ROMA — Il «nuovo» che ossessiona il Pd fatica a emergere. È un’operazione difficile in un partito che, come ricorda il deputato friulano Alessandro Maran «ha lo stesso gruppo dirigente dei tempi di Bush padre». O che, come suggerisce scherzosamente Gianni Cuperlo, è ridotto a un punto tale per cui dovrebbe adottare il triste inno polacco («La Polonia non è ancora morta», recita l’inizio). Massimo D’Alema non ci prova nemmeno a cavare il «nuovo» dal Pd. Non è nel suo stile. E pragmaticamente dice: «Speriamo che Bersani rimetta in sesto questo partito, poi vedremo. L’importante è non andare avanti così: noi ci dividiamo, siamo inchiodati per mesi su una discussione congressuale, e rischiamo di non fare più l’opposizione». Walter Veltroni, invece, il «nuovo» ha cercato di farlo emergere durante la sua segreteria. E continua a provarci. Tant’è vero che per rinnovare l’immagine di Dario Franceschini e far dimenticare che già nel 1999 era il candidato di Franco Marini alla guida del Ppi ha tirato fuori dal cilindro Debora Serracchiani, segretaria di sezione del Pd in quel di Udine. Ma anche la Serracchiani, come racconta un ex diessino, «assomiglia ormai al D’Alema versione supponente». E a dimostrazione del fatto che anche l’eurodeputata, suo malgrado, ha assimilato comportamenti e modi della classe dirigente del Pd nel partito si cita l’episodio avvenuto ieri sera. Veltroni ha appena finito di parlare al Capranica quando la Serracchiani incrocia la deputata Paola Concia, rea di averla criticata per certe sue affermazioni. L’europarlamentare la squadra dal basso in alto e poi gelida le dice: «La prossima volta, quando non capisci le cose, telefonami». Alla ricerca del nuovo, ancora una volta, nella sala del Capranica dove Veltroni ha fatto il suo semi-rientro in politica e dove siede in prima fila Raffaele Bonanni, il segretario della Cisl che insieme a tanti altri ex dc sostiene Franceschini (Guglielmo Epifani, invece, non c’è). Sul palco, insieme ad altri, siede Sergio Chiamparino. Il sindaco di Torino non è certamente giovane, ma poteva rappresentare il «nuovo» rispetto ai (tre) soliti noti del Pd: Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino. Però si è arreso. Lunedì scorso, alle undici di sera, annunciava ai colleghi che lo sostenevano che sarebbe sceso in campo, nonostante le ire di Fassino («Piero deve capire che non lo posso seguire»). L’indomani mattina, dopo un lungo colloquio telefonico con Veltroni cambiava all’improvviso idea. Ora è sul palco, con l’ex segretario, però non fa dichiarazione di voto per Franceschini. Altro giro, altro Pd. Ignazio Marino è pronto a candidarsi. Salvo sorprese dell’ultim’ora domani, alla festa del Partito Democratico, il senatore-chirurgo annuncerà la sua candidatura, grandemente sponsorizzata da Goffredo Bettini. Marino spiega agli amici di essere «lusingato e confuso» e aggiunge: «Certo l’Italia e anche il Pd hanno una disperata necessità di modernizzazione. Dopo i miei 18 anni negli Usa non mi aspettavo una nazione ancora così disastrata». Insomma, gli incitamenti di tanti sono serviti: il senatore-chirurgo sembra essersi deciso. Oggi, a Verona, nell’ospedale dove opera una volta la settimana, incontrerà alcuni quarantenni del Pd tra cui una parte dei cosiddetti 'piombini' guidati da Paola Concia. Dice di lui Bettini: «Se alla fine decide di scendere in campo la sua sarà finalmente una candidatura innovativa, ma sul serio, non come altre che sono state inventate da qualche mese». Il nome di Debora Serracchiani Bettini non lo fa, perché non è nel suo stile far polemiche senza motivo, ma ogni riferimento appare puramente voluto. Comunque tra i non iscritti il senatore-chirurgo suscita non pochi entusiasmi. A dire il vero ne suscita anche tra quei dirigenti del Pd che lo seguono. Soprattutto da quando (l’ultima volta è stata l’altro ieri) non si è mosso di un millimetro di fronte a un D’Alema irritato che metteva in mezzo amicizia e politica (se ti candidi diventerai un avversario, era il ritornello dell’ex ministro degli Esteri).
Maria Teresa Meli
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