BRUXELLES — Da lontano, al telefono, si sente un bambino piccolo che piange, o strilla per gioco, da qualche parte nella stanza alle spalle di Kadidja Lalembaidje: «È Maxime, il mio nipotino, il figlioletto di Claudia. Ha 8 mesi. Otto mesi, capito? Mia figlia avrebbe voluto crescerlo secondo i suoi valori: considerare sempre gli altri degli essere umani come noi, cercare di comprendere le loro ragioni. Ma è capitata con quello là, il talebano, l'ha sposato, gli ha dato un figlio. Lui la picchiava, ha cercato 3 volte di strangolarla perché non voleva che uscisse, che si vestisse normalmente. Le diceva: attenta, le donne devono essere sottomesse all'uomo. Citava sempre il Corano. E quando lei ha chiesto il divorzio, lui le ha risposto: ricordalo, in Pakistan il matrimonio è per la vita o per la morte. Così è stato, l'ha uccisa. Lui e i suoi due fratelli, in tre l'hanno uccisa. Come già avevano ucciso la moglie di un quarto fratello in Pakistan, buttandola nel fiume. Anche lei nel fiume, come mia figlia. E proprio per quello erano poi fuggiti in Europa. Ma che ne sapevamo, noi?». Alla fine, il pianto soffoca la voce: «Ora ci hanno detto che quel quarto fratello si è suicidato. Ecco che famiglia aveva incontrato Claudia, ecco che destino ha avuto». Claudia era scomparsa il 14 giugno, la sua foto era finita sul sito del Chi l'ha visto? belga. L'altro ieri, nel fiume Escaut che va dalla Francia al Belgio, trovano una valigia chiusa: dentro, un corpo seminudo, mani e piedi legati, il viso sfigurato. È lei, c'è il tremendo sospetto di uno stupro per sfregio. Il marito ora è in cella, come il secondo fratello. Il terzo è in fuga. Questa è una storia che non giunge da un remoto villaggio, ma da Bruxelles, capitale d'Europa. Dal quartiere di Schaerbeek, abitato da una vasta e pacifica comunità di immigrati. Come Claudia Lalembaidje, 32 anni, vissuta fino ai 15 nel nativo Ciad, poi emigrata con la madre e le sorelle (il padre, colpito dalle sofferenze della guerra, vive ancora nel Ciad). Dopo aver fatto studi teatrali e aver preso un diploma da infermiera, Claudia aveva lavorato alla Croce Rossa. «Ora, diventata madre, aveva un sogno: aprire un asilo per bambini. Ecco, questo era lei, una persona luminosa»: parla Daniele Cardella, funzionario italiano del Parlamento europeo ed ex-fidanzato della giovane, con la quale ha convissuto per 3 anni e mezzo. «Prima Claudia aveva aiutato a crescere i figli piccoli delle sorelle, e poi aveva pensato a sé. Noi ci eravamo lasciati, come capita, ma eravamo rimasti amici, e sua mamma si confidava spesso con la mia. Così abbiamo saputo di quel pachistano. Per esempio, di quando nacque Maxime e lui annunciò: a 5 anni dovrà avere in pugno il Corano». «Quel pachistano» è Alì, alias Hammad Raza Syed, immigrato clandestino in Belgio con i fratelli. Voci di quartiere: nomi falsi, traffici di passaporti, forse qualcosa di più. Lui sposa Claudia nel luglio 2008: ma subito si scopre che, più che alla moglie, è interessato al permesso di soggiorno, da ottenere attraverso le nozze. Non è però tanto facile, e poi Claudia continua a lavorare, non rinuncia alla sua personalità. Così ecco le botte, e il resto: «La vedevamo sempre più sciupata e preoccupata», racconta ancora Daniele. Finché, una sera, Claudia annuncia al marito che ha chiesto il divorzio («È scandalo», urla Hammad) e che avrà lei la custodia del bambino. Poco dopo, alla porta di casa compaiono i due cognati: «Perché in Pakistan ci si sposa per la vita o per la morte».
Luigi Offeddu
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