lunedì 18 maggio 2009

L'onu a senso unico

L'Italia non punisce gli immigrati, basta guardare ad altri Paesi di Maurizio Stefanini

Quando si parla di leggi sull’immigrazione, in Italia è abbastanza facile scadere nell’isterismo: da una parte, con le grida all’invasione dei barbari; come dall’altra, col richiamo continuo allo spettro delle leggi razziali. Sul fondo, c’è il problema di un Paese che essendo stato per molto tempo di emigrazione e non di immigrazione, aveva leggi sulla cittadinanza e la residenza che erano fatte per facilitare i rientri dei nostri connazionali e il flusso delle loro rimesse; non per affrontare il problema dei nuovi residenti e dei nuovi cittadini. Può essere dunque interessante confrontare certi dati del Ddl sulla sicurezza con certe normative che sono in vigore all’estero. Uno degli aspetti più contestati, in particolare, è stato l’introduzione del reato di clandestinità: lo straniero che entra in Italia illegalmente commette un reato. Anche se si tratta di un reato sui generis, visto che non comporta la reclusione ma la semplice ammenda tra le 5.000 e le 10.000 euro e l’espulsione. E questo è in gran parte il modello pratico degli Stati Uniti, anche se non proprio quello teorico. La improper entry by alien, spega il codice, è l’offence che si verifica ogni volta che un cittadino di un Paese diverso dagli Usa entra o cerca di entrare “in ogni tempo o luogo diverso da quello designato dai funzionari preposti all’immigrazione” o “elude gli esami o ispezione dei funzionari preposti all’immigrazione” o “tenta di entrare o ottenere l’entrata negli Stati Uniti attraverso una rappresentazione consapevolmente falsa o fuorviante o l’occultamento consapevole di un fatto materiale”. Questa violazione della “legge civile e penale” può essere punita con multe o col carcere fino a sei mesi, e fino a due anni in caso di comportamenti reiterati. C’è pure un reato di reingresso illegale a parte, che punisce chi è sorpreso a tentare di entrare negli Usa dopo avervi commesso reati. E i magistrati preposti all’immigrazione possono aggiungere multe ulteriore che hanno carattere di sanzioni di diritto civile, ma non “cancellano” la natura penale dell’atto. Le proporzioni di stranieri “pizzicate” nell’atto di compiere questa offence sono molto alte: 955.310 nel 2002; 1.159.803 nel 2006. Eppure, meno del 4 per cento di questo milione e passa di persone finisce effettivamente sotto processo. A parte il rischio sovraffollamento delle carceri, c’è il particolare che ogni detenuto costerebbe comunque al governo federale 90 dollari al giorno. Dunque, alla gran massa degli arrestati si fa sapere che l’accusa verrà fatta cadere se firmano un modulo in cui acconsentono a essere volontariamente rimpatriati. E il 96% accetta. Insomma, la clandestinità come reato è semplicemente uno strumento di pressione per rendere i rimpatri più spediti. Pure nel Regno Unito in base alla legge del 1971 l’ingresso clandestino è un reato. Tuttavia di fatto l’immigrante illegale è colpito solo dalla deportation, cioè l’espulsione: sanzione amministrativa, verso la quale è però possibile formulare ricorso in tribunale, cercando in particolare di dimostrare di avere diritto all’asilo. Più duro è il trattamento che riceve chi al clandestino offre lavoro, con la multa o la reclusione fino a due anni. Ma è comunque la disciplina britannica nel suo complesso è più soft rispetto al trattamento del clandestino in Francia: altro Paese dove soggiornare irregolarmente sul territorio nazionale costituisce un reato. Punibile fino a un anno di prigione, 3750 Euro di multa e 3 anni di interdizione dal territorio. Il 6 per cento dei detenuti nelle carceri francesi è costituito infatti da stranieri condannati per il reato di immigrazione clandestina, contro il 23 per cento di stranieri condannati per altri reati e il 71 per cento di francesi. Per avere la proporzione: gli stranieri rappresentano il 6,5 per cento dei residenti. Paradossalmente la Germania, che pure contempla il reato di immigrazione clandestina, è meno “prussiana”: lì è reato sia l’entrata che il soggiorno clandestino, senza visto o passaporto valido. Ma la pena non oltrepassa un anno di reclusione, con possibilità di espulsione solo nei casi più gravi. Va tenuto conto però che la Germania ha una normativa sull’acquisto della cittadinanza molto più fiscale di quelle americana, britannica e francese. Né la Spagna né la Svizzera hanno invece il reato di immigrazione clandestina. In Spagna il tentativo di entrare illegalmente costituisce infrazione amministrativa, punibile con un’ammenda o con l’espulsione dal territorio nazionale. Questa avviene comunque su voli commerciali o charter in modo abbastanza muscolare: camice di forza; bavagli; perfino caschi per impedire tentativi di suicidio a testate (come in effetti è successo). In caso di espulsione, c’è anche il divieto a rientrare in Spagna per un periodo compreso tra i tre e i dieci anni. In Svizzera, come spiega la legge, “lo straniero sprovvisto di permesso può essere obbligato in ogni tempo e senza procedura speciale a lasciare la Svizzera o, dato il caso, essere sfrattato”. “Le autorità di polizia e gli organi di controllo al confine respingeranno, possibilmente al loro arrivo, gli stranieri che, per ragioni personali, non hanno evidentemente probabilità di ottenere un permesso qualsiasi”. Non c’è dunque una definizione formale di reato. In compenso, mentre nei sistemi federali statunitense e tedesco l’immigrazione è rigorosa riserva di legge federale, in quello svizzero c’è un diritto di espulsione che i singoli cantoni possono comminare anche per soggetti che si comportino in maniera “immorale”. Un altro punto contestato è quello delle ronde, che è effettivamente ambiguo. Da una parte, infatti, l’esperienza della Guardia Nazionale o della Guardia Civica in cui i cittadini danno una mano a mantenere l’ordine fu tra la Rivoluzione Americana, quella Francese e quelle del 1848 una tipica bandiera dei movimenti liberali e democratici, che in Europa è stato poi dimenticato. Anche in Italia, la Guardia Nazionale istituita nel 1861 fu poi sciolta nel 1876. Ma negli Usa il modello della National Guard sopravvive invece con successo. Dalla Milizia fascista alle Guardie Rosse, ai Pasdaran, ai Comitati per la Difesa della Rivoluzione Cubana, ai Battaglioni della Dignità di Noriega o alle milizie bolivariane di Chávez, però, i modelli del XX secolo sono stati più legati a minacce totalitarie e autoritarie, e francamente a giudizio di chi scrive le Camice Verdi leghiste sembrano più pencolare verso quel modello; anche se finora al di là delle sparate sono state più che altro innocuo folklore. È però vero che modelli di Guardia Nazionale o Civica a livello regionale si trovano anche in Italia. Un caso è quello degli Schützen altoatesini: che corrispondono a un modello presente anche in Baviera e in Austria; che risalgono addirittura al XVI secolo; ma che oggi hanno una funzione soprattutto folklorica e culturale, dal momento che i loro fucili sono pure caricati a salve. Un altro è quello delle Compagnie Barracellari: che risalgono a loro volta al XVI secolo; che sono state di recente riconosciute in Sardegna con legge regionale del 1988; e che hanno invece una vera e propria funzione di ordine pubblico, essendo anche armate di fucili veri. In realtà, è abbastanza evidente che il modello di chi ha proposto le Ronde non sono stati né i vari tipi di Guardia Nazionale, né gli Schützen e né i Barracellari, ma i Vigilantes Usa. Negli Stati Uniti, però, il diritto a portare armi è sancito dalla Costituzione. Non commettono dunque reato i “volontari” che pattugliano armati lungo il confine messicano, così come non lo commettevano le Pantere Nere che negli anni ’60 sfilavano armate nei ghetti per protesta contro il “Potere Bianco”. Contrariamente a quanto normalmente si pensa, però, la legge italiana non esclude affatto quell’istituto del Citizen’s Arrest tipico della Common Law, e che consente a chiunque di arrestare chi sta commettendo un reato, a patto di consegnarlo poi subito alla Giustizia. Anzi, la Corte Costituzionale ha chiarito espressamente che non c’è contraddizione tra quell’articolo 383 del Codice di Procedura Penale secondo cui “ogni persona è autorizzata a procedere all’arresto in flagranza” e quell’articolo 13 della Costituzione che autorizza la sola “autorità di pubblica sicurezza” ad adottare misure restrittive della libertà personale. Il privato, ha stabilito la Corte, quando agisce in presenza dei presupposti previsti dalla norma che gli consente l’arresto in flagranza acquisisce infatti anch’esso la veste di organo di polizia: sia pure in via straordinaria e temporanea. Dunque, in sé non è particolarmente eversivo il principio per segnalare alle forze di polizia o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana o situazioni di disagio sociale i sindaci previa intesa con il prefetto possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati, iscritte in un apposito elenco e con priorità per ex-militari e ex-poliziotti. Semmai il rischio è che sia inutile. Magari anche controproducente, se va a finire che invece di essere aiutate dalle ronde le forze dell’ordine si trovino a doverle scortare per proteggerle. Ma questa è un’altra storia. C’è poi il discorso del contributo di soggiorno per immigrati, e anche per accedere alla cittadinanza. Che in Italia non c’era. Ma negli Stati Uniti c’è addirittura una tassa di ingresso, che è richiesta a qualunque straniero entri in territorio Usa, a meno che non sia stato lo stesso governo Usa a invitarlo: come nel caso di diplomatici, o militari Nato, e studenti vincitori di Borse di Studio. Anche i turisti la pagano, ma in somma minima: 6 dollari, in genere inclusi nel biglietto aereo, per tutti coloro che entrano senza visto, sfruttando una possibilità concessa ai cittadini di una lista di Paesi, tra cui l’Italia, e che restino in territorio americano per non più di 90 giorni. Altrimenti, si passa a 131 dollari, che crescono a 355 per chi voglia emigrare in via definitiva, con però tutta una serie di ulteriori tariffe per casi particolari: la richiesta di adjustment of status, che permette di convertire uno status precedente, costa da sola 1010 dollari. La spesa si giustifica per il fatto che il possesso di una Green Card, il tesserino di residente permanente negli Usa, permette poi di accedere a tutti i benefici del sistema assistenziale Usa, in particolare dal punto di vista sanitario. Come ricorda poi il famoso film del 1990 con Gérard Depardieu e Andie MacDowell, se un cittadino straniero chiede la Green Card attraverso matrimonio con un cittadino statunitense e il funzionario che esamina la domanda sospetta si tratti di un matrimonio per finta, entra in campo una vera e propria Fraud Unit che sottopone i richiedenti a indagine: ad esempio, con interrogatori separati in cui confronta l’effettiva conoscenza di gusti gastronomici o particolari anatomici del partner, o chiede le circostanze del primo incontro. Dunque, normative più pesanti del semplice obbligo di restare due anni in Italia per lo straniero coniugato a italiano prima di poter chiedere la cittadinanza. Anche qui, però, la disposizione per cui uno straniero può contrarre matrimonio con un italiano solo se presenta all’ufficiale di stato civile oltre al nulla osta del Paese di provenienza anche il permesso di soggiorno se non è zuppa è pan bagnato. Il permesso di soggiorno, infatti, deve comunque venire concesso per forza in caso di matrimonio. Vedremo, quando sorgerà il problema, che succederà con chi chiede di sposarsi con straniero che abbia un regolare permesso di soggiorno temporaneo a fini turistici: perché anche quello è un permesso di soggiorno. Ma ci sembra evidente che il Ddl non possa impedire di sposarsi all’estero. Vedremo… Un dato sorprendente, invece, è che non sia stato previsto un esame di cittadinanza. Qui l’esempio più famoso è quella legge Usa che permette di chiedere la naturalizzazione a chi ha è legalmente residente da 5 anni meno 90 giorni, tre anni meno 90 giorni se sposato a un cittadino statunitense. Bisogna però poi passare un test con 10 domande scelta da una lista di 96, rispondendo correttamente almeno a 10. Non domande troppo complicate, in realtà: chi è stato il primo presidente, chi ha detto la frase “Datemi la Libertà o la Morte”, quanti sono i membri della Camera dei Rappresentanti, chi elegge il Presidente… Una prova che permette però di verificare la conoscenza non solo dell’inglese, ma anche della storia, istituzioni e costumi del Paese. Almeno al livello che i cittadini di nascita acquisiscono con la scuola dell’obbligo, e che serve a dare il senso di appartenenza alla comunità nazionale. Sullo stesso esempio, che è anche quello di Canada e Australia, nel 2005 anche il Regno Unito ha introdotto un Life in the United Kingdom test che riguarda non solo gli aspiranti cittadini, ma anche chi vuole ottenere un permesso di soggiorno permanente. In 45 minuti bisogna rispondere a un test di 24 domande, che possono andare dal sistema costituzionale alla vita di tutti i giorni. Ma c’è anche una prova di lingua, che può essere sostenuta in inglese, in gallese o in gaelico. La Danimarca il doppio esame per la cittadinanza, uno di danese e uno sulla storia, la cultura e le istituzioni del Paese, lo ha introdotto nel 2002. In Austria è stato introdotto invece solo un esame di tedesco, ma non per la cittadinanza, bensì per la residenza. Esentati i cittadini di altri Stati dell'Unione Europea, chi dimostra un profilo professionale manageriale o dirigenziale, chi risiedeva in Austria prima del primo gennaio 1998. Lo stesso esame non comporta in caso di bocciatura un'espulsione, ma un semplice venir meno dei generosi benefici concessi dallo Stato sociale austriaco, e in particolare il sussidio di disoccupazione. Chi non si sente in grado di affrontare l'esame subito ha diritto a un vero e proprio corso, metà finanziato dallo Stato e metà a carico dall'interessato. E solo chi rifiuta sia l'esame che i corsi si vede privare del permesso di residenza. Diffidenza della Lega verso un modello di “nazionalizzazione” degli immigrati a una cultura che non potrebbe che essere quella tricolore? Sfiducia nel modo italiano di fare gli esami? Semplice dimenticanza? C’è comunque l’Accordo di integrazione: entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge vengono stabiliti con regolamento - su proposta del presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno, di concerto con i ministri dell’Istruzione e del Welfare - i criteri e le modalità per la sottoscrizione, da parte dello straniero, contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del premesso di soggiorno, di un accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno. La firma dell’accordo è condizione necessaria per il rilascio: la perdita totale dei crediti determina la revoca del soggiorno e l’espulsione dello straniero. E per integrazione si intende “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società” nel rispetto dei valori della Costituzione. Qui, il modello è chiaramente quello francese introdotto da Sarkozy quando era ministro dell’Interno. “Sarà più complicato arrivare in Francia, sarà più difficile rimanerci, sarà più sbrigativo venirne allontanati”, disse Sarkozy. Quella legge introdusse un permesso di soggiorno valido tre anni e rinnovabile per i diplomati, e di quattro per gli studenti stranieri. Per tutti gli altri immigrati sono previsti vari titoli di soggiorno, sempre a durata limitata. Ma ci sono anche misure restrittive per le regolarizzazioni degli immigrati già presenti sul territorio francese, sui matrimoni misti e sui ricongiungimenti familiari, con l'obiettivo è escludere aspettative di sanatoria, stroncare il fenomeno diffuso di matrimoni finti e ridurre situazioni di coabitazione, poligamia e sovraffollamento provocate da ricongiungimenti familiari incontrollati. Il capitolo che sancisce la svolta culturale della Francia — storicamente terra d'accoglienza e d'asilo — riguarda le condizioni per soggiorni prolungati o per ottenere la residenza: rispetto dei principi della Republique laica, conoscenza della lingua e pratica d'integrazione al vaglio di sindaci e prefetti. L'immigrato deve dar prova di essere un buon cittadino francese. “Chi non ama la Francia se ne può andare”. “La nostra politica vuole essere ferma e umana. Credo che si debbano espellere gli stranieri in situazione irregolare, ma che sia necessario rafforzare i diritti di chi è in situazione legale. Lo straniero dovrà essere protetto da ogni forma di discriminazione e in cambio assumerà impegni verso la società francese”. Sarkozy ha anche proposto il diritto di voto alle amministrative per gli immigrati regolari, ma per far venire la famiglia un immigrato legale deve avere un reddito minimo «indicizzato» sull'entità della famiglia equivalente o 1,2 volte lo Smic, il salario minimo, esclusi gli assegni familiari. Moglie e figli devono poi passare un esame sul “grado di conoscenza della lingua e dei valori francesi”. Se non parlano abbastanza bene francese, devono seguire corsi obbligatori e a pagamento in patria, “per una durata massima di due mesi”, prima di poter chiedere un visto di lungo soggiorno. Chi ha superato l'esame di francese e sui valori, appunto, deve firmare un “contratto di accoglienza e di integrazione per la famiglia”, che obbliga i genitori a vegliare sulla “buona integrazione dei figli appena arrivati in Francia”. E “in caso di non rispetto manifesto del contratto il prefetto sporgerà denuncia a un giudice dei minorenni” che può decidere di togliere alla famiglia gli assegni familiari. Ogni anno il governo informa il parlamento francese sul numero delle espulsioni, comunicando anche degli “indicatori di integrazione”. Per chi vuole rientrare nel Paese natale, ci sono soldi in “aiuto al ritorno”. Ma chi accetta di andarsene è schedato in un archivio che conserva impronte digitali e fotografie, per evitare le frodi o un ritorno illegale in Francia.

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