I giornali di ieri mattina hanno confermato due cose: che non siamo una dittatura, ma una repubblica delle banane sì. Repubblica con la minuscola, perché ormai la maiuscola spetta di diritto al foglio fondato da Eugenio Scalfari. Che ieri apriva così: «Rai, scoppia la guerra dei direttori». Guerra, addirittura; chissà quanti morti e feriti. Immaginabile la corsa alle edicole dei lettori «republicones» assetati dei pettegolezzi televisivi, perché notoriamente a loro di Fiat, crisi e missili iraniani gliene frega assai meno: infatti sono argomenti che finiscono in titolini da microscopio. E pensare che il presidente Rai, Paolo Garimberti, fino a poche settimane fa era una firma di Repubblica. Sotto la tirannide berlusconiana anche il Riformista, alfiere della sinistra moderata, parla di «guerra» del premier con i giudici e l'opposizione, ma il titolo è gossipparo: «Papi e mamma Rai». «Papi», cioè il Cavaliere secondo Noemi Letizia, si guadagna anche un fotomontaggio dove appare palestratissimo accanto alla scritta «ContuMacho». Più misurata la Stampa, ma attenzione: è soltanto un’apparenza. «Scontro sulle nomine Rai», titola in grande il giornale di casa Agnelli. Se si pensa che due giorni prima il quotidiano di Torino aveva aperto usando la medesima parola, «scontri», per definire la guerriglia urbana scatenata dagli estremisti anti-G8 e le susseguenti cariche della polizia, un certo odore di polvere da sparo lo si annusa anche sfogliando le pagine sabaude.Con sobrietà, l’Unità aggiunge: «Il premier senza vergogna ora prepara un’altra norma giudiziaria ad personam», a corredo di un monoscopio Rai a tutta pagina. Capito il giochino per veri intenditori? Monoscopio uguale monopolio uguale dispotismo giudiziario. E poi dicono che i giornali sono in crisi. Non c’è bisogno di ricordare che la poltrona più importante del Tg1 cambia ogni volta che gira il vento elettorale, chiunque vinca: lamentarsi di Minzolini o Mazza ignorando Riotta, Lerner, Borrelli, Brancoli (sarebbe lungo l’elenco delle nomine fatte da Prodi, D’Alema e Amato), oppure l’andata in politica e ritorno dei vari Santoro, Gruber, Badaloni, è pura ipocrisia. «Ubbidi-Rai», strilla invece il Manifesto: titolo scontato sulla falsariga di un vecchio tormentone ormai logoro (mange-rai per gli sprechi, rube-rai per gli scandali, e via ricordando). Dittatura capitolo due. Caso Mills. Sul Messaggero, il dalemiano Nicola Latorre si sgola invano: «Dobbiamo sfidare Silvio sulla crisi, non sulle vicende giudiziarie». Forza compagno Latorre, siamo tutti con te. Non però Franceschini, che su tutte le prime pagine piagnucola: «Caro Silvio fatti giudicare, ora basta col vittimismo». L’Unità, preoccupatissima, assicura che «è in arrivo la norma che cancella tutte le prove» e per evitare interpretazioni equivoche precisa che «se c’è il corrotto c’è anche il corruttore». La sempre austera Stampa ammonisce, per l’autorevole penna di Carlo Federico Grosso, che «l’arbitro non va mai fischiato»: l’arbitro sarebbero i giudici. Dal Corriere della Sera, tramite il giurista Vittorio Grevi, arriva il consiglio al premier di «fare ogni sforzo per potersi difendere senza indugio in giudizio» rinunciando «alla temporanea immunità assicuratagli dal lodo Alfano». Tradotto: fatti massacrare. Repubblica rispolvera Alexander Stille, lo studioso italo-americano zittito perfino da Michele Santoro ad Annozero. Egli coraggiosamente denuncia che «quando il tribunale di Milano emanò (seppure senza motivazione scritta) la sentenza di condanna, quasi tutti i giornali e tutti i telegiornali la trattarono come un piccolo fatto di cronaca privo di significato politico». Oibò, professor Stille, lei forse ignora che quasi tutte le sentenze vengono emesse senza motivazione scritta e che i giudici hanno 90 giorni di tempo per depositarle? Quelli di Milano li hanno sfruttati fino all’ultimo minuto utile, visto che la loro sentenza risale al 17 febbraio scorso. Oggi Stille scrive non di una nuova sentenza, ma delle motivazioni. Ma poi: è proprio vero che il satrapo Silvio Berlusconi riuscì a far passare sotto silenzio la condanna dell’avvocato David Mills? Verifichiamo. Prime pagine del 18 febbraio: la notizia appare dappertutto, dall’Avvenire al Manifesto (un raffinato «Beverly Mills», che riecheggia nell’ammiccante «Le Mills e una notte» del Riformista odierno). Purtroppo per Stille, quel giorno di febbraio primeggiava una notiziola un tantino più importante, cioè le dimissioni di Walter Veltroni dopo la Waterloo di Renato Soru in Sardegna, altrimenti sai i titoloni. Mills il corrotto si guadagnò comunque una bella fetta di rassegna stampa, altro che «piccolo fatto di cronaca», con titoli e argomenti esattamente uguali a quelli odierni. Compresa l’immancabile articolessa del giorno dopo di Alex Stille che su Repubblica del 19 febbraio pontificava sul seguente tema: «Se il caso Mills fosse scoppiato in Usa». Se questa è dittatura...
venerdì 22 maggio 2009
Regime? Dove e quando...
Una tempesta di carta sui casi Rai e Mills Se questo è un regime... di Stefano Filippi
I giornali di ieri mattina hanno confermato due cose: che non siamo una dittatura, ma una repubblica delle banane sì. Repubblica con la minuscola, perché ormai la maiuscola spetta di diritto al foglio fondato da Eugenio Scalfari. Che ieri apriva così: «Rai, scoppia la guerra dei direttori». Guerra, addirittura; chissà quanti morti e feriti. Immaginabile la corsa alle edicole dei lettori «republicones» assetati dei pettegolezzi televisivi, perché notoriamente a loro di Fiat, crisi e missili iraniani gliene frega assai meno: infatti sono argomenti che finiscono in titolini da microscopio. E pensare che il presidente Rai, Paolo Garimberti, fino a poche settimane fa era una firma di Repubblica. Sotto la tirannide berlusconiana anche il Riformista, alfiere della sinistra moderata, parla di «guerra» del premier con i giudici e l'opposizione, ma il titolo è gossipparo: «Papi e mamma Rai». «Papi», cioè il Cavaliere secondo Noemi Letizia, si guadagna anche un fotomontaggio dove appare palestratissimo accanto alla scritta «ContuMacho». Più misurata la Stampa, ma attenzione: è soltanto un’apparenza. «Scontro sulle nomine Rai», titola in grande il giornale di casa Agnelli. Se si pensa che due giorni prima il quotidiano di Torino aveva aperto usando la medesima parola, «scontri», per definire la guerriglia urbana scatenata dagli estremisti anti-G8 e le susseguenti cariche della polizia, un certo odore di polvere da sparo lo si annusa anche sfogliando le pagine sabaude.Con sobrietà, l’Unità aggiunge: «Il premier senza vergogna ora prepara un’altra norma giudiziaria ad personam», a corredo di un monoscopio Rai a tutta pagina. Capito il giochino per veri intenditori? Monoscopio uguale monopolio uguale dispotismo giudiziario. E poi dicono che i giornali sono in crisi. Non c’è bisogno di ricordare che la poltrona più importante del Tg1 cambia ogni volta che gira il vento elettorale, chiunque vinca: lamentarsi di Minzolini o Mazza ignorando Riotta, Lerner, Borrelli, Brancoli (sarebbe lungo l’elenco delle nomine fatte da Prodi, D’Alema e Amato), oppure l’andata in politica e ritorno dei vari Santoro, Gruber, Badaloni, è pura ipocrisia. «Ubbidi-Rai», strilla invece il Manifesto: titolo scontato sulla falsariga di un vecchio tormentone ormai logoro (mange-rai per gli sprechi, rube-rai per gli scandali, e via ricordando). Dittatura capitolo due. Caso Mills. Sul Messaggero, il dalemiano Nicola Latorre si sgola invano: «Dobbiamo sfidare Silvio sulla crisi, non sulle vicende giudiziarie». Forza compagno Latorre, siamo tutti con te. Non però Franceschini, che su tutte le prime pagine piagnucola: «Caro Silvio fatti giudicare, ora basta col vittimismo». L’Unità, preoccupatissima, assicura che «è in arrivo la norma che cancella tutte le prove» e per evitare interpretazioni equivoche precisa che «se c’è il corrotto c’è anche il corruttore». La sempre austera Stampa ammonisce, per l’autorevole penna di Carlo Federico Grosso, che «l’arbitro non va mai fischiato»: l’arbitro sarebbero i giudici. Dal Corriere della Sera, tramite il giurista Vittorio Grevi, arriva il consiglio al premier di «fare ogni sforzo per potersi difendere senza indugio in giudizio» rinunciando «alla temporanea immunità assicuratagli dal lodo Alfano». Tradotto: fatti massacrare. Repubblica rispolvera Alexander Stille, lo studioso italo-americano zittito perfino da Michele Santoro ad Annozero. Egli coraggiosamente denuncia che «quando il tribunale di Milano emanò (seppure senza motivazione scritta) la sentenza di condanna, quasi tutti i giornali e tutti i telegiornali la trattarono come un piccolo fatto di cronaca privo di significato politico». Oibò, professor Stille, lei forse ignora che quasi tutte le sentenze vengono emesse senza motivazione scritta e che i giudici hanno 90 giorni di tempo per depositarle? Quelli di Milano li hanno sfruttati fino all’ultimo minuto utile, visto che la loro sentenza risale al 17 febbraio scorso. Oggi Stille scrive non di una nuova sentenza, ma delle motivazioni. Ma poi: è proprio vero che il satrapo Silvio Berlusconi riuscì a far passare sotto silenzio la condanna dell’avvocato David Mills? Verifichiamo. Prime pagine del 18 febbraio: la notizia appare dappertutto, dall’Avvenire al Manifesto (un raffinato «Beverly Mills», che riecheggia nell’ammiccante «Le Mills e una notte» del Riformista odierno). Purtroppo per Stille, quel giorno di febbraio primeggiava una notiziola un tantino più importante, cioè le dimissioni di Walter Veltroni dopo la Waterloo di Renato Soru in Sardegna, altrimenti sai i titoloni. Mills il corrotto si guadagnò comunque una bella fetta di rassegna stampa, altro che «piccolo fatto di cronaca», con titoli e argomenti esattamente uguali a quelli odierni. Compresa l’immancabile articolessa del giorno dopo di Alex Stille che su Repubblica del 19 febbraio pontificava sul seguente tema: «Se il caso Mills fosse scoppiato in Usa». Se questa è dittatura...
I giornali di ieri mattina hanno confermato due cose: che non siamo una dittatura, ma una repubblica delle banane sì. Repubblica con la minuscola, perché ormai la maiuscola spetta di diritto al foglio fondato da Eugenio Scalfari. Che ieri apriva così: «Rai, scoppia la guerra dei direttori». Guerra, addirittura; chissà quanti morti e feriti. Immaginabile la corsa alle edicole dei lettori «republicones» assetati dei pettegolezzi televisivi, perché notoriamente a loro di Fiat, crisi e missili iraniani gliene frega assai meno: infatti sono argomenti che finiscono in titolini da microscopio. E pensare che il presidente Rai, Paolo Garimberti, fino a poche settimane fa era una firma di Repubblica. Sotto la tirannide berlusconiana anche il Riformista, alfiere della sinistra moderata, parla di «guerra» del premier con i giudici e l'opposizione, ma il titolo è gossipparo: «Papi e mamma Rai». «Papi», cioè il Cavaliere secondo Noemi Letizia, si guadagna anche un fotomontaggio dove appare palestratissimo accanto alla scritta «ContuMacho». Più misurata la Stampa, ma attenzione: è soltanto un’apparenza. «Scontro sulle nomine Rai», titola in grande il giornale di casa Agnelli. Se si pensa che due giorni prima il quotidiano di Torino aveva aperto usando la medesima parola, «scontri», per definire la guerriglia urbana scatenata dagli estremisti anti-G8 e le susseguenti cariche della polizia, un certo odore di polvere da sparo lo si annusa anche sfogliando le pagine sabaude.Con sobrietà, l’Unità aggiunge: «Il premier senza vergogna ora prepara un’altra norma giudiziaria ad personam», a corredo di un monoscopio Rai a tutta pagina. Capito il giochino per veri intenditori? Monoscopio uguale monopolio uguale dispotismo giudiziario. E poi dicono che i giornali sono in crisi. Non c’è bisogno di ricordare che la poltrona più importante del Tg1 cambia ogni volta che gira il vento elettorale, chiunque vinca: lamentarsi di Minzolini o Mazza ignorando Riotta, Lerner, Borrelli, Brancoli (sarebbe lungo l’elenco delle nomine fatte da Prodi, D’Alema e Amato), oppure l’andata in politica e ritorno dei vari Santoro, Gruber, Badaloni, è pura ipocrisia. «Ubbidi-Rai», strilla invece il Manifesto: titolo scontato sulla falsariga di un vecchio tormentone ormai logoro (mange-rai per gli sprechi, rube-rai per gli scandali, e via ricordando). Dittatura capitolo due. Caso Mills. Sul Messaggero, il dalemiano Nicola Latorre si sgola invano: «Dobbiamo sfidare Silvio sulla crisi, non sulle vicende giudiziarie». Forza compagno Latorre, siamo tutti con te. Non però Franceschini, che su tutte le prime pagine piagnucola: «Caro Silvio fatti giudicare, ora basta col vittimismo». L’Unità, preoccupatissima, assicura che «è in arrivo la norma che cancella tutte le prove» e per evitare interpretazioni equivoche precisa che «se c’è il corrotto c’è anche il corruttore». La sempre austera Stampa ammonisce, per l’autorevole penna di Carlo Federico Grosso, che «l’arbitro non va mai fischiato»: l’arbitro sarebbero i giudici. Dal Corriere della Sera, tramite il giurista Vittorio Grevi, arriva il consiglio al premier di «fare ogni sforzo per potersi difendere senza indugio in giudizio» rinunciando «alla temporanea immunità assicuratagli dal lodo Alfano». Tradotto: fatti massacrare. Repubblica rispolvera Alexander Stille, lo studioso italo-americano zittito perfino da Michele Santoro ad Annozero. Egli coraggiosamente denuncia che «quando il tribunale di Milano emanò (seppure senza motivazione scritta) la sentenza di condanna, quasi tutti i giornali e tutti i telegiornali la trattarono come un piccolo fatto di cronaca privo di significato politico». Oibò, professor Stille, lei forse ignora che quasi tutte le sentenze vengono emesse senza motivazione scritta e che i giudici hanno 90 giorni di tempo per depositarle? Quelli di Milano li hanno sfruttati fino all’ultimo minuto utile, visto che la loro sentenza risale al 17 febbraio scorso. Oggi Stille scrive non di una nuova sentenza, ma delle motivazioni. Ma poi: è proprio vero che il satrapo Silvio Berlusconi riuscì a far passare sotto silenzio la condanna dell’avvocato David Mills? Verifichiamo. Prime pagine del 18 febbraio: la notizia appare dappertutto, dall’Avvenire al Manifesto (un raffinato «Beverly Mills», che riecheggia nell’ammiccante «Le Mills e una notte» del Riformista odierno). Purtroppo per Stille, quel giorno di febbraio primeggiava una notiziola un tantino più importante, cioè le dimissioni di Walter Veltroni dopo la Waterloo di Renato Soru in Sardegna, altrimenti sai i titoloni. Mills il corrotto si guadagnò comunque una bella fetta di rassegna stampa, altro che «piccolo fatto di cronaca», con titoli e argomenti esattamente uguali a quelli odierni. Compresa l’immancabile articolessa del giorno dopo di Alex Stille che su Repubblica del 19 febbraio pontificava sul seguente tema: «Se il caso Mills fosse scoppiato in Usa». Se questa è dittatura...
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