MILANO - «Dal congresso del Pd e dal suo esito non passa soltanto il futuro del partito, che pure è una cosa importante. Passa anche il futuro assetto della politica italiana dopo Berlusconi; e quindi la questione riguarda tutti. Sento il dovere di pensare cosa succederà dopo la chiusura di un’epoca, che può essere o fisiologica, con la fine della legislatura, o traumatica. Abbiamo il dovere di pensare che dopo Berlusconi non venga azzerato l’orologio e non si ricominci tutto da capo; come se il bipolarismo e l’alternanza di governo non fossero una conquista di tutti, che ha reso più moderno e più semplice il paese, ma fossero legati solo all’esistenza di Berlusconi come leader o come avversario. Il che sarebbe un dramma».
Segretario Franceschini, sta dicendo che se vince Bersani si torna indietro, alla Prima Repubblica? «In questi anni di transizione dal ’94 a oggi, con tutti gli scontri e i limiti che abbiamo visto, due cose sono state condivise dai due campi: la nascita di uno schema bipolare, centrodestra e centrosinistra che si alternano al governo; e la nascita del Pd prima e del Pdl poi. Si è passati da un bipolarismo fondato su coalizioni eterogenee, frammentate, litigiose, a un bipolarismo più europeo, con due grandi partiti alternativi e alcune forze intermedie. Ma non dobbiamo credere che questo sistema sia acquisito per sempre, come se fosse consolidato da decenni. Dobbiamo pensare che questo sistema vada salvaguardato; perché non riguarda solo la politica, ma anche le istituzioni, l’economia, la competitività, l’aggancio all’Europa».
Il bipolarismo è davvero in pericolo secondo lei? «Io prendo un impegno: garantire che questo schema sopravviva a Berlusconi. Invece a volte ho l’impressione che, se questo schema non si consolida, possa scattare un meccanismo per cui, finito Berlusconi, la politica italiana si rimette in moto su binari antichi e, attraverso cambi di legge elettorali o attraverso scelte politiche, torni uno schema in cui le maggioranze e i governi non sono più decisi dagli elettori ma sono variabili e mobili. Il bipolarismo italiano e il campo riformista non sono nati in funzione anti-Berlusconi; corrispondono a un assetto globale, tipico delle democrazie di tutto il mondo. Ma se noi sbagliamo rischiamo di perdere questa conquista».
Lei ne parla come se il Cavaliere non avesse ancora un lungo mandato davanti a sé. «Del dopo-Berlusconi dobbiamo cominciare a occuparci. Nessun uomo di buonsenso può pensare che si ricandidi a fine legislatura; è una scadenza inevitabile. Ma ci sono tutti gli ingredienti per una fine traumatica anticipata. L’autunno sarà il momento di massimo impatto della crisi: piccole e medie imprese che non riaprono perché hanno finito credito e liquidità, lavoratori dipendenti o autonomi con redditi ormai totalmente insufficienti, decine di migliaia di lavoratori dipendenti o autonomi che perdono il lavoro e si trovano a zero euro senza ammortizzatori. Una situazione che si prospetta esplosiva dal punto di vista sociale, con deficit, spesa pubblica, debito pubblico in aumento...».
Berlusconi le replicherà che lei fa del pessimismo ai limiti del disfattismo. «Non è pessimismo; è realismo. Inutile pensare di risolvere il problema nascondendolo. A fronte di una crisi gravissima, c’è un presidente del Consiglio profondamente indebolito sia rispetto alla sua credibilità nel Paese, sia rispetto alla sua forza nella coalizione. Quando cominciano i processi di indebolimento, non si fermano più. E noi dobbiamo ragionare affinché ciò che abbiamo raggiunto nella stabilizzazione dell’assetto politico del paese non finisca con Berlusconi».
Quale può essere lo scenario, se al congresso e alle primarie le sue idee non prevarranno? «Tutto potrebbe tornare a essere elastico e possibile, con alleanze non dichiarate agli elettori che le scelgono ma frutto di accordi parlamentari, cui potranno essere dati nomi nobili — governo di convergenza, grande coalizione — ma che di fatto smontano una conquista. Perché bipolarismo e alternanza non sono garantiti, come qualcuno pensa, da una legge elettorale, per quanta influenza abbia. Il bipolarismo sopravvive a qualsiasi legge se ci sono due grandi partiti alternativi. Se invece — consapevolmente o inconsapevolmente— scomponi questi grandi partiti e torni a un sistema centro-sinistra e centro-destra, con il famoso trattino, tutto torna in movimento; non ci sono più due grandi partiti avversari, ma prevale il vecchio schema con la sinistra da una parte e il centro del centrosinistra dall’altra».
Sta dicendo che teme per l’integrità e la tenuta del partito? «Tenuta in quanto contenitore no. Penso però che il Pd, per essere se stesso, debba coltivare le proprie diversità, viverle come una ricchezza e non come un limite. Per questo credo non debba esserci in nessun modo una parte che prevale sull’altra. L’arcipelago di posizioni che sostengono la mia ricandidatura, laici e cattolici, persone che provengono da storie diverse, aree più moderate e aree più a sinistra, è la garanzia che il Pd continui a essere un grande partito».
Bersani rivendica di poter parlare di partito di sinistra. «Io sarei cauto nell’uso delle parole. Sinistra è una parola e una storia nobilissima, cui io sono anche legato. Da ragazzo ero nella sinistra Dc con Zaccagnini, e ricordo convegni in cui si discuteva se considerarci sinistra della Dc o sinistra nella Dc. Conosco la forza, l’orgoglio della parola sinistra. Ma so pure che c’è una parte degli elettori e dei gruppi dirigenti del Pd che non si riconosce solo in quella parola. O il partito resta la casa di tutti, liberal, cattolici, laici, ambientalisti, oppure diventa un’altra cosa».
Anche Bersani ha con sé cattolici come Letta e Bindi. «Ma non c’è dubbio che nello schieramento che lo sostiene ci sia un’identità organizzativamente e politicamente prevalente. Proviamo a rovesciare il ragionamento: se per assurdo un’identità di centro esercitasse una egemonia sulle altre, chi si sente di sinistra rimarrebbe volentieri?».
Una scissione? «Non necessariamente. Se si lascia aperto uno spazio, il vuoto sarà riempito. Io non escludo una futura alleanza con l’Udc. Ma voglio un Partito democratico che non rinuncia a competere direttamente con il Pdl, che non ha bisogno di appaltare a qualcuno la funzione di parlare con i mondi produttivi, di conquistare il voto mobile. Voglio un Pd che rappresenti l’elettorato di sinistra ma competa al centro. L’esito del nostro congresso peserà sull’intera politica italiana: se consolidiamo il Pd, reggerà anche il Pdl dopo Berlusconi; se il Pd si scomponesse, anche il Pdl scomparirebbe e tutto ricomincerebbe da capo».
Aldo Cazzullo
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