Contro il " Colpo di spada" degli americani, i Taliban alzano lo scudo di Bowe Bergdahl. Per la prima volta dai tempi di Enduring Freedom gli Stati Uniti devono fare i conti con la cattura di un proprio soldato, caduto nelle mani dei seguaci del mullah Omar. O di uno dei tanti gruppi che ormai formano la galassia talebana. Nel video trasmesso da Al Jazeera, e finito subito in Rete, a dimostrazione che l'arcaismo comunicativo del movimento è andato in soffitta dopo l'alleanza con i qaedisti, appare il soldato catturato a fine giugno nell'area di Paktika. Dopo l'inizio dell'operazione militare nel sud del paese che, se non decisiva per chiudere una guerra comunque difficile vincere, dovrebbe almeno ridimensionare il controllo territoriale dei Taliban nell'area per il tempo delle elezioni. Bergdahl, che veste abiti tradizionali afgani e ha una barba folta, quasi fosse presentato come sulla via della conversione, dice di essere spaventato e di voler tornare a casa; chiede al governo di far rientrare le truppe e, naturalmente, lui con loro. Che appaia in buona salute è importante ma non rassicura: la cattività tra miliziani in turbante e kalashnikov regala momenti di serenità del tutto provvisori. Tanto che i suoi carcerieri hanno minacciato di ucciderlo se le richieste formulate non fossero esaudite. Richiesta disperata, quella del "tutti a casa". Avviene in un momento in cui l'amministrazione Obama ha deciso piuttosto di rafforzare il suo impegno nel "Paese dei monti". Invertendo le priorità dell'era Bush. Certo non spetta a un soldato, tanto più prigioniero, la comprensione della complessità dello scenario strategico Afpak. Sotto il pervasivo suggerimento dei suoi carcerieri l'ostaggio Bergdahl non può che definire la presenza Usa in Afghanistan come "un perdita di tempo". Anche se lo fa guardando in basso, quasi a mandare segnali in codice. Ma è difficile che in riva al Potomac le sue parole possano essere ascoltate. Oltretutto gli Usa non trattano per la liberazione dei loro ostaggi, che puntano a liberare mediante operazioni militari. Bergdahl lo sa, come qualunque soldato a stelle e strisce, tanto più quelli coinvolti in un teatro di guerra. La sua sorte è affidata all'occhiuto sguardo dei Predator, pure spesso ciechi un uno scenario in cui tutto è mimetico, anche l'elemento umano, alla capacità delle forze speciali di seguire le tracce. Quanto al video, appare diverso da quelli girati da Al Qaeda. In particolare da quell'altro americano, Johnny, che tra gli jihadisti milita invece volontariamente. Qui tutto è essenziale, senza enfasi, anche se si tratta di un'essenzialità che svela la nuda vita e, drammaticamente, rimanda a un pericolo mortale. La parole sono intervallate da riprese in cui Bergdahl mangia, immagini che nell'intento dei registi del sequestro intendono mostrare l'ospitalità locale contrapposta alla presenza di quanti si presentano in armi. Niente proclami, quasi a dimostrare che chi lo tiene prigioniero lo giudica un "prigioniero di guerra" e non è interessato alla jihad globale, a quella deriva filoqaedista che ha perduto l'Emirato dell'Afghansitan, ma solo al ritiro degli americani e della coalizione. Forze, insomma, con le quali si potrebbe persino trattare, decise a praticare il jihad solo in via difensiva. Un argomento cui l'amministrazione Obama, intenta a separare i gruppi islamisti in neo-tradizionalisti e radicali, e quest'ultimi in localisti e globalisti, potrebbe in futuro essere sensibile.
lunedì 20 luglio 2009
Islam di pace
Il nuovo volto della jihad di Renzo Guolo
Contro il " Colpo di spada" degli americani, i Taliban alzano lo scudo di Bowe Bergdahl. Per la prima volta dai tempi di Enduring Freedom gli Stati Uniti devono fare i conti con la cattura di un proprio soldato, caduto nelle mani dei seguaci del mullah Omar. O di uno dei tanti gruppi che ormai formano la galassia talebana. Nel video trasmesso da Al Jazeera, e finito subito in Rete, a dimostrazione che l'arcaismo comunicativo del movimento è andato in soffitta dopo l'alleanza con i qaedisti, appare il soldato catturato a fine giugno nell'area di Paktika. Dopo l'inizio dell'operazione militare nel sud del paese che, se non decisiva per chiudere una guerra comunque difficile vincere, dovrebbe almeno ridimensionare il controllo territoriale dei Taliban nell'area per il tempo delle elezioni. Bergdahl, che veste abiti tradizionali afgani e ha una barba folta, quasi fosse presentato come sulla via della conversione, dice di essere spaventato e di voler tornare a casa; chiede al governo di far rientrare le truppe e, naturalmente, lui con loro. Che appaia in buona salute è importante ma non rassicura: la cattività tra miliziani in turbante e kalashnikov regala momenti di serenità del tutto provvisori. Tanto che i suoi carcerieri hanno minacciato di ucciderlo se le richieste formulate non fossero esaudite. Richiesta disperata, quella del "tutti a casa". Avviene in un momento in cui l'amministrazione Obama ha deciso piuttosto di rafforzare il suo impegno nel "Paese dei monti". Invertendo le priorità dell'era Bush. Certo non spetta a un soldato, tanto più prigioniero, la comprensione della complessità dello scenario strategico Afpak. Sotto il pervasivo suggerimento dei suoi carcerieri l'ostaggio Bergdahl non può che definire la presenza Usa in Afghanistan come "un perdita di tempo". Anche se lo fa guardando in basso, quasi a mandare segnali in codice. Ma è difficile che in riva al Potomac le sue parole possano essere ascoltate. Oltretutto gli Usa non trattano per la liberazione dei loro ostaggi, che puntano a liberare mediante operazioni militari. Bergdahl lo sa, come qualunque soldato a stelle e strisce, tanto più quelli coinvolti in un teatro di guerra. La sua sorte è affidata all'occhiuto sguardo dei Predator, pure spesso ciechi un uno scenario in cui tutto è mimetico, anche l'elemento umano, alla capacità delle forze speciali di seguire le tracce. Quanto al video, appare diverso da quelli girati da Al Qaeda. In particolare da quell'altro americano, Johnny, che tra gli jihadisti milita invece volontariamente. Qui tutto è essenziale, senza enfasi, anche se si tratta di un'essenzialità che svela la nuda vita e, drammaticamente, rimanda a un pericolo mortale. La parole sono intervallate da riprese in cui Bergdahl mangia, immagini che nell'intento dei registi del sequestro intendono mostrare l'ospitalità locale contrapposta alla presenza di quanti si presentano in armi. Niente proclami, quasi a dimostrare che chi lo tiene prigioniero lo giudica un "prigioniero di guerra" e non è interessato alla jihad globale, a quella deriva filoqaedista che ha perduto l'Emirato dell'Afghansitan, ma solo al ritiro degli americani e della coalizione. Forze, insomma, con le quali si potrebbe persino trattare, decise a praticare il jihad solo in via difensiva. Un argomento cui l'amministrazione Obama, intenta a separare i gruppi islamisti in neo-tradizionalisti e radicali, e quest'ultimi in localisti e globalisti, potrebbe in futuro essere sensibile.
Contro il " Colpo di spada" degli americani, i Taliban alzano lo scudo di Bowe Bergdahl. Per la prima volta dai tempi di Enduring Freedom gli Stati Uniti devono fare i conti con la cattura di un proprio soldato, caduto nelle mani dei seguaci del mullah Omar. O di uno dei tanti gruppi che ormai formano la galassia talebana. Nel video trasmesso da Al Jazeera, e finito subito in Rete, a dimostrazione che l'arcaismo comunicativo del movimento è andato in soffitta dopo l'alleanza con i qaedisti, appare il soldato catturato a fine giugno nell'area di Paktika. Dopo l'inizio dell'operazione militare nel sud del paese che, se non decisiva per chiudere una guerra comunque difficile vincere, dovrebbe almeno ridimensionare il controllo territoriale dei Taliban nell'area per il tempo delle elezioni. Bergdahl, che veste abiti tradizionali afgani e ha una barba folta, quasi fosse presentato come sulla via della conversione, dice di essere spaventato e di voler tornare a casa; chiede al governo di far rientrare le truppe e, naturalmente, lui con loro. Che appaia in buona salute è importante ma non rassicura: la cattività tra miliziani in turbante e kalashnikov regala momenti di serenità del tutto provvisori. Tanto che i suoi carcerieri hanno minacciato di ucciderlo se le richieste formulate non fossero esaudite. Richiesta disperata, quella del "tutti a casa". Avviene in un momento in cui l'amministrazione Obama ha deciso piuttosto di rafforzare il suo impegno nel "Paese dei monti". Invertendo le priorità dell'era Bush. Certo non spetta a un soldato, tanto più prigioniero, la comprensione della complessità dello scenario strategico Afpak. Sotto il pervasivo suggerimento dei suoi carcerieri l'ostaggio Bergdahl non può che definire la presenza Usa in Afghanistan come "un perdita di tempo". Anche se lo fa guardando in basso, quasi a mandare segnali in codice. Ma è difficile che in riva al Potomac le sue parole possano essere ascoltate. Oltretutto gli Usa non trattano per la liberazione dei loro ostaggi, che puntano a liberare mediante operazioni militari. Bergdahl lo sa, come qualunque soldato a stelle e strisce, tanto più quelli coinvolti in un teatro di guerra. La sua sorte è affidata all'occhiuto sguardo dei Predator, pure spesso ciechi un uno scenario in cui tutto è mimetico, anche l'elemento umano, alla capacità delle forze speciali di seguire le tracce. Quanto al video, appare diverso da quelli girati da Al Qaeda. In particolare da quell'altro americano, Johnny, che tra gli jihadisti milita invece volontariamente. Qui tutto è essenziale, senza enfasi, anche se si tratta di un'essenzialità che svela la nuda vita e, drammaticamente, rimanda a un pericolo mortale. La parole sono intervallate da riprese in cui Bergdahl mangia, immagini che nell'intento dei registi del sequestro intendono mostrare l'ospitalità locale contrapposta alla presenza di quanti si presentano in armi. Niente proclami, quasi a dimostrare che chi lo tiene prigioniero lo giudica un "prigioniero di guerra" e non è interessato alla jihad globale, a quella deriva filoqaedista che ha perduto l'Emirato dell'Afghansitan, ma solo al ritiro degli americani e della coalizione. Forze, insomma, con le quali si potrebbe persino trattare, decise a praticare il jihad solo in via difensiva. Un argomento cui l'amministrazione Obama, intenta a separare i gruppi islamisti in neo-tradizionalisti e radicali, e quest'ultimi in localisti e globalisti, potrebbe in futuro essere sensibile.
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