Il grande proletario si è mosso. L’anima genetica del Pci ha armato il suo Dna e ha spedito per il corpaccio del pallido Partito democratico il suo Rna replicante, l’elemento che permette di riprodurre l’impronta genetica, l’identità, l’anima segreta che non è mai morta. Certo, dirà qualcuno, è troppo presto per dirlo, ma a noi sembra invece che sia già l’ora: Bersani, Dna emiliano da manuale, stempiatura alla Maurizio Ferrini («non capisco ma mi adeguo»), la fronte altissima, la parlata calma e razionale (ma chiodata e bullonata), la continuità imperterrita negli occhi pacati e quasi fissi, la competenza ingegneresca della politica fino alla sua banalizzazione, lontano dai russi e vicino alla tradizione cooperativa, assicurativa, ha ormai vinto. Dietro di lui, come ognun sa, s’erge l’ombra del commensale di pietra Massimo D’Alema, ferrigno e ingrigito, mente impassibile e sprezzante, privo di apparente mobilità emotiva, ingegneresco anche lui ma, a differenza di Bersani, capace di sarcasmi micidiali, l’understatement romano gelido come le sue grisaglie di eccellente forbice, la stessa che regola i suoi baffi brizzolati al punto giusto. D’Alema è il regista, e Bersani il film. Da che si vede? Dal fatto che quattro più quattro, se non sono cambiate le regole a causa del caldo, dovrebbe pur sempre fare otto, nel senso che basta mettere insieme le tessere del puzzle e il mosaico parla da solo. Prima tessera: ieri Uòlter ha dato una paginata di intervista al Corrierone in cui ha detto in pratica che lui se ne va, forse in un paradiso tropicale, forse in Africa, forse in un convento, forse sulla Luna, ma insomma stacca, si toglie di mezzo, getta la spugna. Secondo elemento: i uòlteriani di Roma se ne sono andati con Bersani. Direte voi: e Franceschini? Risposta: Franceschini chi? Quel bravo figlio un po’ isterico di mamma diccì che ha cercato di far credere a se stesso di essere un leader popolare? Suvvia. Parolaio, nervosetto, consapevole che la sua è una mission impossibile, appena un centimetro o due oltre il bordo del ridicolo. I comunisti lo abbandonano e d’altra parte i comunisti si dividono in due: i comunisti americani di Uòlter e quelli dalemiani di D’Alema. I primi, abbiamo visto, stanno preparando per il loro leader di riferimento la valigia con zanzariera, acchiappafarfalle, pomata contro i morsi dei coccodrilli, e poi via verso l’ignoto. I secondi, i dalemiani, zitti zitti piano piano, hanno lavorato per riportare alla luce il Dna disperso, occultato, e lo hanno restaurato come nuovo. Che c’entra Franceschini con quel Dna? Un fico secco, essendo anche lui seccagno e segaligno, con le physique tutt’al più del secchione liceale. Dunque i uòlteriani mollano il Franceschino e così fanno – terzo elemento – i governatùr del Pd che riuniti in conclave via internet, chi con Skype e chi con Facebook, si sono mandati l’sms finale: turnùma inderèra, che tradotto dalla lingua dei Savoia e di Badoglio significa torniamo alle origini, fine dell’esperimento, perché finché si scherza, si scherza, ma noi siamo il Partito. Altro elemento, complementare all’ultimo: il lungo Piero, inteso come Fassino l’archibugio, viene riarrotolato intorno al suo rocchetto e chiuso in cantina per quando si farà un museo delle cere. La prova sta nel fatto che poiché Fassino seguita a non capire e a dirsi franceschiniano, quando lui si presenta alle feste dell’Unità che adesso si chiamano “Democratic Party” (che invenzione! Quanta America da mercato delle pulci, quanto provincialismo, quante memorie di antiche borse di studio per Harvard e Mit) non lo fanno entrare: i buttafuori del partito lo accompagnano alla porta. Non lo riconoscono, non risulta sul tesserario, non è per cattiveria, ma il partito riconosce soltanto se stesso, la sua stessa continuità interna comunista e non tollera quinte colonne, neanche alte e sottili come l’ex segretario piemontese, il quale si è sentito dire in pratica: lei non esiste. La botta di Beppe Grillo in un certo senso ha mostrato in anticipo le carte: la repulsione genetica nei confronti del comico predicatore è stata di rigetto violento, troppo violento, sdegnato, offeso, da coltello alla gola. E che diamine, un po’ di cortesia e tolleranza. E invece no: è l’ora della normalizzazione, è l’ora del fare quadrato, fare squadra, dichiarare chiuso l’esperimento, e anche le buffe primarie precotte che sono funzionali soltanto a patto che dicano esattamente ciò che era stato stabilito prima. Non vorrei che il popolo le prendesse sul serio. Non vorremmo che questi qui pensassero di poter tirare la giacchetta del partito come se fosse quella di Arlecchino, fatta di tanti pezzi cuciti insieme in cui l’uno vale l’altro. Il Partito si ricostituisce davanti allo specchio. Non ha mai avuto la sua Bad Godesberg prima, e non l’avrà neanche dopo. Chiacchiere tante, fumo negli occhi, illusioni, sperimentalismi, ma si è visto com’è finita: un minestrone senza senso, senza forma, senza sapore che viene rifiutato da quell’elettorato che una volta votava Pci, felice di votare Pci, perché era il Pci e non un’altra cosa fatta di frammenti di vetro, ossi di oliva, capelli sporchi e grumi di caffettiera. Ci torna in mente il bellissimo numero che fece Dario Fo tanti anni fa nel «Mistero Buffo» quando interpretò papa Bonifazio indignato perché “el Jesus” in persona era venuto a impartirgli lezioni di umiltà, povertà e sottomissione: Bonifazio a un certo punto si stufa, manda a ramengo el Jesus e si veste da Papa con tutte le orgogliose insegne del potere: cappellùn, pastoràl, oro, brillantùn, voce tonante e canto gregoriano nelle labbra come un grido di guerra. Forse “el Jesùs” è stato il democristo Franceschini e la ricreazione è finita: è l’ora del cappellùn, delle insegne della continuità, della storicità, del partitùn, del “torneremo come eravamo”, e basta con gli ibridi, e basta con i pastrocchi, basta con i meticciati. Basta con la democrazia di base, con l’anabattismo politico. Avanti con Bersani: solido, comunista, spazioso, dall’eloquio buono anche per l’Unipol, realista, niente sogni, niente di niente. Avanti verso l’indietro, avanti verso il ritorno, modernizzati sì, ma identici. Il laboratorio è chiuso, il teatro anche, i costumi di scena tornano nel magazzino degli stracci. Per Franceschini è stato comperato un biglietto ferroviario di ritorno di seconda classe, meta a scelta. Non l’Africa, perché lì c’è Uòlter che si è già scritto sul telefonino “hic sunt leones”. D’Alema, bianco grigio e gelido come una granita di caffè con panna, siede in cabina di regia.
domenica 19 luglio 2009
Tutto cambia, niente cambia
Bersani ha già stravinto. Così tornerà al vecchio Pci
Il grande proletario si è mosso. L’anima genetica del Pci ha armato il suo Dna e ha spedito per il corpaccio del pallido Partito democratico il suo Rna replicante, l’elemento che permette di riprodurre l’impronta genetica, l’identità, l’anima segreta che non è mai morta. Certo, dirà qualcuno, è troppo presto per dirlo, ma a noi sembra invece che sia già l’ora: Bersani, Dna emiliano da manuale, stempiatura alla Maurizio Ferrini («non capisco ma mi adeguo»), la fronte altissima, la parlata calma e razionale (ma chiodata e bullonata), la continuità imperterrita negli occhi pacati e quasi fissi, la competenza ingegneresca della politica fino alla sua banalizzazione, lontano dai russi e vicino alla tradizione cooperativa, assicurativa, ha ormai vinto. Dietro di lui, come ognun sa, s’erge l’ombra del commensale di pietra Massimo D’Alema, ferrigno e ingrigito, mente impassibile e sprezzante, privo di apparente mobilità emotiva, ingegneresco anche lui ma, a differenza di Bersani, capace di sarcasmi micidiali, l’understatement romano gelido come le sue grisaglie di eccellente forbice, la stessa che regola i suoi baffi brizzolati al punto giusto. D’Alema è il regista, e Bersani il film. Da che si vede? Dal fatto che quattro più quattro, se non sono cambiate le regole a causa del caldo, dovrebbe pur sempre fare otto, nel senso che basta mettere insieme le tessere del puzzle e il mosaico parla da solo. Prima tessera: ieri Uòlter ha dato una paginata di intervista al Corrierone in cui ha detto in pratica che lui se ne va, forse in un paradiso tropicale, forse in Africa, forse in un convento, forse sulla Luna, ma insomma stacca, si toglie di mezzo, getta la spugna. Secondo elemento: i uòlteriani di Roma se ne sono andati con Bersani. Direte voi: e Franceschini? Risposta: Franceschini chi? Quel bravo figlio un po’ isterico di mamma diccì che ha cercato di far credere a se stesso di essere un leader popolare? Suvvia. Parolaio, nervosetto, consapevole che la sua è una mission impossibile, appena un centimetro o due oltre il bordo del ridicolo. I comunisti lo abbandonano e d’altra parte i comunisti si dividono in due: i comunisti americani di Uòlter e quelli dalemiani di D’Alema. I primi, abbiamo visto, stanno preparando per il loro leader di riferimento la valigia con zanzariera, acchiappafarfalle, pomata contro i morsi dei coccodrilli, e poi via verso l’ignoto. I secondi, i dalemiani, zitti zitti piano piano, hanno lavorato per riportare alla luce il Dna disperso, occultato, e lo hanno restaurato come nuovo. Che c’entra Franceschini con quel Dna? Un fico secco, essendo anche lui seccagno e segaligno, con le physique tutt’al più del secchione liceale. Dunque i uòlteriani mollano il Franceschino e così fanno – terzo elemento – i governatùr del Pd che riuniti in conclave via internet, chi con Skype e chi con Facebook, si sono mandati l’sms finale: turnùma inderèra, che tradotto dalla lingua dei Savoia e di Badoglio significa torniamo alle origini, fine dell’esperimento, perché finché si scherza, si scherza, ma noi siamo il Partito. Altro elemento, complementare all’ultimo: il lungo Piero, inteso come Fassino l’archibugio, viene riarrotolato intorno al suo rocchetto e chiuso in cantina per quando si farà un museo delle cere. La prova sta nel fatto che poiché Fassino seguita a non capire e a dirsi franceschiniano, quando lui si presenta alle feste dell’Unità che adesso si chiamano “Democratic Party” (che invenzione! Quanta America da mercato delle pulci, quanto provincialismo, quante memorie di antiche borse di studio per Harvard e Mit) non lo fanno entrare: i buttafuori del partito lo accompagnano alla porta. Non lo riconoscono, non risulta sul tesserario, non è per cattiveria, ma il partito riconosce soltanto se stesso, la sua stessa continuità interna comunista e non tollera quinte colonne, neanche alte e sottili come l’ex segretario piemontese, il quale si è sentito dire in pratica: lei non esiste. La botta di Beppe Grillo in un certo senso ha mostrato in anticipo le carte: la repulsione genetica nei confronti del comico predicatore è stata di rigetto violento, troppo violento, sdegnato, offeso, da coltello alla gola. E che diamine, un po’ di cortesia e tolleranza. E invece no: è l’ora della normalizzazione, è l’ora del fare quadrato, fare squadra, dichiarare chiuso l’esperimento, e anche le buffe primarie precotte che sono funzionali soltanto a patto che dicano esattamente ciò che era stato stabilito prima. Non vorrei che il popolo le prendesse sul serio. Non vorremmo che questi qui pensassero di poter tirare la giacchetta del partito come se fosse quella di Arlecchino, fatta di tanti pezzi cuciti insieme in cui l’uno vale l’altro. Il Partito si ricostituisce davanti allo specchio. Non ha mai avuto la sua Bad Godesberg prima, e non l’avrà neanche dopo. Chiacchiere tante, fumo negli occhi, illusioni, sperimentalismi, ma si è visto com’è finita: un minestrone senza senso, senza forma, senza sapore che viene rifiutato da quell’elettorato che una volta votava Pci, felice di votare Pci, perché era il Pci e non un’altra cosa fatta di frammenti di vetro, ossi di oliva, capelli sporchi e grumi di caffettiera. Ci torna in mente il bellissimo numero che fece Dario Fo tanti anni fa nel «Mistero Buffo» quando interpretò papa Bonifazio indignato perché “el Jesus” in persona era venuto a impartirgli lezioni di umiltà, povertà e sottomissione: Bonifazio a un certo punto si stufa, manda a ramengo el Jesus e si veste da Papa con tutte le orgogliose insegne del potere: cappellùn, pastoràl, oro, brillantùn, voce tonante e canto gregoriano nelle labbra come un grido di guerra. Forse “el Jesùs” è stato il democristo Franceschini e la ricreazione è finita: è l’ora del cappellùn, delle insegne della continuità, della storicità, del partitùn, del “torneremo come eravamo”, e basta con gli ibridi, e basta con i pastrocchi, basta con i meticciati. Basta con la democrazia di base, con l’anabattismo politico. Avanti con Bersani: solido, comunista, spazioso, dall’eloquio buono anche per l’Unipol, realista, niente sogni, niente di niente. Avanti verso l’indietro, avanti verso il ritorno, modernizzati sì, ma identici. Il laboratorio è chiuso, il teatro anche, i costumi di scena tornano nel magazzino degli stracci. Per Franceschini è stato comperato un biglietto ferroviario di ritorno di seconda classe, meta a scelta. Non l’Africa, perché lì c’è Uòlter che si è già scritto sul telefonino “hic sunt leones”. D’Alema, bianco grigio e gelido come una granita di caffè con panna, siede in cabina di regia.
Il grande proletario si è mosso. L’anima genetica del Pci ha armato il suo Dna e ha spedito per il corpaccio del pallido Partito democratico il suo Rna replicante, l’elemento che permette di riprodurre l’impronta genetica, l’identità, l’anima segreta che non è mai morta. Certo, dirà qualcuno, è troppo presto per dirlo, ma a noi sembra invece che sia già l’ora: Bersani, Dna emiliano da manuale, stempiatura alla Maurizio Ferrini («non capisco ma mi adeguo»), la fronte altissima, la parlata calma e razionale (ma chiodata e bullonata), la continuità imperterrita negli occhi pacati e quasi fissi, la competenza ingegneresca della politica fino alla sua banalizzazione, lontano dai russi e vicino alla tradizione cooperativa, assicurativa, ha ormai vinto. Dietro di lui, come ognun sa, s’erge l’ombra del commensale di pietra Massimo D’Alema, ferrigno e ingrigito, mente impassibile e sprezzante, privo di apparente mobilità emotiva, ingegneresco anche lui ma, a differenza di Bersani, capace di sarcasmi micidiali, l’understatement romano gelido come le sue grisaglie di eccellente forbice, la stessa che regola i suoi baffi brizzolati al punto giusto. D’Alema è il regista, e Bersani il film. Da che si vede? Dal fatto che quattro più quattro, se non sono cambiate le regole a causa del caldo, dovrebbe pur sempre fare otto, nel senso che basta mettere insieme le tessere del puzzle e il mosaico parla da solo. Prima tessera: ieri Uòlter ha dato una paginata di intervista al Corrierone in cui ha detto in pratica che lui se ne va, forse in un paradiso tropicale, forse in Africa, forse in un convento, forse sulla Luna, ma insomma stacca, si toglie di mezzo, getta la spugna. Secondo elemento: i uòlteriani di Roma se ne sono andati con Bersani. Direte voi: e Franceschini? Risposta: Franceschini chi? Quel bravo figlio un po’ isterico di mamma diccì che ha cercato di far credere a se stesso di essere un leader popolare? Suvvia. Parolaio, nervosetto, consapevole che la sua è una mission impossibile, appena un centimetro o due oltre il bordo del ridicolo. I comunisti lo abbandonano e d’altra parte i comunisti si dividono in due: i comunisti americani di Uòlter e quelli dalemiani di D’Alema. I primi, abbiamo visto, stanno preparando per il loro leader di riferimento la valigia con zanzariera, acchiappafarfalle, pomata contro i morsi dei coccodrilli, e poi via verso l’ignoto. I secondi, i dalemiani, zitti zitti piano piano, hanno lavorato per riportare alla luce il Dna disperso, occultato, e lo hanno restaurato come nuovo. Che c’entra Franceschini con quel Dna? Un fico secco, essendo anche lui seccagno e segaligno, con le physique tutt’al più del secchione liceale. Dunque i uòlteriani mollano il Franceschino e così fanno – terzo elemento – i governatùr del Pd che riuniti in conclave via internet, chi con Skype e chi con Facebook, si sono mandati l’sms finale: turnùma inderèra, che tradotto dalla lingua dei Savoia e di Badoglio significa torniamo alle origini, fine dell’esperimento, perché finché si scherza, si scherza, ma noi siamo il Partito. Altro elemento, complementare all’ultimo: il lungo Piero, inteso come Fassino l’archibugio, viene riarrotolato intorno al suo rocchetto e chiuso in cantina per quando si farà un museo delle cere. La prova sta nel fatto che poiché Fassino seguita a non capire e a dirsi franceschiniano, quando lui si presenta alle feste dell’Unità che adesso si chiamano “Democratic Party” (che invenzione! Quanta America da mercato delle pulci, quanto provincialismo, quante memorie di antiche borse di studio per Harvard e Mit) non lo fanno entrare: i buttafuori del partito lo accompagnano alla porta. Non lo riconoscono, non risulta sul tesserario, non è per cattiveria, ma il partito riconosce soltanto se stesso, la sua stessa continuità interna comunista e non tollera quinte colonne, neanche alte e sottili come l’ex segretario piemontese, il quale si è sentito dire in pratica: lei non esiste. La botta di Beppe Grillo in un certo senso ha mostrato in anticipo le carte: la repulsione genetica nei confronti del comico predicatore è stata di rigetto violento, troppo violento, sdegnato, offeso, da coltello alla gola. E che diamine, un po’ di cortesia e tolleranza. E invece no: è l’ora della normalizzazione, è l’ora del fare quadrato, fare squadra, dichiarare chiuso l’esperimento, e anche le buffe primarie precotte che sono funzionali soltanto a patto che dicano esattamente ciò che era stato stabilito prima. Non vorrei che il popolo le prendesse sul serio. Non vorremmo che questi qui pensassero di poter tirare la giacchetta del partito come se fosse quella di Arlecchino, fatta di tanti pezzi cuciti insieme in cui l’uno vale l’altro. Il Partito si ricostituisce davanti allo specchio. Non ha mai avuto la sua Bad Godesberg prima, e non l’avrà neanche dopo. Chiacchiere tante, fumo negli occhi, illusioni, sperimentalismi, ma si è visto com’è finita: un minestrone senza senso, senza forma, senza sapore che viene rifiutato da quell’elettorato che una volta votava Pci, felice di votare Pci, perché era il Pci e non un’altra cosa fatta di frammenti di vetro, ossi di oliva, capelli sporchi e grumi di caffettiera. Ci torna in mente il bellissimo numero che fece Dario Fo tanti anni fa nel «Mistero Buffo» quando interpretò papa Bonifazio indignato perché “el Jesus” in persona era venuto a impartirgli lezioni di umiltà, povertà e sottomissione: Bonifazio a un certo punto si stufa, manda a ramengo el Jesus e si veste da Papa con tutte le orgogliose insegne del potere: cappellùn, pastoràl, oro, brillantùn, voce tonante e canto gregoriano nelle labbra come un grido di guerra. Forse “el Jesùs” è stato il democristo Franceschini e la ricreazione è finita: è l’ora del cappellùn, delle insegne della continuità, della storicità, del partitùn, del “torneremo come eravamo”, e basta con gli ibridi, e basta con i pastrocchi, basta con i meticciati. Basta con la democrazia di base, con l’anabattismo politico. Avanti con Bersani: solido, comunista, spazioso, dall’eloquio buono anche per l’Unipol, realista, niente sogni, niente di niente. Avanti verso l’indietro, avanti verso il ritorno, modernizzati sì, ma identici. Il laboratorio è chiuso, il teatro anche, i costumi di scena tornano nel magazzino degli stracci. Per Franceschini è stato comperato un biglietto ferroviario di ritorno di seconda classe, meta a scelta. Non l’Africa, perché lì c’è Uòlter che si è già scritto sul telefonino “hic sunt leones”. D’Alema, bianco grigio e gelido come una granita di caffè con panna, siede in cabina di regia.
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