Per far fronte alla crisi le imprese lombarde vanno a scuola di Islam. Se l'obiettivo che vogliono raggiungere è quello di sbarcare sui mercati dei Paesi musulmani - un bacino di 1,5 miliardi di persone e ad alto tasso di crescita - le aziende di casa nostra devono tenere conto di una serie di informazioni. Non ci sono solo i dettami, noti ai più, sulla carne di suino o sul consumo degli alcolici. Sapevate, tanto per fare un esempio, che un musulmano praticante non può mangiare uno spuntino che, dalla fabbrica al negozio, sia stato trasportato vicino a del tabacco? E non è solo questione di alimenti. Le donne islamiche non possono truccarsi con prodotti di cosmesi che contengano grassi animali o testati su cavie da laboratorio. Per discutere di questi temi l'Unione degli Industriali della Provincia di Varese e l'Unità di Studi su Tecnologia, Innovazione e Sostenibilità dell'Università Carlo Cattaneo (Liuc) di Castellanza hanno organizzato ieri un convegno sul tema «Innovazione e marketing per i mercati islamici». Il tema è molto sentito dagli imprenditori lombardi: limitandosi alla sola provincia di Varese, nel 2008 le esportazioni con destinazione negli Stati a maggioranza islamica hanno toccato un valore di 1,3 miliardi di euro. Senza contare che, nell'attuale realtà multireligiosa, commercializzare prodotti certificati halal, ossia rispondenti ai dettami della Shariah, la legge islamica, è una scelta vincente anche sul mercato interno. «Vendere - ha spiegato Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica Italiana - diventa quindi un'operazione innanzitutto culturale, che in quanto tale deve sottostare a regole ben precise». Alcuni consigli per i titolari delle aziende italiane che vogliono espandersi in Medio Oriente: non vendere sottocosto, perché vietato dalla Shariah; proporre un primo campione gratuito, sempre molto apprezzato dai musulmani; non associare mai un nome o un marchio a concetti religiosi, ritenuto altamente offensivo. Ma soprattutto realizzare prodotti veramente calati nella cultura islamica, come la bambola Fulla, prodotta dalla Dubai New Boy, concorrente di Barbie e rigorosamente coperta da un burqa nero.
domenica 5 luglio 2009
Islamicamente corretto
Lezioni di Corano per conquistare i mercati islamici
Per far fronte alla crisi le imprese lombarde vanno a scuola di Islam. Se l'obiettivo che vogliono raggiungere è quello di sbarcare sui mercati dei Paesi musulmani - un bacino di 1,5 miliardi di persone e ad alto tasso di crescita - le aziende di casa nostra devono tenere conto di una serie di informazioni. Non ci sono solo i dettami, noti ai più, sulla carne di suino o sul consumo degli alcolici. Sapevate, tanto per fare un esempio, che un musulmano praticante non può mangiare uno spuntino che, dalla fabbrica al negozio, sia stato trasportato vicino a del tabacco? E non è solo questione di alimenti. Le donne islamiche non possono truccarsi con prodotti di cosmesi che contengano grassi animali o testati su cavie da laboratorio. Per discutere di questi temi l'Unione degli Industriali della Provincia di Varese e l'Unità di Studi su Tecnologia, Innovazione e Sostenibilità dell'Università Carlo Cattaneo (Liuc) di Castellanza hanno organizzato ieri un convegno sul tema «Innovazione e marketing per i mercati islamici». Il tema è molto sentito dagli imprenditori lombardi: limitandosi alla sola provincia di Varese, nel 2008 le esportazioni con destinazione negli Stati a maggioranza islamica hanno toccato un valore di 1,3 miliardi di euro. Senza contare che, nell'attuale realtà multireligiosa, commercializzare prodotti certificati halal, ossia rispondenti ai dettami della Shariah, la legge islamica, è una scelta vincente anche sul mercato interno. «Vendere - ha spiegato Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica Italiana - diventa quindi un'operazione innanzitutto culturale, che in quanto tale deve sottostare a regole ben precise». Alcuni consigli per i titolari delle aziende italiane che vogliono espandersi in Medio Oriente: non vendere sottocosto, perché vietato dalla Shariah; proporre un primo campione gratuito, sempre molto apprezzato dai musulmani; non associare mai un nome o un marchio a concetti religiosi, ritenuto altamente offensivo. Ma soprattutto realizzare prodotti veramente calati nella cultura islamica, come la bambola Fulla, prodotta dalla Dubai New Boy, concorrente di Barbie e rigorosamente coperta da un burqa nero.
Per far fronte alla crisi le imprese lombarde vanno a scuola di Islam. Se l'obiettivo che vogliono raggiungere è quello di sbarcare sui mercati dei Paesi musulmani - un bacino di 1,5 miliardi di persone e ad alto tasso di crescita - le aziende di casa nostra devono tenere conto di una serie di informazioni. Non ci sono solo i dettami, noti ai più, sulla carne di suino o sul consumo degli alcolici. Sapevate, tanto per fare un esempio, che un musulmano praticante non può mangiare uno spuntino che, dalla fabbrica al negozio, sia stato trasportato vicino a del tabacco? E non è solo questione di alimenti. Le donne islamiche non possono truccarsi con prodotti di cosmesi che contengano grassi animali o testati su cavie da laboratorio. Per discutere di questi temi l'Unione degli Industriali della Provincia di Varese e l'Unità di Studi su Tecnologia, Innovazione e Sostenibilità dell'Università Carlo Cattaneo (Liuc) di Castellanza hanno organizzato ieri un convegno sul tema «Innovazione e marketing per i mercati islamici». Il tema è molto sentito dagli imprenditori lombardi: limitandosi alla sola provincia di Varese, nel 2008 le esportazioni con destinazione negli Stati a maggioranza islamica hanno toccato un valore di 1,3 miliardi di euro. Senza contare che, nell'attuale realtà multireligiosa, commercializzare prodotti certificati halal, ossia rispondenti ai dettami della Shariah, la legge islamica, è una scelta vincente anche sul mercato interno. «Vendere - ha spiegato Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica Italiana - diventa quindi un'operazione innanzitutto culturale, che in quanto tale deve sottostare a regole ben precise». Alcuni consigli per i titolari delle aziende italiane che vogliono espandersi in Medio Oriente: non vendere sottocosto, perché vietato dalla Shariah; proporre un primo campione gratuito, sempre molto apprezzato dai musulmani; non associare mai un nome o un marchio a concetti religiosi, ritenuto altamente offensivo. Ma soprattutto realizzare prodotti veramente calati nella cultura islamica, come la bambola Fulla, prodotta dalla Dubai New Boy, concorrente di Barbie e rigorosamente coperta da un burqa nero.
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