sabato 30 maggio 2009

Arabia Saudita e schiavismi islamici

Arabia Saudita: la polizia religiosa colpisce ancora di Andrea Manganelli

Immaginate di essere donna. Immaginate di essere nata negli Stati Uniti, a Salt Lake City, da genitori giordani e di aver interiorizzato la buona vecchia American Way of Life. Avete trentasette anni, e lavorate nel mondo degli affari anche se vivete da otto anni in un paese come l'Arabia Saudita, a Jeddah, con vostro marito, anche lui un importante imprenditore. Bene. Un giorno, per ragioni squisitamente professionali, vi trovate a Riyad, nella sede della vostra società, quando, nel bel mezzo di un lavoro importante, ecco che va via la luce. Succede, d'accordo, ma c'è il problema che il computer e internet, pur essendo una gran cosa, hanno la censurabile abitudine di non funzionare senza corrente elettrica. Il lavoro che dovete portare a termine è molto urgente, i capi si sa come sono fatti e quando chiedono una cosa c'è ben poco da questionare su black out o invasioni di cavallette. Che fare allora? Fortuna che poco distante dall'ufficio c'è uno Starbuck's, il MacDonald's della caffetteria a stelle e strisce, quello che è riuscito a portare mirabilie come il cappuccino in walky cup da un litro e mezzo nei più remoti angoli del pianeta. E così anche a Riyad, dove, meraviglie della globalizzazione e della tecnologia wireless, esso offre pure la possibilità di connettersi a Internet. Quale occasione migliore per finire il lavoro in tempo sorseggiando con i colleghi un sontuoso caffè lungo? Passiamo alla terza persona, visto che in quel che segue potrebbe non essere gradevole immedesimarsi. La nostra amica Yara (chiamiamola così, con un nome fittizio), fa dunque il suo ingresso a Starbuck's. L'accompagnano alcuni colleghi, tutti uomini. Decidono di sedersi in un séparé, nella cosiddetta "family area" del locale, l'unico spazio nel quale (siamo in Arabia Saudita, non dimentichiamolo, dove la religione di stato è il wahhabismo, la variante più intransigente ed estremista dell'islam) è consentita la mescolanza tra uomini e donne. Per Yara si tratta semplicemente d'una questione di comodità, e non riflette sufficientemente a lungo sul fatto che da quelle parti (le caffetterie, fino a prova contraria, non sono zona franca) il contatto pubblico tra uomini e donne che non siano imparentati è rigorosamente vietato. A un certo punto Yara alza lo sguardo e si trova davanti due uomini vestiti di bianco dal fiero cipiglio e dalle barbe fluenti che, presumibilmente saltando i convenevoli, le chiedono: "Cosa ci fate qui tutti insieme?". Lei - beata ingenuità - prova a spiegare la faccenda del black out, ma i due, con le facce sempre più irritate, la informano senza giri di parole che sta commettendo un peccato gravissimo. Gli irsuti individui in questione, per chi non lo sapesse, fanno parte della famigerata Mutawwa'in, la polizia religiosa del Dipartimento per la Prevenzione del Vizio e la Promozione della Virtù, preposta, tra le altre cose, al controllo dei luoghi pubblici, alla sorveglianza degli spazi religiosi e degli orari della preghiera, alla protezione dei valori islamici e della società da "eventuali derive". La Mutawwa'in, inoltre, "veglia sugli usi e i costumi, reprime i contravventori", controlla che siano "rispettati i segni esteriori" (il velo per le donne, il taglio della barba e il tipo di abiti per gli uomini). Al fine di portare a compimento tale nobile missione, la Mutawwa'in suole avvalersi fin troppo spesso di misure non esattamente ortodosse quali arresti arbitrari, pestaggi, persecuzioni, torture e soprusi assortiti. Il fatto che nei locali di Starbuck's Yara indossasse l'abaya (tipico indumento utilizzato dalle donne musulmane molto diffuso in Arabia Saudita) e tenesse il capo coperto non sembra aver minimamente impressionato gli zelanti custodi delle costumanze islamiche. I quali, dopo averle sequestrato il telefono cellulare, l'hanno trasferita nella prigione di Malaz. Lì Yara è stata interrogata, fatta spogliare, perquisita a fondo e costretta a firmare, con tanto di apposizione delle impronte digitali, una serie di confessioni nelle quali si dichiarava colpevole dell'orrendo crimine contestatole. "Mi hanno portata in una stanza da bagno lurida, con il pavimento pieno d'acqua e di sporcizia, mi hanno costretta togliermi i vestiti, li hanno gettati in mezzo a quella melma e me li hanno fatti indossare di nuovo", racconta Yara al Times. Poi l'hanno portata davanti al giudice e le hanno detto: "Sei una peccatrice e brucerai all'inferno". Yara capisce che le cose rischiano di mettersi male e, con atteggiamento di sottomissione, risponde di sentirsi profondamente contrita. "Mi ero arresa, avevo perso la speranza", spiega. Per sua fortuna, e grazie ai numerosi contatti politici del marito, Yara se l'è cavata con poco ed è uscita a riveder le stelle dopo poche ore. Ma lì dentro ha incontrato altre donne, persone che probabilmente si trovavano dietro le sbarre per 'crimini orrendi' quanto il suo. E che forse si trovano ancora lì. Giova a questo punto - pur se non consola fino in fondo - ricordare che, alla fine, i solerti difensori della morale islamica che volevano lavare l'onta della peccatrice non sono riusciti nell'intento. Nonostante la brutta avventura, infatti, Yara si è detta tutt'altro che disposta a cedere e anzi ha sottolineato con energia la propria intenzione di restare in Arabia Saudita. Nonostante tutto. "Se voglio fare la differenza - ha affermato - è qua che devo rimanere. Se andassi via avrebbero vinto loro. Non posso arrendermi agli atti terroristici di questa gente".

In Arabia Saudita hanno paura di giornaliste, annunciatrici e ballerine.

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