venerdì 22 maggio 2009

Berlino e i musulmani

Berlino, nel quartiere di Neukölln dove 139 popoli non si parlano. Il disagio del sindaco socialdemocratico: costretto alla tolleranza zero

BERLINO — No, non è il Bronx. «Perché la Ger­mania non è l’America — dice Victoria Reichardt —. E Berlino non è New York». Neukölln — 300 mila abitanti, distretto meticcio nel cuore della ca­pitale tedesca — in effetti non ha segni particola­ri. Ci sono gli alberi, tanti, le strade sono pulite, le case sembrano decenti, i ristoranti etnici accetta­bili. Non siamo in un ghetto. Siamo però nel re­gno dell’autoisolamento, delle comunità chiuse: turchi con turchi, tamil con tamil, arabi con arabi e via dicendo per 139 etnie. Integrazione mancata da Ventunesimo Secolo, muri, degrado, subcultu­re e conflitti coperti dallo Stato sociale che dipin­ge i condomini. Sotto la crosta urbana, umanità alla deriva.A pochi metri dal Quartiersmanagement, l’Uffi­cio per l’integrazione sulla Schillerpromenade do­ve Victoria lavora, lo slang dei ragazzini, dieci-do­dici anni, è inconfondibile: frasi incomplete, moz­ziconi, interrotte dal flusso continuo del ficken, versione locale del bronxiano fucking. Dalle case, spesso le ragazze non possono uscire da sole, i pa­dri non hanno mai capito perché dovrebbero mandarle a scuola. Molte donne, coperte, cammi­nano qualche passo dietro all’uomo. La criminali­tà è del 40% più alta che nel resto di Berlino. «Qui, alcuni vivono come nel Medioevo», ammet­te Heinz Buschkowsky, il sindaco di Neukölln, un socialdemocratico che, anche tra l’orrore del suo partito, ha deciso di usare gli strumenti «dolci» di integrazione ma anche la mano dura contro il peg­gio di quel che succede dietro le facciate per bene dei condomini.Per l’intero distretto, i numeri sono preoccu­panti. Ma nella parte Nord di Neukölln diventano impressionanti. Su 160 mila abitanti, più della metà sono immigrati legali e un altro 10% illegali: il 40% turchi, il 12% arabi, l'11% polacchi, il 10% viene dagli Stati della ex Jugoslavia, l'8% dalla Rus­sia e un buon numero sono anche i senza patria, per lo più palestinesi. Ogni quattro ragazzi, tre la­sciano la scuola senza un certificato di frequenza o con quello minimo. Alle elementari, il 95% dei bambini non parla il tedesco come madre lingua, e molti non lo parlano proprio. Nell’analisi che ne hanno fatto il Consiglio d’Europa e l’Unione euro­pea: «Violenza giovanile, alto tasso di cri­minalità, mancanza di competenze lingui­stiche per molti giovani, conseguenti catti­vi risultati scolastici, scolarità incompleta, di­soccupazione di lungo termine, comunità che si chiudono su se stesse con sempre minore co­municazione con la società tedesca, crimini d’ono­re, matrimoni forzati, isolamento femminile». Non è il Bronx, perché giocano peggio a basket. «Ci sono situazioni difficilissime — spiega Alix Rehlinger, responsabile dei progetti sociali di una zona di Neukölln —. I palestinesi che stanno qui, per esempio, non sono gli intellettuali di Parigi e di Londra. Sono persone che hanno passato gran parte della loro vita nei campi Onu in Libano: non hanno mai lavorato, non sono andati a scuola». «Povertà, ignoranza e fondamentalismo risultano in fenomeni insopportabili per la società», dice il sindaco Buschkowsy. Il problema numero uno, continua a ripetere, è l’educazione, la scuola: «Non è tanto il fatto che un cittadino educato non butta i rifiuti dal settimo piano; serve soprattutto a dare alle persone coscienza di se stesse, di quel­lo che hanno raggiunto nella vita. Qualcosa che non può essere sostituito dal Welfare State, che serve solo a dare da mangiare e da bere». Educazione è parola che vola a Neukölln. Solo tra i tedeschi, però. Convincere i gruppi immigrati è un’altra cosa. La signora Rehlinger racconta un progetto tra i più creativi di quelli in corso: Stadt­teilmutter, mamma di quartiere. «Organizziamo con le donne dei corsi di sei mesi. Insegniamo lo­ro come approcciare le famiglie, come parlare con le altre madri per convincerle a insegnare ai bam­bini il tedesco prima che vadano a scuola, come spiegare l’importanza dell’educazione. Poi, si de­vono cercare da sole i 'clienti' e entrare nelle case. Noi assicuriamo un certo stipendio. Ai corsi han­no partecipato finora 154 donne e 107 di queste lavorano: hanno visitato 1.500 famiglie, in ciascu­na delle quali sono andate dieci volte, un tema di­verso ogni volta». Anche nel Quartiersmanagement di Schiller­promenade, Victoria Reichardt, Antje Schmücker e Garip Alkas raccontano i loro interventi sociali, finanziati dalla Ue, dallo Stato e dalla città di Berli­no, e le collaborazioni tra le chiese cristiane e la moschea. Il problema, sa bene il sindaco Bu­schkowsky, è però la risposta delle comuni­tà chiuse in se stesse. E la maniera in cui superare i muri. Un anno fa, quando è tor­nato da una visita di studio a Rotterdam, voleva tenere una conferenza per dire che nella città olandese la polizia va nelle case a prendere i bambini che non vengono mandati a scuola e ce li porta. Il suo partito non ha voluto: politicamente scorrettissimo. «Non mi piace usare la parola forza — dice og­gi —. Ma quando si parla di scuola, esiste un obbligo e lo Stato deve intervenire. E in questo caso sì che uso la parola forza: con la forza deve intervenire». Qui, Germania moderna, lo Stato Sociale c’è ancora, le strade sono linde. Ma con il sotto-sot­to- proletariato, come lo chiama il sindaco, il sus­sidio di disoccupazione non cambia nulla. Me­glio un poliziotto che prende il bambino per ma­no e lo porta a scuola. Nemmeno fosse il Bronx.

Taino Danilo

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