domenica 24 maggio 2009

Unhcr

L'Onu critica l'Italia ma nei suoi campi si muore di fame di Emanuela Fontana

Roma - Vivono sotto gli alberi, si costruiscono capanne di fango. Con la poca acqua a disposizione, devono scegliere se bere o lavarsi. Uno su quattro soffre di malnutrizione grave. Le infezioni si annidano nelle baracche ed è sempre più difficile curarle. Le scorte di magazzino si sono ridotte del trenta per cento. Si vive nella sporcizia, con la debolezza della fame e le labbra secche per la sete. I campi profughi dell’Onu di Dagahaley, Ifo e Hagadera, in Kenya, sono adesso più pericolosi della guerra.Erano stati progettati per accogliere al massimo novantamila persone, ma ora qui vivono 270mila adulti e bambini. Sono i somali in fuga dalla guerra di Mogadiscio. Ne stanno arrivando 5mila al mese. Scappano e rischiano la vita per raggiungere Dadaab, città al confine tra Kenya e Somalia dove l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) sta gestendo la più grande «bomba a orologeria», come la chiama Medici senza frontiere, dell’Africa centrale.Questa è l’emergenza dimenticata. Nessuno si è accorto che mentre in Italia si litigava sull’asilo ai clandestini respinti con le motovedette, mentre ci si domandava (giustamente) perché l’Europa e l’Onu non avessero allestito in Libia strutture per identificare i rifugiati invece di affidarli ai criminali e ai venti del mare, mentre l’Alto commissariato per i rifugiati accusava Roma di non tutelare chi chiede protezione, Medici senza frontiere implorava le Nazioni Unite e il mondo di guardare più in giù, lì dove parte uno dei grandi esodi dell’Africa che piange: ai profughi che hanno paura di morire di consunzione nei campi umanitari. «La situazione è semplicemente scandalosa – afferma Joke van Peteghem, capo missione Msf in Kenya –. Questi rifugiati hanno rischiato la vita per fuggire dal conflitto in Somalia e ora alcuni di loro ci dicono che preferiscono sfidare la sorte a Mogadiscio piuttosto che morire lentamente qui. C’è bisogno di intervenire subito!». La sezione italiana di Medici senza frontiere ha diramato cinque giorni fa un comunicato preoccupante: «Molti considerano il ritorno nelle zone dei combattimenti perché qui mancano cibo e acqua». Un’indagine nel campo di Dagahaley ha registrato «una percentuale del 22,3% di malnutrizione grave tra i civili». I governi del mondo sono insensibili, o l’Unhcr non sa gestire, ma la realtà è che quasi 70mila esuli lottano contro la fame. Nella miseria dei tre villaggi abitano i profughi della prima e della seconda guerra somala: quelli scappati in Kenya già 18 anni fa e i 50mila che dall’inizio del 2008 hanno cercato riparo dagli scontri tra il governo provvisorio e i ribelli. Dimenticati dai media, denuncia Medici senza frontiere Italia, e da chi dovrebbe salvarli: «Msf chiede all’Unhcr, ai donatori internazionali e al governo keniota di rispondere urgentemente alla mancanza di assistenza per i rifugiati e di provvedere alle terribili condizioni di vita nei campi». L’Alto commissario per i rifugiati, Antonio Guterres, era stato in visita a Dadaab nel mese di giugno e aveva «promesso ai residenti», secondo quanto si legge in un report dell’agenzia Onu, che l’Unhcr avrebbe avviato «subito un’azione per migliorare le condizioni di vita generali di una comunità di rifugiati che ha già sofferto fin troppo». E invece, racconta Donna Canali, un’infermiera che ha appena concluso il suo incarico a Dadaab, «i rifugiati, molti dei quali sono malati, sono stipati nei campi senza il minimo indispensabile alla sopravvivenza». L’Unhcr risponde che il problema sono le «gravi ristrettezze» economiche: la disponibilità è di «16,5 milioni di dollari», quando l’appello ai donatori era stato per «91,6 milioni». Quello che è certo è che i somali che raggiungono la Libia e magari provano a sognare l’Europa, non scappano solo dalla guerra, ma da questi campi dove la vita è come quella delle bestie: che sia colpa dell’Onu, o dei donatori, l’esodo verso il mare parte anche da qui, Dadaab, la bomba che sta per scoppiare.

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