Proviamo a immaginare l’impossibile. L’Italia privata all’improvviso dei cinque milioni di cittadini immigrati residenti nelle nostre regioni, città, borgate. Sarebbe la paralisi. Lo sbandamento di milioni di famiglie dove spesso una tata o una badante fanno andare avanti le cose e la vita. Migliaia di piccole imprese del Nord non aprirebbero i battenti. E l’agricoltura, l’edilizia, mille altre attività entrerebbero in debito d’ossigeno, come succede all’atleta quando non ce la fa più. Perché questa è l’Italia oggi. Una grande società «aperta», plurale, multietnica. Una comunità qualitativamente diversa da prima, da com’era venti o dieci anni fa. Abbiamo imparato ad accogliere, questa è la verità. E per fortuna. Dopo aver tanto «ceduto» nel passato — si sono calcolati venticinque milioni di partenze, non tutte definitive, dall’unità d’Italia agli anni Settanta del secolo scorso — siamo divenuti terra di riferimento. Di approdo. Di sbarchi e di speranze. Possiamo dolercene a parole, ma nei fatti questa nuova realtà è un patrimonio già oggi essenziale e del quale non potremmo, neanche volendolo, fare a meno. Il problema allora — perché un problema c’è — è dotare lo Stato, la comunità, di un sistema di regole certe, capaci di superare la logica dell’emergenza costante dove la propaganda di parte, o ideologica, maschera l’inefficacia della politica. L’immigrazione, questo dovrebbe esser chiaro da tempo, non è un malanno passeggero, ma uno dei tanti attori di un mutamento epocale destinato a durare a lungo. Tra poche decine d’anni, un miliardo e mezzo di persone vivranno «altrove». Lontano dal loro Paese. Allora non solo è legittimo ma doveroso chiederci se basta proteggere il nostro fortino assediato o se non stiamo rinunciando a governare cambiamenti della società destinati a compiersi, spesso in un contesto di conflitti e paure. La sfida vera è fondare un modello di convivenza in grado di reggere l’urto del futuro. Un modello valido per noi e per chi verrà dopo di noi. Si va invece sulla strada sbagliata se si sceglie — come si è ora scelto in Italia — di gridare all’Europa e al mondo l’intenzione di contrastare l’immigrazione illegale, anche al prezzo di penalizzare quella legale, di rendere più difficili i ricongiungimenti, l’accesso alla cittadinanza, aumentando i costi del soggiorno e paralizzando i flussi di ingresso degli immigrati regolari. Per combattere la clandestinità si è puntato sulle forze di Polizia, sui militari e sulle ronde, fino al coinvolgimento di presidi e insegnanti, medici, infermieri, ufficiali dell’anagrafe, nell’idea scomposta di una rimozione di tutele e diritti essenziali come leva securitaria per fermare ovunque gli immigrati senza permesso. Tutto questo, si dice, agisce nelle corde dei cittadini che non sopportano più l’invasione disordinata di persone «fuori legge». Può darsi che i sondaggi confortino questa tesi. E tuttavia, attenzione. Perché chi esercita responsabilità pubbliche ha il dovere politico e morale di non parlare soltanto alle emozioni. Dati alla mano, «il re è nudo», nel senso che esasperando la paura, si produce un nemico ma non si risolve il problema. È un fatto che nell’ultimo anno gli sbarchi sulle nostre coste siano notevolmente aumentati. Né la voce grossa, né la durezza delle misure hanno impedito gli arrivi via mare: 36.951 nel 2008 rispetto ai 20.455 del 2007 e ai 22.016 del 2006. Con una ulteriore crescita nei primi mesi del 2009. È una tragica contabilità, lo sappiamo. Ma spiega perché non basta una logica repressiva a governare quei flussi. E conferma l’assurdità delle critiche di «buonismo» rivolte al precedente governo. I due anni di Prodi sono stati pochi, troppo pochi, per condurre il Paese fuori dall’emergenza con una legge sull’immigrazione strutturale, fatta di regole praticabili sugli ingressi e sul soggiorno regolari. In quella fase però non è mai stata in discussione la durezza contro i criminali. Con risultati importanti che hanno sgominato bande e organizzazioni attive nello sfruttamento della prostituzione, del lavoro nero, di traffici illegali. Il tutto anche attraverso interventi tesi a dare più strumenti di indagine e intervento alle forze dell’ordine. L’impegno contro il traffico degli esseri umani tra la Libia e l’Italia ha prodotto un aumento degli arresti e dei mezzi sequestrati. Sono state adottate nuove procedure per identificare lo straniero criminale ancora in carcere ed espellerlo appena espiata la pena. Insomma due anni, per quanto pochi, sono serviti ad avviare un progetto di governo dell’immigrazione in linea col resto dell’Unione Europea. Un «approccio globale», un’offerta di politiche integrate condivise con i Paesi di origine e anche di ritorno dei migranti. Una collaborazione inedita dei ministeri dell’Interno e degli Esteri ha avuto riflessi positivi sul contrasto all’immigrazione illegale. Forse sono aspetti non inutili da rammentare oggi. Il 29 dicembre 2007, il ministro dell’Interno italiano siglò, a Tripoli, con il suo corrispondente libico, un Protocollo di cooperazione tra i due Paesi «per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina». Quell’accordo prevedeva un pattugliamento marittimo congiunto davanti alle coste libiche per contrastare la partenza dei natanti e bloccare il traffico degli esseri umani. Il Trattato di amicizia tra Italia e Libia, del 30 agosto scorso e di recente ratificato dal Parlamento, ha assunto quel Protocollo tra i contenuti necessari della collaborazione nella lotta all’immigrazione clandestina. Bisogna però ricordare che né il Protocollo né il Trattato contengono disposizioni per rimandare in Libia gli immigrati soccorsi dall’Italia in acque internazionali: a riguardo, il governo italiano ha strumentalmente usato quegli accordi per rifiutare il proprio aiuto a donne, uomini e minori che avrebbe comunque potuto respingere dopo avere verificato la presenza tra loro di vittime di tratta o di richiedenti asilo in possesso dei requisiti necessari. Come del resto previsto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E ancora, l’approccio globale di cui si è detto, ha prodotto nel gennaio del 2007 la firma di un accordo di riammissione tra l’Italia e l’Egitto. Ne sta ricevendo vantaggio il Governo attuale che può operare con voli diretti verso il Cairo per il rimpatrio dei cittadini egiziani sbarcati sulle nostre coste. Gli accordi di riammissione servono, dunque, al Paese di destinazione degli immigrati e al Paese d’origine. In un quadro integrato di azioni accelerano le procedure di accertamento e di rilascio dei documenti degli immigrati espulsi o respinti alla frontiera. Fino al 2007 l’Italia ha firmato trenta accordi di riammissione. Ventuno di questi recano le firme di ministri del centrosinistra. Nel gennaio scorso, la massiccia presenza a Lampedusa di migranti irregolari provenienti dalla Tunisia e le difficoltà del loro rimpatrio hanno evidenziato che l’accordo di riammissione con quel Paese non sta funzionando. È credibile che questo possa accadere, che la collaborazione, nel tempo, vada aggiornata, verificata, rifinanziata, che si debba giungere alla firma di nuovi accordi per garantire la sostenibilità dei percorsi migratori. Parallelamente devono procedere gli aiuti per lo sviluppo economico, bisogna concordare gli ingressi per motivi di lavoro, le azioni congiunte contro la criminalità e lo sfruttamento, il ritorno degli immigrati overstayers che rappresentano i due terzi delle presenze irregolari sul nostro territorio. Questa, a nostro avviso, rimane la sola seria strategia da perseguire se l’obiettivo è un contrasto dell’immigrazione clandestina fondato sulla legalità, sulla sicurezza e sul rispetto fondamentale dei diritti umani. Sempre, in qualunque emergenza o contesto. Nella consapevolezza che dinanzi a problemi di tale complessità e rilievo, l’impegno pubblico delle leadership e dei governi deve puntare non già a vellicare l’umore del pubblico ma a rasserenare il Paese indicando con saggezza la via migliore da seguire.
sabato 23 maggio 2009
Dal pulpito
Come si governa l'arrivo degli stranieri. Una strategia (che funziona) per fermare i clandestini. Immigrati, combattere la clandestinità con gli accordi di riammissione di Giuliano Amato e Massimo D'Alema
Proviamo a immaginare l’impossibile. L’Italia privata all’improvviso dei cinque milioni di cittadini immigrati residenti nelle nostre regioni, città, borgate. Sarebbe la paralisi. Lo sbandamento di milioni di famiglie dove spesso una tata o una badante fanno andare avanti le cose e la vita. Migliaia di piccole imprese del Nord non aprirebbero i battenti. E l’agricoltura, l’edilizia, mille altre attività entrerebbero in debito d’ossigeno, come succede all’atleta quando non ce la fa più. Perché questa è l’Italia oggi. Una grande società «aperta», plurale, multietnica. Una comunità qualitativamente diversa da prima, da com’era venti o dieci anni fa. Abbiamo imparato ad accogliere, questa è la verità. E per fortuna. Dopo aver tanto «ceduto» nel passato — si sono calcolati venticinque milioni di partenze, non tutte definitive, dall’unità d’Italia agli anni Settanta del secolo scorso — siamo divenuti terra di riferimento. Di approdo. Di sbarchi e di speranze. Possiamo dolercene a parole, ma nei fatti questa nuova realtà è un patrimonio già oggi essenziale e del quale non potremmo, neanche volendolo, fare a meno. Il problema allora — perché un problema c’è — è dotare lo Stato, la comunità, di un sistema di regole certe, capaci di superare la logica dell’emergenza costante dove la propaganda di parte, o ideologica, maschera l’inefficacia della politica. L’immigrazione, questo dovrebbe esser chiaro da tempo, non è un malanno passeggero, ma uno dei tanti attori di un mutamento epocale destinato a durare a lungo. Tra poche decine d’anni, un miliardo e mezzo di persone vivranno «altrove». Lontano dal loro Paese. Allora non solo è legittimo ma doveroso chiederci se basta proteggere il nostro fortino assediato o se non stiamo rinunciando a governare cambiamenti della società destinati a compiersi, spesso in un contesto di conflitti e paure. La sfida vera è fondare un modello di convivenza in grado di reggere l’urto del futuro. Un modello valido per noi e per chi verrà dopo di noi. Si va invece sulla strada sbagliata se si sceglie — come si è ora scelto in Italia — di gridare all’Europa e al mondo l’intenzione di contrastare l’immigrazione illegale, anche al prezzo di penalizzare quella legale, di rendere più difficili i ricongiungimenti, l’accesso alla cittadinanza, aumentando i costi del soggiorno e paralizzando i flussi di ingresso degli immigrati regolari. Per combattere la clandestinità si è puntato sulle forze di Polizia, sui militari e sulle ronde, fino al coinvolgimento di presidi e insegnanti, medici, infermieri, ufficiali dell’anagrafe, nell’idea scomposta di una rimozione di tutele e diritti essenziali come leva securitaria per fermare ovunque gli immigrati senza permesso. Tutto questo, si dice, agisce nelle corde dei cittadini che non sopportano più l’invasione disordinata di persone «fuori legge». Può darsi che i sondaggi confortino questa tesi. E tuttavia, attenzione. Perché chi esercita responsabilità pubbliche ha il dovere politico e morale di non parlare soltanto alle emozioni. Dati alla mano, «il re è nudo», nel senso che esasperando la paura, si produce un nemico ma non si risolve il problema. È un fatto che nell’ultimo anno gli sbarchi sulle nostre coste siano notevolmente aumentati. Né la voce grossa, né la durezza delle misure hanno impedito gli arrivi via mare: 36.951 nel 2008 rispetto ai 20.455 del 2007 e ai 22.016 del 2006. Con una ulteriore crescita nei primi mesi del 2009. È una tragica contabilità, lo sappiamo. Ma spiega perché non basta una logica repressiva a governare quei flussi. E conferma l’assurdità delle critiche di «buonismo» rivolte al precedente governo. I due anni di Prodi sono stati pochi, troppo pochi, per condurre il Paese fuori dall’emergenza con una legge sull’immigrazione strutturale, fatta di regole praticabili sugli ingressi e sul soggiorno regolari. In quella fase però non è mai stata in discussione la durezza contro i criminali. Con risultati importanti che hanno sgominato bande e organizzazioni attive nello sfruttamento della prostituzione, del lavoro nero, di traffici illegali. Il tutto anche attraverso interventi tesi a dare più strumenti di indagine e intervento alle forze dell’ordine. L’impegno contro il traffico degli esseri umani tra la Libia e l’Italia ha prodotto un aumento degli arresti e dei mezzi sequestrati. Sono state adottate nuove procedure per identificare lo straniero criminale ancora in carcere ed espellerlo appena espiata la pena. Insomma due anni, per quanto pochi, sono serviti ad avviare un progetto di governo dell’immigrazione in linea col resto dell’Unione Europea. Un «approccio globale», un’offerta di politiche integrate condivise con i Paesi di origine e anche di ritorno dei migranti. Una collaborazione inedita dei ministeri dell’Interno e degli Esteri ha avuto riflessi positivi sul contrasto all’immigrazione illegale. Forse sono aspetti non inutili da rammentare oggi. Il 29 dicembre 2007, il ministro dell’Interno italiano siglò, a Tripoli, con il suo corrispondente libico, un Protocollo di cooperazione tra i due Paesi «per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina». Quell’accordo prevedeva un pattugliamento marittimo congiunto davanti alle coste libiche per contrastare la partenza dei natanti e bloccare il traffico degli esseri umani. Il Trattato di amicizia tra Italia e Libia, del 30 agosto scorso e di recente ratificato dal Parlamento, ha assunto quel Protocollo tra i contenuti necessari della collaborazione nella lotta all’immigrazione clandestina. Bisogna però ricordare che né il Protocollo né il Trattato contengono disposizioni per rimandare in Libia gli immigrati soccorsi dall’Italia in acque internazionali: a riguardo, il governo italiano ha strumentalmente usato quegli accordi per rifiutare il proprio aiuto a donne, uomini e minori che avrebbe comunque potuto respingere dopo avere verificato la presenza tra loro di vittime di tratta o di richiedenti asilo in possesso dei requisiti necessari. Come del resto previsto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E ancora, l’approccio globale di cui si è detto, ha prodotto nel gennaio del 2007 la firma di un accordo di riammissione tra l’Italia e l’Egitto. Ne sta ricevendo vantaggio il Governo attuale che può operare con voli diretti verso il Cairo per il rimpatrio dei cittadini egiziani sbarcati sulle nostre coste. Gli accordi di riammissione servono, dunque, al Paese di destinazione degli immigrati e al Paese d’origine. In un quadro integrato di azioni accelerano le procedure di accertamento e di rilascio dei documenti degli immigrati espulsi o respinti alla frontiera. Fino al 2007 l’Italia ha firmato trenta accordi di riammissione. Ventuno di questi recano le firme di ministri del centrosinistra. Nel gennaio scorso, la massiccia presenza a Lampedusa di migranti irregolari provenienti dalla Tunisia e le difficoltà del loro rimpatrio hanno evidenziato che l’accordo di riammissione con quel Paese non sta funzionando. È credibile che questo possa accadere, che la collaborazione, nel tempo, vada aggiornata, verificata, rifinanziata, che si debba giungere alla firma di nuovi accordi per garantire la sostenibilità dei percorsi migratori. Parallelamente devono procedere gli aiuti per lo sviluppo economico, bisogna concordare gli ingressi per motivi di lavoro, le azioni congiunte contro la criminalità e lo sfruttamento, il ritorno degli immigrati overstayers che rappresentano i due terzi delle presenze irregolari sul nostro territorio. Questa, a nostro avviso, rimane la sola seria strategia da perseguire se l’obiettivo è un contrasto dell’immigrazione clandestina fondato sulla legalità, sulla sicurezza e sul rispetto fondamentale dei diritti umani. Sempre, in qualunque emergenza o contesto. Nella consapevolezza che dinanzi a problemi di tale complessità e rilievo, l’impegno pubblico delle leadership e dei governi deve puntare non già a vellicare l’umore del pubblico ma a rasserenare il Paese indicando con saggezza la via migliore da seguire.
Proviamo a immaginare l’impossibile. L’Italia privata all’improvviso dei cinque milioni di cittadini immigrati residenti nelle nostre regioni, città, borgate. Sarebbe la paralisi. Lo sbandamento di milioni di famiglie dove spesso una tata o una badante fanno andare avanti le cose e la vita. Migliaia di piccole imprese del Nord non aprirebbero i battenti. E l’agricoltura, l’edilizia, mille altre attività entrerebbero in debito d’ossigeno, come succede all’atleta quando non ce la fa più. Perché questa è l’Italia oggi. Una grande società «aperta», plurale, multietnica. Una comunità qualitativamente diversa da prima, da com’era venti o dieci anni fa. Abbiamo imparato ad accogliere, questa è la verità. E per fortuna. Dopo aver tanto «ceduto» nel passato — si sono calcolati venticinque milioni di partenze, non tutte definitive, dall’unità d’Italia agli anni Settanta del secolo scorso — siamo divenuti terra di riferimento. Di approdo. Di sbarchi e di speranze. Possiamo dolercene a parole, ma nei fatti questa nuova realtà è un patrimonio già oggi essenziale e del quale non potremmo, neanche volendolo, fare a meno. Il problema allora — perché un problema c’è — è dotare lo Stato, la comunità, di un sistema di regole certe, capaci di superare la logica dell’emergenza costante dove la propaganda di parte, o ideologica, maschera l’inefficacia della politica. L’immigrazione, questo dovrebbe esser chiaro da tempo, non è un malanno passeggero, ma uno dei tanti attori di un mutamento epocale destinato a durare a lungo. Tra poche decine d’anni, un miliardo e mezzo di persone vivranno «altrove». Lontano dal loro Paese. Allora non solo è legittimo ma doveroso chiederci se basta proteggere il nostro fortino assediato o se non stiamo rinunciando a governare cambiamenti della società destinati a compiersi, spesso in un contesto di conflitti e paure. La sfida vera è fondare un modello di convivenza in grado di reggere l’urto del futuro. Un modello valido per noi e per chi verrà dopo di noi. Si va invece sulla strada sbagliata se si sceglie — come si è ora scelto in Italia — di gridare all’Europa e al mondo l’intenzione di contrastare l’immigrazione illegale, anche al prezzo di penalizzare quella legale, di rendere più difficili i ricongiungimenti, l’accesso alla cittadinanza, aumentando i costi del soggiorno e paralizzando i flussi di ingresso degli immigrati regolari. Per combattere la clandestinità si è puntato sulle forze di Polizia, sui militari e sulle ronde, fino al coinvolgimento di presidi e insegnanti, medici, infermieri, ufficiali dell’anagrafe, nell’idea scomposta di una rimozione di tutele e diritti essenziali come leva securitaria per fermare ovunque gli immigrati senza permesso. Tutto questo, si dice, agisce nelle corde dei cittadini che non sopportano più l’invasione disordinata di persone «fuori legge». Può darsi che i sondaggi confortino questa tesi. E tuttavia, attenzione. Perché chi esercita responsabilità pubbliche ha il dovere politico e morale di non parlare soltanto alle emozioni. Dati alla mano, «il re è nudo», nel senso che esasperando la paura, si produce un nemico ma non si risolve il problema. È un fatto che nell’ultimo anno gli sbarchi sulle nostre coste siano notevolmente aumentati. Né la voce grossa, né la durezza delle misure hanno impedito gli arrivi via mare: 36.951 nel 2008 rispetto ai 20.455 del 2007 e ai 22.016 del 2006. Con una ulteriore crescita nei primi mesi del 2009. È una tragica contabilità, lo sappiamo. Ma spiega perché non basta una logica repressiva a governare quei flussi. E conferma l’assurdità delle critiche di «buonismo» rivolte al precedente governo. I due anni di Prodi sono stati pochi, troppo pochi, per condurre il Paese fuori dall’emergenza con una legge sull’immigrazione strutturale, fatta di regole praticabili sugli ingressi e sul soggiorno regolari. In quella fase però non è mai stata in discussione la durezza contro i criminali. Con risultati importanti che hanno sgominato bande e organizzazioni attive nello sfruttamento della prostituzione, del lavoro nero, di traffici illegali. Il tutto anche attraverso interventi tesi a dare più strumenti di indagine e intervento alle forze dell’ordine. L’impegno contro il traffico degli esseri umani tra la Libia e l’Italia ha prodotto un aumento degli arresti e dei mezzi sequestrati. Sono state adottate nuove procedure per identificare lo straniero criminale ancora in carcere ed espellerlo appena espiata la pena. Insomma due anni, per quanto pochi, sono serviti ad avviare un progetto di governo dell’immigrazione in linea col resto dell’Unione Europea. Un «approccio globale», un’offerta di politiche integrate condivise con i Paesi di origine e anche di ritorno dei migranti. Una collaborazione inedita dei ministeri dell’Interno e degli Esteri ha avuto riflessi positivi sul contrasto all’immigrazione illegale. Forse sono aspetti non inutili da rammentare oggi. Il 29 dicembre 2007, il ministro dell’Interno italiano siglò, a Tripoli, con il suo corrispondente libico, un Protocollo di cooperazione tra i due Paesi «per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina». Quell’accordo prevedeva un pattugliamento marittimo congiunto davanti alle coste libiche per contrastare la partenza dei natanti e bloccare il traffico degli esseri umani. Il Trattato di amicizia tra Italia e Libia, del 30 agosto scorso e di recente ratificato dal Parlamento, ha assunto quel Protocollo tra i contenuti necessari della collaborazione nella lotta all’immigrazione clandestina. Bisogna però ricordare che né il Protocollo né il Trattato contengono disposizioni per rimandare in Libia gli immigrati soccorsi dall’Italia in acque internazionali: a riguardo, il governo italiano ha strumentalmente usato quegli accordi per rifiutare il proprio aiuto a donne, uomini e minori che avrebbe comunque potuto respingere dopo avere verificato la presenza tra loro di vittime di tratta o di richiedenti asilo in possesso dei requisiti necessari. Come del resto previsto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E ancora, l’approccio globale di cui si è detto, ha prodotto nel gennaio del 2007 la firma di un accordo di riammissione tra l’Italia e l’Egitto. Ne sta ricevendo vantaggio il Governo attuale che può operare con voli diretti verso il Cairo per il rimpatrio dei cittadini egiziani sbarcati sulle nostre coste. Gli accordi di riammissione servono, dunque, al Paese di destinazione degli immigrati e al Paese d’origine. In un quadro integrato di azioni accelerano le procedure di accertamento e di rilascio dei documenti degli immigrati espulsi o respinti alla frontiera. Fino al 2007 l’Italia ha firmato trenta accordi di riammissione. Ventuno di questi recano le firme di ministri del centrosinistra. Nel gennaio scorso, la massiccia presenza a Lampedusa di migranti irregolari provenienti dalla Tunisia e le difficoltà del loro rimpatrio hanno evidenziato che l’accordo di riammissione con quel Paese non sta funzionando. È credibile che questo possa accadere, che la collaborazione, nel tempo, vada aggiornata, verificata, rifinanziata, che si debba giungere alla firma di nuovi accordi per garantire la sostenibilità dei percorsi migratori. Parallelamente devono procedere gli aiuti per lo sviluppo economico, bisogna concordare gli ingressi per motivi di lavoro, le azioni congiunte contro la criminalità e lo sfruttamento, il ritorno degli immigrati overstayers che rappresentano i due terzi delle presenze irregolari sul nostro territorio. Questa, a nostro avviso, rimane la sola seria strategia da perseguire se l’obiettivo è un contrasto dell’immigrazione clandestina fondato sulla legalità, sulla sicurezza e sul rispetto fondamentale dei diritti umani. Sempre, in qualunque emergenza o contesto. Nella consapevolezza che dinanzi a problemi di tale complessità e rilievo, l’impegno pubblico delle leadership e dei governi deve puntare non già a vellicare l’umore del pubblico ma a rasserenare il Paese indicando con saggezza la via migliore da seguire.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento