La metà sarà costretta a raccogliere in fretta i pochi oggetti sottratti alla furia del cielo e del mare, tallonata nella sua fuga da inondazioni e tempeste, cicloni e uragani. L’altra metà avrà più tempo per arrendersi ai deserti che avanzano, divorando i campi e affamando le bestie, o agli oceani che si alzano, erodendo le coste e distruggendo gli atolli. Tutti, inesorabilmente, se ne dovranno andare. Questione di settimane, mesi, forse qualche anno. Sono 6 milioni, secondo le stime elaborate da Legambiente. Un dossier, quello dedicato al riscaldamento globale come fattore scatenante delle migrazioni, che sarà presentato oggi a Terra Futura (www.terrafutura.it), la mostra-convegno internazionale sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale; la sesta edizione si chiuderà domani alla Fortezza da Basso di Firenze. Li chiamano ecoprofughi, e sono l’ultimo tassello in ordine di tempo che si unisce al complicato mosaico dei mutamenti climatici. Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, il fenomeno è destinato a subire un aumento esponenziale: nel 2050, il mondo potrebbe ritrovarsi a gestire la migrazione forzata di 200-250 milioni di persone da terre inaridite o completamente sott’acqua, devastate dal surriscaldamento o dalla deforestazione. È per questo che Legambiente ha scelto di lanciare, proprio a Firenze, la proposta per il riconoscimento di uno status giuridico ai profughi ambientali. E non è un caso, forse, che questo avvenga in una Regione che si appresta a introdurre — secondo il presidente del Consiglio toscano Riccardo Nencini, «l’assemblea la varerà lunedì» — la «sua» legge sull’immigrazione, in aperta sfida al ddl sulla sicurezza e alla linea politica del governo. Così come non può essere una coincidenza che proprio nei prossimi giorni — come scriveva ieri il New York Times — l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si prepari ad adottare la prima risoluzione che colleghi ufficialmente il cambiamento del clima al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Sono 18 milioni le persone che ogni anno, nel mondo, vengono colpite da disastri naturali; la quasi totalità (98%) si concentra nei Paesi in via di sviluppo. Basta un grande fiume che, gonfiato da un monsone anomalo, esca dal suo alveo per distruggere case, campi, fonti di sostentamento di intere nazioni. Le piogge torrenziali che hanno flagellato la Namibia dal gennaio di quest’anno sono le dirette responsabili dell’esodo forzato di 350.000 contadini e allevatori: il 50% delle strade sono danneggiate, a rischio il 63% dei raccolti. Tra il 1997 e il 2020, nella sola Africa subsahariana le stime parlano di 60 milioni di migranti per la desertificazione. «Ma il problema è anche l’Italia che, negli ultimi 20 anni, ha visto il 27% del territorio — Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia... — inaridirsi fino al punto limite, con il 10% della Sardegna già desertificato». Maurizio Gubbiotti, coordinatore della segreteria nazionale di Legambiente, traccia un quadro italiano che è l’esatto rispecchiamento di un dramma mondiale. «Kyoto ci chiedeva di ridurre del 6,5% le emissioni; noi le abbiamo aumentate del 13, a livello globale sono cresciute del 37%. Gli scienziati dicono che siamo vicini al punto di non ritorno, quando il pianeta non avrà più capacità di adattamento». Nessuno, dunque, può ritirarsi dalla partita. «Le crisi ambientali sono ovunque, quasi tutte provocate dall’uomo. E se fino a qualche anno fa il grosso dei rifugiati scappava dalle persecuzioni, dai conflitti, da due anni in qua il numero dei profughi ambientali ha superato quello dei profughi di guerra — fa il punto Gubbiotti —. All’inizio è un passaggio interno, o tra Paesi confinanti; poi diventa la fuga verso Paesi che possono dare più fortuna». «Sappiamo benissimo che d’ora in poi ci saranno sempre più rifugiati — commenta l’economista americana Susan George, presidente del Transnational Institute di Amsterdam —. Per un semplice motivo: anche volendo, non saranno in grado di restare dove sono. Prendiamo l’Africa, dove l’agricoltura ha già subito un tracollo pari al 60%, dove tutto ciò che è asciutto diventerà ancora più secco e tutto ciò che è bagnato diventerà fradicio... Le condizioni di vita saranno insostenibili». Gli eco-profughi bussano alle nostre frontiere, «ed è necessario — afferma Gubbiotti — che la politica generale non sia più soltanto il negoziato per ridurre le emissioni di gas inquinanti, ma anche, appunto, la ridefinizione dello status di rifugiati». La proposta può sembrare una provocazione, ma ha i piedi ben piantati sulla terra; già il 31 ottobre scorso, un documento di lavoro dell’Iasc, il comitato inter- agenzia per il coordinamento umanitario Onu, aveva sottolineato come «né la Convenzione sui cambi climatici né il Protocollo di Kyoto includano misure per l’assistenza o la protezione di coloro che saranno direttamente colpiti dagli effetti dei mutamenti nel clima»; e i criteri della Convenzione sullo status dei rifugiati, adottata nel 1951, non paiono abbastanza flessibili per gestire le nuove emergenze. Pochi giorni fa, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha diffuso un rapporto in cui si riconosce che «i migranti per ragioni ambientali non cadono direttamente in nessuna delle categorie offerte dal quadro giuridico internazionale». E se è vero, ammette Gubbiotti, che «la proposta può sembrare improbabile dal punto di vista della praticabilità», lo è altrettanto che «sul fronte Onu sono già stati fatti passi avanti. E potremmo arrivare a dei risultati concreti». Nel frattempo, in assenza di una griglia giuridica «aggiornata», è necessario agire. Per spezzare questo circolo perverso, che intreccia indissolubilmente crisi ambientale e crisi sociale. «E la mia proposta — interloquisce la George — è relativamente semplice: l’Europa cancelli subito il debito ai Paesi più poveri. Iniziando dall’Africa subsahariana, che continua a pagare una somma pari a 19 miliardi all’anno. A una condizione: che quel denaro venga investito in riforestazione, conservazione delle riserve idriche, sviluppo di programmi a tutela della biodiversità». Con un monitoraggio costante, «perché è inutile far finta che la corruzione non sia un problema»; ma anche in stretta collaborazione «con associazioni ed esperti locali, mettendo a disposizione un patrimonio di conoscenze tutto europeo — nella silvicoltura, nell’agricoltura sostenibile...». E poi, dopo l’Africa, «gli altri Paesi più colpiti dall’emergenza ambientale: solo per le deforestazioni, Indonesia, Brasile, Paraguay... il modello, una volta perfezionato, potrebbe essere esportato ovunque».
Gabriela Jacomella
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