione. La morale viene messa in soffitta, il teatro-spettacolo sostituisce la politica. Noi stiamo vivendo questa fase. Ad una tale deriva occorre resistere cercando di costruire il futuro.
domenica 19 luglio 2009
Democrazia malata
Una democrazia malata che deve guarire di Eugenio Scalfari
TRE temi strettamente legati l'uno all'altro dominano il panorama della settimana che oggi si chiude: l'intervento del presidente della Repubblica sulla legge approvata dal Parlamento che riguarda alcuni aspetti della sicurezza pubblica; il dibattito in corso nel Partito democratico in vista del congresso che si concluderà il 25 ottobre; la presentazione del Dpef e del decreto anti-crisi che ha cominciato il suo iter parlamentare. Ma va aggiunto che su questi tre temi ne incombe un quarto che ha carattere preliminare e che può avere come titolo quello usato venerdì scorso da Gustavo Zagrebelsky per il suo articolo pubblicato dal nostro giornale: "Verità e menzogna". Si tratta di un tema capitale per ogni democrazia poiché investe il rapporto fiduciario dei cittadini con le istituzioni, la formazione della pubblica opinione e la sua possibile manipolazione culturale prima ancora che politica e infine il funzionamento dello stato di diritto. Inizierò con il primo tema e concluderò con il quarto: vi è infatti un nesso evidente tra gli interventi del Quirinale e la tutela dello stato di diritto, mai come oggi insidiato, indebolito e vulnerabile. Si è detto da parte di alcuni fondamentalisti del centrodestra che l'intervento di Napolitano sulla legge di sicurezza è stato irrituale. L'ha detto anche Di Pietro che pratica un altro tipo di fondamentalismo. Napolitano, com'è noto, ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento ma ha accompagnato la sua firma con una lunga lettera diretta al presidente del Consiglio, ai ministri proponenti (Maroni, Alfano), ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale. La lettera elenca i punti critici della legge che, secondo il presidente della Repubblica, rischiano di inceppare l'ordinamento penale vigente suscitando effetti contraddittori rispetto a quelli voluti e interpretazioni molteplici da parte di chi dovrà attuarne le norme. I critici di Napolitano si sono domandati perché il Capo dello Stato, avendo ravvisato molteplici difetti della legge, non l'abbia rinviata al Parlamento come la Costituzione gli consente di fare. Questo dire e non dire, questo promulgare criticando e criticare promulgando sarebbe segno di incertezza e configurerebbe l'irritualità rimproverata. Noi non pensiamo che le cose stiano così. Il potere di rinvio alle Camere d'una legge da esse approvata è previsto in caso di mancata copertura finanziaria (e non è questo il caso) e di altre palesi forme di incostituzionalità. Palesi, poiché se tali non fossero spetterebbe alla Corte - se e quando attivata - aprire un'indagine ed emettere la sua sentenza. Napolitano non ha ravvisato palesi incostituzionalità ma preoccupanti elementi di incoerenza rispetto all'ordinamento penale vigente ed ha allertato le competenti istituzioni (e innanzitutto la Corte) affinché vigilino e provvedano a evitare gli incidenti di percorso che quella legge malfatta potrebbe produrre. Non mi pare che ci siano obiezioni da opporre ma soltanto solidarietà da esprimere al Capo dello Stato che sta cercando con diuturna fatica di raddrizzare il timone d'una barca assai mal diretta dai nocchieri che dovrebbero assicurarne un'ordinata navigazione. Il buon andamento della cosa pubblica riposa anche sull'esistenza d'una forte opposizione che abbia idee chiare sulla visione del paese e sui suoi problemi. Un'opinione molto diffusa, non soltanto nel centrodestra ma anche in ampi settori di centrosinistra, ritiene che il Partito democratico non abbia idee chiare sulla propria identità, non conosca né voglia conoscere i problemi del paese e sia percorso da una pulsione alla rissa interna alimentata soltanto da contrastanti ambizioni personali. Offra insomma al pubblico uno spettacolo miserando che qualcuno ha definito tragicomico e che avrebbe il solo effetto di accrescere l'irruente baldanza del potere berlusconiano. Noi non pensiamo che le cose stiano in questo modo anche se non mancano segnali di preoccupazione e forze centrifughe che spingono al peggio. I valori del partito riformista sono largamente condivisi al suo interno. Sono i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà con i deboli, non violenza, difesa dell'ambiente. Ma poi questi valori che distinguono fortemente la sinistra dalla destra, vanno tradotti in una linea concreta e qui, come è naturale, le posizioni divergono. Quella di Bersani punta (sono parole sue) ad un partito di sinistra con forti connotati laici, evoca l'Ulivo, cioè una vasta alleanza di forze unite da un programma e da un comune avversario, si prefigge una legge elettorale alla tedesca e mira ad un'alleanza nazionale con il centro cattolico e moderato di Casini. Il programma di Franceschini fa perno invece sul definitivo superamento delle antiche identità ex Ds ed ex Margherita, esalta un programma riformatore che colga i bisogni e le speranze dei vari ceti sociali e dei territori di insediamento del partito, sottolinea il ruolo degli elettori che si iscrivono al partito per partecipare alle primarie, fissa nel conflitto di interessi e in una legge che lo impedisca un impegno prioritario, conferma la laicità come un connotato di fondo e infine pone il tema d'una classe dirigente nuova e della sua selezione. Marino mette in prima fila il laicismo e si riserva di convergere con i suoi delegati sul nome di quello dei due candidati principali che presenti spiccate affinità con il suo programma. Desidero esprimere un paio d'osservazioni strettamente personali su queste diverse posizioni che comunque denotano un dibattito serio e aperto. C'è in questo dibattito congressuale un'attenzione al laicismo, specie da parte di personalità post-comuniste, che rappresenta un'assoluta e per me positiva novità. È noto che il tema laico fu sempre subordinato nel Pci e lo è stato fino a poco tempo fa nelle successive incarnazioni della sinistra. Questo laicismo spinto si coniuga tuttavia con l'esplicita ipotesi di un'alleanza nazionale con l'Udc di Casini e di Buttiglione, quasi a prefigurare uno schema che ricorda il tacito duopolio Dc-Pci della prima Repubblica. Mi sembra uno schema alquanto "retrò" per un partito riformista, senza dire che l'Udc non farà mai alleanze nazionali con la sinistra e l'ha detto in modo esplicito più e più volte. Per concludere su questo punto: ho molto apprezzato la lettera che Virginio Rognoni ha inviato al "Corriere della Sera" di giovedì scorso e l'articolo di fondo di Sergio Romano in quello stesso numero del giornale. Entrambi hanno sottolineato l'importanza e la serietà del dibattito in corso nel Pd. Di Rognoni non dubitavo. Il Sergio Romano di giovedì è una mosca bianca in un gruppo di mosche nere e fa piacere averlo letto. Uno degli elementi della partita politica è rappresentato dall'andamento della crisi economica, che il governo ha finora esorcizzato, prima disconoscendone l'esistenza e poi dandola già per conclusa. Posso dire che siamo il solo governo del mondo occidentale che abbia avuto questa posizione in due fasi entrambe caratterizzate da una consapevole dissimulazione della realtà. Qualche cifra servirà a chiarire, almeno per chi abbia capacità e voglia di capire, riportandoci coi piedi per terra. Il confronto tra i dati del primo quadrimestre del 2008 con il corrispondente periodo del 2009 registra una diminuzione della produzione industriale del 21 per cento e degli ordinativi di oltre il 30. Ancora più grave è il crollo delle esportazioni che rappresentano il principale elemento di sostegno della domanda: una diminuzione del 24 per cento. Quanto al nostro prodotto interno lordo, le previsioni del Dpef lo collocano al meno 5,1 ma altre attendibili fonti lo collocano addirittura al meno 6. Le altre cifre accolte nel Dpef concernenti il deficit, l'aumento delle spese, la diminuzione delle entrate, l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale confermano che erano giuste le previsioni della Banca d'Italia e sbagliate quelle del Tesoro di appena un mese fa, ma il peggio riguarda il settore dell'occupazione, destinata a una vera e propria discesa che avrà luogo dal prossimo settembre fino alla primavera 2010. Una discesa strutturale e non congiunturale poiché è accompagnata dalla distruzione di posti di lavoro che per molti anni non saranno compensati da un'estensione della base produttiva. Il nostro ministro dell'Economia ostenta ciononostante grande tranquillità. Mette insieme piccoli tasselli di sostegno fiscale, talmente minimali che neppure i diretti interessati ne percepiscono sollievo e tutti comunque postergati alla primavera-estate del 2010, cioè tra un anno da oggi. In questo (tardivo) recupero di frattaglie la sola bistecca è rappresentata dallo scudo fiscale dal quale Tremonti si aspetta un recupero di 3-4 miliardi di capitali e un beneficio per l'erario del 5 per cento sui guadagni che questi capitali hanno realizzato nel periodo in cui restarono imboscati nei vari paradisi fiscali. I giornali hanno cercato nei giorni scorsi di spiegare in che modo la materia imponibile sarà accertata ma, con la migliore buona volontà, non ci sono riusciti tali sono le complicazioni normative. Aspettiamo dunque di poter leggere i testi di legge e soprattutto i regolamenti, ma intanto alcune considerazioni possono essere fatte. 1. Sono stati esclusi dal condono (perché di vero e proprio condono si tratta) i reati di bancarotta e di falso in bilancio. Si tratta d'una giusta esclusione, richiesta dall'opposizione e accettata dal governo. 2. Tuttavia viene escluso da una norma successiva che le dichiarazioni riservate del proprietario dei capitali rientrati alla banca agente possano mai essere utilizzate in giudizio contro il contribuente interessato. Si cancellano cioè le prove che dovrebbero rendere concreta la punibilità prevista dalle norme, sia rispetto al giudice civile che a quello penale. È un rebus del quale il Parlamento dovrà in qualche modo venire a capo o abolendo la punibilità o abolendo il divieto di provarla. 3. La vasta platea dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che paga le imposte per ritenuta alla fonte e quindi fino all'ultimo centesimo, assisterà allo sconcio spettacolo di evasori fiscali che ottengono sanatoria pagando una tassa "una tantum" del 5 per cento. Questo confronto sta già diffondendo rabbia e protesta tra i contribuenti che fanno il loro dovere. È facile capire che la sfiducia verso le istituzioni farà un altro passo avanti di fronte ad un condono che premia per l'ennesima volta i soliti noti e i soliti recidivi. Mi resta da concludere con qualche parola sul tema "menzogna e verità". Su di esso sono state scritte intere biblioteche ma noi italiani abbiamo oggi il triste privilegio di vederne la messa in scena in presa diretta. Le democrazie vivono sul rapporto di fiducia che si instaura tra il popolo e le istituzioni. Ma poiché le istituzioni sono rappresentate da persone, quella fiducia si instaura tra il popolo e le persone istituzionali. Il rapporto fiduciario a sua volta si qualifica con due diverse modalità: la fiducia con partecipazione e quella con delega in bianco. Quest'ultima può essere revocata ma se dura troppo a lungo la revoca diventa difficile e sempre meno probabile anche perché l'area dalla partecipazione tende a restringersi mentre le istituzioni tendono ad assumere connotati sempre più autoritari. Noi stiamo vivendo questa fase con un'intensità che non è mai stata così accentuata in tutti i settant'anni di storia repubblicana. Le democrazie autoritarie derivano dunque da una torsione della democrazia partecipata verso una democrazia autoritaria con tratti di regime stabile e sempre più difficilmente revocabile. Il modello di democrazia autoritaria tende a raccontarsi in modo dissimile dal vero ed è a questo punto che la menzogna istituzionale diventa strumento primario di potere, deforma la realtà, indebolisce i poteri di garanzia, esercita la sua crescente influenza sui mezzi di informazione, dispensa favori e privilegi, viola diritti, narcotizza la pubblica opinione. La morale viene messa in soffitta, il teatro-spettacolo sostituisce la politica. Noi stiamo vivendo questa fase. Ad una tale deriva occorre resistere cercando di costruire il futuro.
TRE temi strettamente legati l'uno all'altro dominano il panorama della settimana che oggi si chiude: l'intervento del presidente della Repubblica sulla legge approvata dal Parlamento che riguarda alcuni aspetti della sicurezza pubblica; il dibattito in corso nel Partito democratico in vista del congresso che si concluderà il 25 ottobre; la presentazione del Dpef e del decreto anti-crisi che ha cominciato il suo iter parlamentare. Ma va aggiunto che su questi tre temi ne incombe un quarto che ha carattere preliminare e che può avere come titolo quello usato venerdì scorso da Gustavo Zagrebelsky per il suo articolo pubblicato dal nostro giornale: "Verità e menzogna". Si tratta di un tema capitale per ogni democrazia poiché investe il rapporto fiduciario dei cittadini con le istituzioni, la formazione della pubblica opinione e la sua possibile manipolazione culturale prima ancora che politica e infine il funzionamento dello stato di diritto. Inizierò con il primo tema e concluderò con il quarto: vi è infatti un nesso evidente tra gli interventi del Quirinale e la tutela dello stato di diritto, mai come oggi insidiato, indebolito e vulnerabile. Si è detto da parte di alcuni fondamentalisti del centrodestra che l'intervento di Napolitano sulla legge di sicurezza è stato irrituale. L'ha detto anche Di Pietro che pratica un altro tipo di fondamentalismo. Napolitano, com'è noto, ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento ma ha accompagnato la sua firma con una lunga lettera diretta al presidente del Consiglio, ai ministri proponenti (Maroni, Alfano), ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale. La lettera elenca i punti critici della legge che, secondo il presidente della Repubblica, rischiano di inceppare l'ordinamento penale vigente suscitando effetti contraddittori rispetto a quelli voluti e interpretazioni molteplici da parte di chi dovrà attuarne le norme. I critici di Napolitano si sono domandati perché il Capo dello Stato, avendo ravvisato molteplici difetti della legge, non l'abbia rinviata al Parlamento come la Costituzione gli consente di fare. Questo dire e non dire, questo promulgare criticando e criticare promulgando sarebbe segno di incertezza e configurerebbe l'irritualità rimproverata. Noi non pensiamo che le cose stiano così. Il potere di rinvio alle Camere d'una legge da esse approvata è previsto in caso di mancata copertura finanziaria (e non è questo il caso) e di altre palesi forme di incostituzionalità. Palesi, poiché se tali non fossero spetterebbe alla Corte - se e quando attivata - aprire un'indagine ed emettere la sua sentenza. Napolitano non ha ravvisato palesi incostituzionalità ma preoccupanti elementi di incoerenza rispetto all'ordinamento penale vigente ed ha allertato le competenti istituzioni (e innanzitutto la Corte) affinché vigilino e provvedano a evitare gli incidenti di percorso che quella legge malfatta potrebbe produrre. Non mi pare che ci siano obiezioni da opporre ma soltanto solidarietà da esprimere al Capo dello Stato che sta cercando con diuturna fatica di raddrizzare il timone d'una barca assai mal diretta dai nocchieri che dovrebbero assicurarne un'ordinata navigazione. Il buon andamento della cosa pubblica riposa anche sull'esistenza d'una forte opposizione che abbia idee chiare sulla visione del paese e sui suoi problemi. Un'opinione molto diffusa, non soltanto nel centrodestra ma anche in ampi settori di centrosinistra, ritiene che il Partito democratico non abbia idee chiare sulla propria identità, non conosca né voglia conoscere i problemi del paese e sia percorso da una pulsione alla rissa interna alimentata soltanto da contrastanti ambizioni personali. Offra insomma al pubblico uno spettacolo miserando che qualcuno ha definito tragicomico e che avrebbe il solo effetto di accrescere l'irruente baldanza del potere berlusconiano. Noi non pensiamo che le cose stiano in questo modo anche se non mancano segnali di preoccupazione e forze centrifughe che spingono al peggio. I valori del partito riformista sono largamente condivisi al suo interno. Sono i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà con i deboli, non violenza, difesa dell'ambiente. Ma poi questi valori che distinguono fortemente la sinistra dalla destra, vanno tradotti in una linea concreta e qui, come è naturale, le posizioni divergono. Quella di Bersani punta (sono parole sue) ad un partito di sinistra con forti connotati laici, evoca l'Ulivo, cioè una vasta alleanza di forze unite da un programma e da un comune avversario, si prefigge una legge elettorale alla tedesca e mira ad un'alleanza nazionale con il centro cattolico e moderato di Casini. Il programma di Franceschini fa perno invece sul definitivo superamento delle antiche identità ex Ds ed ex Margherita, esalta un programma riformatore che colga i bisogni e le speranze dei vari ceti sociali e dei territori di insediamento del partito, sottolinea il ruolo degli elettori che si iscrivono al partito per partecipare alle primarie, fissa nel conflitto di interessi e in una legge che lo impedisca un impegno prioritario, conferma la laicità come un connotato di fondo e infine pone il tema d'una classe dirigente nuova e della sua selezione. Marino mette in prima fila il laicismo e si riserva di convergere con i suoi delegati sul nome di quello dei due candidati principali che presenti spiccate affinità con il suo programma. Desidero esprimere un paio d'osservazioni strettamente personali su queste diverse posizioni che comunque denotano un dibattito serio e aperto. C'è in questo dibattito congressuale un'attenzione al laicismo, specie da parte di personalità post-comuniste, che rappresenta un'assoluta e per me positiva novità. È noto che il tema laico fu sempre subordinato nel Pci e lo è stato fino a poco tempo fa nelle successive incarnazioni della sinistra. Questo laicismo spinto si coniuga tuttavia con l'esplicita ipotesi di un'alleanza nazionale con l'Udc di Casini e di Buttiglione, quasi a prefigurare uno schema che ricorda il tacito duopolio Dc-Pci della prima Repubblica. Mi sembra uno schema alquanto "retrò" per un partito riformista, senza dire che l'Udc non farà mai alleanze nazionali con la sinistra e l'ha detto in modo esplicito più e più volte. Per concludere su questo punto: ho molto apprezzato la lettera che Virginio Rognoni ha inviato al "Corriere della Sera" di giovedì scorso e l'articolo di fondo di Sergio Romano in quello stesso numero del giornale. Entrambi hanno sottolineato l'importanza e la serietà del dibattito in corso nel Pd. Di Rognoni non dubitavo. Il Sergio Romano di giovedì è una mosca bianca in un gruppo di mosche nere e fa piacere averlo letto. Uno degli elementi della partita politica è rappresentato dall'andamento della crisi economica, che il governo ha finora esorcizzato, prima disconoscendone l'esistenza e poi dandola già per conclusa. Posso dire che siamo il solo governo del mondo occidentale che abbia avuto questa posizione in due fasi entrambe caratterizzate da una consapevole dissimulazione della realtà. Qualche cifra servirà a chiarire, almeno per chi abbia capacità e voglia di capire, riportandoci coi piedi per terra. Il confronto tra i dati del primo quadrimestre del 2008 con il corrispondente periodo del 2009 registra una diminuzione della produzione industriale del 21 per cento e degli ordinativi di oltre il 30. Ancora più grave è il crollo delle esportazioni che rappresentano il principale elemento di sostegno della domanda: una diminuzione del 24 per cento. Quanto al nostro prodotto interno lordo, le previsioni del Dpef lo collocano al meno 5,1 ma altre attendibili fonti lo collocano addirittura al meno 6. Le altre cifre accolte nel Dpef concernenti il deficit, l'aumento delle spese, la diminuzione delle entrate, l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale confermano che erano giuste le previsioni della Banca d'Italia e sbagliate quelle del Tesoro di appena un mese fa, ma il peggio riguarda il settore dell'occupazione, destinata a una vera e propria discesa che avrà luogo dal prossimo settembre fino alla primavera 2010. Una discesa strutturale e non congiunturale poiché è accompagnata dalla distruzione di posti di lavoro che per molti anni non saranno compensati da un'estensione della base produttiva. Il nostro ministro dell'Economia ostenta ciononostante grande tranquillità. Mette insieme piccoli tasselli di sostegno fiscale, talmente minimali che neppure i diretti interessati ne percepiscono sollievo e tutti comunque postergati alla primavera-estate del 2010, cioè tra un anno da oggi. In questo (tardivo) recupero di frattaglie la sola bistecca è rappresentata dallo scudo fiscale dal quale Tremonti si aspetta un recupero di 3-4 miliardi di capitali e un beneficio per l'erario del 5 per cento sui guadagni che questi capitali hanno realizzato nel periodo in cui restarono imboscati nei vari paradisi fiscali. I giornali hanno cercato nei giorni scorsi di spiegare in che modo la materia imponibile sarà accertata ma, con la migliore buona volontà, non ci sono riusciti tali sono le complicazioni normative. Aspettiamo dunque di poter leggere i testi di legge e soprattutto i regolamenti, ma intanto alcune considerazioni possono essere fatte. 1. Sono stati esclusi dal condono (perché di vero e proprio condono si tratta) i reati di bancarotta e di falso in bilancio. Si tratta d'una giusta esclusione, richiesta dall'opposizione e accettata dal governo. 2. Tuttavia viene escluso da una norma successiva che le dichiarazioni riservate del proprietario dei capitali rientrati alla banca agente possano mai essere utilizzate in giudizio contro il contribuente interessato. Si cancellano cioè le prove che dovrebbero rendere concreta la punibilità prevista dalle norme, sia rispetto al giudice civile che a quello penale. È un rebus del quale il Parlamento dovrà in qualche modo venire a capo o abolendo la punibilità o abolendo il divieto di provarla. 3. La vasta platea dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che paga le imposte per ritenuta alla fonte e quindi fino all'ultimo centesimo, assisterà allo sconcio spettacolo di evasori fiscali che ottengono sanatoria pagando una tassa "una tantum" del 5 per cento. Questo confronto sta già diffondendo rabbia e protesta tra i contribuenti che fanno il loro dovere. È facile capire che la sfiducia verso le istituzioni farà un altro passo avanti di fronte ad un condono che premia per l'ennesima volta i soliti noti e i soliti recidivi. Mi resta da concludere con qualche parola sul tema "menzogna e verità". Su di esso sono state scritte intere biblioteche ma noi italiani abbiamo oggi il triste privilegio di vederne la messa in scena in presa diretta. Le democrazie vivono sul rapporto di fiducia che si instaura tra il popolo e le istituzioni. Ma poiché le istituzioni sono rappresentate da persone, quella fiducia si instaura tra il popolo e le persone istituzionali. Il rapporto fiduciario a sua volta si qualifica con due diverse modalità: la fiducia con partecipazione e quella con delega in bianco. Quest'ultima può essere revocata ma se dura troppo a lungo la revoca diventa difficile e sempre meno probabile anche perché l'area dalla partecipazione tende a restringersi mentre le istituzioni tendono ad assumere connotati sempre più autoritari. Noi stiamo vivendo questa fase con un'intensità che non è mai stata così accentuata in tutti i settant'anni di storia repubblicana. Le democrazie autoritarie derivano dunque da una torsione della democrazia partecipata verso una democrazia autoritaria con tratti di regime stabile e sempre più difficilmente revocabile. Il modello di democrazia autoritaria tende a raccontarsi in modo dissimile dal vero ed è a questo punto che la menzogna istituzionale diventa strumento primario di potere, deforma la realtà, indebolisce i poteri di garanzia, esercita la sua crescente influenza sui mezzi di informazione, dispensa favori e privilegi, viola diritti, narcotizza la pubblica opinione. La morale viene messa in soffitta, il teatro-spettacolo sostituisce la politica. Noi stiamo vivendo questa fase. Ad una tale deriva occorre resistere cercando di costruire il futuro.
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