Visto a Ballarò. Il segretario si ripete con Belpietro: ha il vizio di dare del servo a tutti. Ci deve essere un falso storico nella biografia di Dario Franceschini. Dappertutto si scrive che il leader del Pd è cresciuto in parrocchia e sin dall’infanzia ha avuto nel cuore lo Scudo crociato della Balena democristiana. In più, quando ha iniziato a fare politica è stato discepolo di Benigno Zaccagnini, diventato segretario della Dc nel 1975. Nel mio lavoro di cronista, ho conosciuto bene “Zac”. Era un vero signore, dai modi cortesi e con una spiccata eleganza intellettuale. Anche per questo si distingueva dalla casta partitica del tempo. Affollata pure allora di tipacci volgari, capaci di una violenza verbale senza limiti. Pronti a gridare le peggio cose nei confronti degli avversari. Chi lavorava con Zaccagnini era altrettanto gentile. La scuola di “Zac” respingeva chi si mostrava rozzo, i burini, la gentuccia e la gentaglia. Dove sta il falso storico nelle note biografiche di Franceschini? Sta nel fatto che, ogni giorno di più, il suo modo di fare contrasta con lo stile del presunto maestro. Come apre bocca, si lascia andare a qualche volgarità nei confronti di chi osa contrastarlo. Lo si è visto anche durante il Ballarò dell’altro ieri. Nel tentativo di annullare quel che stava dicendo Maurizio Belpietro, direttore di Panorama, Franceschini si è rivolto ai telespettatori ringhiando: «Vi avverto che questo signore è un dipendente di Berlusconi!». Franceschini deve godere molto nello sparare quella parola. L’aveva già tirata in faccia a Carlo Rossella durante un Ballarò di qualche settimana fa. Quando il mio vecchio amico Carlo, presidente della Medusa Film, iniziò a parlare, il leader del Pd si mise a urlacchiare, sempre rivolto al pubblico: «Attenzione, questo è un dipendente di Berlusconi!». Rossella gli replicò come meritava. E lo stesso ha fatto Belpietro, ricordandogli di essere il direttore di un settimanale della Mondadori e non un famiglio di Arcore. A questo punto, è giusto chiedersi se Franceschini sia davvero cresciuto nella Democrazia cristiana di Zaccagnini e non in una delle scuole di partito del vecchio Partito comunista di Ferrara. Sappiamo com’erano fatti i maestroni comunisti, soprattutto in aree integralmente rosse. Erano compagni che non andavano per il sottile. Se gli conveniva aggredire, aggredivano. Se dovevano offendere, lo facevano senza risparmio. E il loro primo passo consisteva nel dire che l’avversario era un dipendente di qualcuno più grande e più nefando di lui. Insomma un servo. Il Pci di Togliatti non aveva riguardi per nessuno. Si comportò così persino nei confronti di un big del comunismo mondiale: il maresciallo Tito. Nel primo dopoguerra veniva osannato come il capo della guerra partigiana jugoslava, un grande combattente per la libertà dei popoli. Poi nel giugno 1948 Tito ruppe con Stalin e divenne subito uno sporco fascista, un servo degli Stati Uniti, al soldo dei banchieri di Wall Street, un capitalista tra i più odiosi. Sette anni dopo, Tito fece la pace con l’Urss, guidata da Nikita Krusciov. E ritornò un compagno, un capo socialista, un eroe rosso. Molto più in piccolo, ho fatto anch’io l’esperienza di passare per servo di qualcuno. Alla fine del 1960, quando entrai alla Stampa diretta da Giulio De Benedetti, mi resi subito conto di una seccatura spiacevole. Per il Pci torinese, i redattori del giornale erano tutti servi della Fiat. E come tali andavano trattati. Anche gli intellettuali della rossa Einaudi ci guatavano con disprezzo. Considerandoci dipendenti di Vittorio Valletta, il dittatore che aveva sconfitto la Cgil e metteva i comunisti fuori dalla fabbrica.Quando andai al Giorno, diventai subito un servitore dell’Eni. Arrivato al Corriere della Sera, venni classificato come servo dei Crespi, poi dell’avvocato Agnelli, quindi di Angelo Rizzoli. Evitai per un soffio di finire al servizio della Loggia P2 perché me ne andai in tempo da via Solferino. E il giorno che Carlo De Benedetti diventò il proprietario del gruppo Espresso-Repubblica, eccomi con la livrea di servente dell’Ingegnere.Tutti i politici strillano che la democrazia ha bisogno di un’informazione libera. Ma non hanno rispetto dell’autonomia dei giornalisti. Arrivando così a conclusioni paradossali. Seguendo la logica distorta del segretario del Partito democratico, anche Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, dovrebbe essere ritenuto un dipendente prima di Walter Veltroni e poi dello stesso Franceschini. In quanto proprietari di fatto della Rete3 che la spartizione della Rai in lotti gli ha assegnato.Non so come finirà la battaglia elettorale del 7-8 giugno. Sappiamo che il centrodestra vive giorni d’angoscia per l’affare Noemi. E che il presidente del Consiglio si sente inseguito come non mai dall’incubo di una vittoria dimezzata, molto somigliante a una sconfitta. Ma Franceschini si è già condannato da solo. Meritandosi la medaglia di Trinariciuto Bianco. Un bel guaio per un ex ragazzo tutto casa, famiglia e “Zac”.
venerdì 29 maggio 2009
Dal riformista
Dario, il Trinariciuto Bianco di Giampaolo Pansa
Visto a Ballarò. Il segretario si ripete con Belpietro: ha il vizio di dare del servo a tutti. Ci deve essere un falso storico nella biografia di Dario Franceschini. Dappertutto si scrive che il leader del Pd è cresciuto in parrocchia e sin dall’infanzia ha avuto nel cuore lo Scudo crociato della Balena democristiana. In più, quando ha iniziato a fare politica è stato discepolo di Benigno Zaccagnini, diventato segretario della Dc nel 1975. Nel mio lavoro di cronista, ho conosciuto bene “Zac”. Era un vero signore, dai modi cortesi e con una spiccata eleganza intellettuale. Anche per questo si distingueva dalla casta partitica del tempo. Affollata pure allora di tipacci volgari, capaci di una violenza verbale senza limiti. Pronti a gridare le peggio cose nei confronti degli avversari. Chi lavorava con Zaccagnini era altrettanto gentile. La scuola di “Zac” respingeva chi si mostrava rozzo, i burini, la gentuccia e la gentaglia. Dove sta il falso storico nelle note biografiche di Franceschini? Sta nel fatto che, ogni giorno di più, il suo modo di fare contrasta con lo stile del presunto maestro. Come apre bocca, si lascia andare a qualche volgarità nei confronti di chi osa contrastarlo. Lo si è visto anche durante il Ballarò dell’altro ieri. Nel tentativo di annullare quel che stava dicendo Maurizio Belpietro, direttore di Panorama, Franceschini si è rivolto ai telespettatori ringhiando: «Vi avverto che questo signore è un dipendente di Berlusconi!». Franceschini deve godere molto nello sparare quella parola. L’aveva già tirata in faccia a Carlo Rossella durante un Ballarò di qualche settimana fa. Quando il mio vecchio amico Carlo, presidente della Medusa Film, iniziò a parlare, il leader del Pd si mise a urlacchiare, sempre rivolto al pubblico: «Attenzione, questo è un dipendente di Berlusconi!». Rossella gli replicò come meritava. E lo stesso ha fatto Belpietro, ricordandogli di essere il direttore di un settimanale della Mondadori e non un famiglio di Arcore. A questo punto, è giusto chiedersi se Franceschini sia davvero cresciuto nella Democrazia cristiana di Zaccagnini e non in una delle scuole di partito del vecchio Partito comunista di Ferrara. Sappiamo com’erano fatti i maestroni comunisti, soprattutto in aree integralmente rosse. Erano compagni che non andavano per il sottile. Se gli conveniva aggredire, aggredivano. Se dovevano offendere, lo facevano senza risparmio. E il loro primo passo consisteva nel dire che l’avversario era un dipendente di qualcuno più grande e più nefando di lui. Insomma un servo. Il Pci di Togliatti non aveva riguardi per nessuno. Si comportò così persino nei confronti di un big del comunismo mondiale: il maresciallo Tito. Nel primo dopoguerra veniva osannato come il capo della guerra partigiana jugoslava, un grande combattente per la libertà dei popoli. Poi nel giugno 1948 Tito ruppe con Stalin e divenne subito uno sporco fascista, un servo degli Stati Uniti, al soldo dei banchieri di Wall Street, un capitalista tra i più odiosi. Sette anni dopo, Tito fece la pace con l’Urss, guidata da Nikita Krusciov. E ritornò un compagno, un capo socialista, un eroe rosso. Molto più in piccolo, ho fatto anch’io l’esperienza di passare per servo di qualcuno. Alla fine del 1960, quando entrai alla Stampa diretta da Giulio De Benedetti, mi resi subito conto di una seccatura spiacevole. Per il Pci torinese, i redattori del giornale erano tutti servi della Fiat. E come tali andavano trattati. Anche gli intellettuali della rossa Einaudi ci guatavano con disprezzo. Considerandoci dipendenti di Vittorio Valletta, il dittatore che aveva sconfitto la Cgil e metteva i comunisti fuori dalla fabbrica.Quando andai al Giorno, diventai subito un servitore dell’Eni. Arrivato al Corriere della Sera, venni classificato come servo dei Crespi, poi dell’avvocato Agnelli, quindi di Angelo Rizzoli. Evitai per un soffio di finire al servizio della Loggia P2 perché me ne andai in tempo da via Solferino. E il giorno che Carlo De Benedetti diventò il proprietario del gruppo Espresso-Repubblica, eccomi con la livrea di servente dell’Ingegnere.Tutti i politici strillano che la democrazia ha bisogno di un’informazione libera. Ma non hanno rispetto dell’autonomia dei giornalisti. Arrivando così a conclusioni paradossali. Seguendo la logica distorta del segretario del Partito democratico, anche Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, dovrebbe essere ritenuto un dipendente prima di Walter Veltroni e poi dello stesso Franceschini. In quanto proprietari di fatto della Rete3 che la spartizione della Rai in lotti gli ha assegnato.Non so come finirà la battaglia elettorale del 7-8 giugno. Sappiamo che il centrodestra vive giorni d’angoscia per l’affare Noemi. E che il presidente del Consiglio si sente inseguito come non mai dall’incubo di una vittoria dimezzata, molto somigliante a una sconfitta. Ma Franceschini si è già condannato da solo. Meritandosi la medaglia di Trinariciuto Bianco. Un bel guaio per un ex ragazzo tutto casa, famiglia e “Zac”.
Visto a Ballarò. Il segretario si ripete con Belpietro: ha il vizio di dare del servo a tutti. Ci deve essere un falso storico nella biografia di Dario Franceschini. Dappertutto si scrive che il leader del Pd è cresciuto in parrocchia e sin dall’infanzia ha avuto nel cuore lo Scudo crociato della Balena democristiana. In più, quando ha iniziato a fare politica è stato discepolo di Benigno Zaccagnini, diventato segretario della Dc nel 1975. Nel mio lavoro di cronista, ho conosciuto bene “Zac”. Era un vero signore, dai modi cortesi e con una spiccata eleganza intellettuale. Anche per questo si distingueva dalla casta partitica del tempo. Affollata pure allora di tipacci volgari, capaci di una violenza verbale senza limiti. Pronti a gridare le peggio cose nei confronti degli avversari. Chi lavorava con Zaccagnini era altrettanto gentile. La scuola di “Zac” respingeva chi si mostrava rozzo, i burini, la gentuccia e la gentaglia. Dove sta il falso storico nelle note biografiche di Franceschini? Sta nel fatto che, ogni giorno di più, il suo modo di fare contrasta con lo stile del presunto maestro. Come apre bocca, si lascia andare a qualche volgarità nei confronti di chi osa contrastarlo. Lo si è visto anche durante il Ballarò dell’altro ieri. Nel tentativo di annullare quel che stava dicendo Maurizio Belpietro, direttore di Panorama, Franceschini si è rivolto ai telespettatori ringhiando: «Vi avverto che questo signore è un dipendente di Berlusconi!». Franceschini deve godere molto nello sparare quella parola. L’aveva già tirata in faccia a Carlo Rossella durante un Ballarò di qualche settimana fa. Quando il mio vecchio amico Carlo, presidente della Medusa Film, iniziò a parlare, il leader del Pd si mise a urlacchiare, sempre rivolto al pubblico: «Attenzione, questo è un dipendente di Berlusconi!». Rossella gli replicò come meritava. E lo stesso ha fatto Belpietro, ricordandogli di essere il direttore di un settimanale della Mondadori e non un famiglio di Arcore. A questo punto, è giusto chiedersi se Franceschini sia davvero cresciuto nella Democrazia cristiana di Zaccagnini e non in una delle scuole di partito del vecchio Partito comunista di Ferrara. Sappiamo com’erano fatti i maestroni comunisti, soprattutto in aree integralmente rosse. Erano compagni che non andavano per il sottile. Se gli conveniva aggredire, aggredivano. Se dovevano offendere, lo facevano senza risparmio. E il loro primo passo consisteva nel dire che l’avversario era un dipendente di qualcuno più grande e più nefando di lui. Insomma un servo. Il Pci di Togliatti non aveva riguardi per nessuno. Si comportò così persino nei confronti di un big del comunismo mondiale: il maresciallo Tito. Nel primo dopoguerra veniva osannato come il capo della guerra partigiana jugoslava, un grande combattente per la libertà dei popoli. Poi nel giugno 1948 Tito ruppe con Stalin e divenne subito uno sporco fascista, un servo degli Stati Uniti, al soldo dei banchieri di Wall Street, un capitalista tra i più odiosi. Sette anni dopo, Tito fece la pace con l’Urss, guidata da Nikita Krusciov. E ritornò un compagno, un capo socialista, un eroe rosso. Molto più in piccolo, ho fatto anch’io l’esperienza di passare per servo di qualcuno. Alla fine del 1960, quando entrai alla Stampa diretta da Giulio De Benedetti, mi resi subito conto di una seccatura spiacevole. Per il Pci torinese, i redattori del giornale erano tutti servi della Fiat. E come tali andavano trattati. Anche gli intellettuali della rossa Einaudi ci guatavano con disprezzo. Considerandoci dipendenti di Vittorio Valletta, il dittatore che aveva sconfitto la Cgil e metteva i comunisti fuori dalla fabbrica.Quando andai al Giorno, diventai subito un servitore dell’Eni. Arrivato al Corriere della Sera, venni classificato come servo dei Crespi, poi dell’avvocato Agnelli, quindi di Angelo Rizzoli. Evitai per un soffio di finire al servizio della Loggia P2 perché me ne andai in tempo da via Solferino. E il giorno che Carlo De Benedetti diventò il proprietario del gruppo Espresso-Repubblica, eccomi con la livrea di servente dell’Ingegnere.Tutti i politici strillano che la democrazia ha bisogno di un’informazione libera. Ma non hanno rispetto dell’autonomia dei giornalisti. Arrivando così a conclusioni paradossali. Seguendo la logica distorta del segretario del Partito democratico, anche Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, dovrebbe essere ritenuto un dipendente prima di Walter Veltroni e poi dello stesso Franceschini. In quanto proprietari di fatto della Rete3 che la spartizione della Rai in lotti gli ha assegnato.Non so come finirà la battaglia elettorale del 7-8 giugno. Sappiamo che il centrodestra vive giorni d’angoscia per l’affare Noemi. E che il presidente del Consiglio si sente inseguito come non mai dall’incubo di una vittoria dimezzata, molto somigliante a una sconfitta. Ma Franceschini si è già condannato da solo. Meritandosi la medaglia di Trinariciuto Bianco. Un bel guaio per un ex ragazzo tutto casa, famiglia e “Zac”.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento