Victor Davis Hanson è più abituato a frequentare Tucidide che i rapporti del dipartimento di stato. Antichista, storico militare, esperto di strategia di guerra, è membro della Hoover Institution e del Claremont Institute, il centro studi che in America raccoglie e diffonde l’eredità intellettuale di Leo Strauss. Ma è anche un assiduo commentatore della National Review e, pur essendo iscritto al Partito democratico, è un conservatore che in passato ha votato per George W. Bush e ha sostenuto la Casa Bianca nella guerra contro i talebani e contro il regime di Saddam Hussein. In questi giorni è in Europa, in viaggio sulle rive del Mediterraneo, Roma, Creta, Atene, con un gruppo di amici della Federalist Society, associazione di repubblicani doc, per illustrare loro l’arte della guerra in occidente attraverso i secoli, da Salamina alla battaglia di Okinawa, e praticare sul campo una difesa dei valori occidentali. Sensibile alla minaccia che pesa sul mondo d’oggi, VDH è convinto che il multiculturalismo sia molto più pericoloso in Europa che negli Stati Uniti, e questo per almeno due ragioni: “In Europa la tradizione aristocratica è molto più forte che in America, perciò da voi l’integrazione e l’assimilazione di nuovi venuti è molto più difficile che da noi”, spiega al Foglio VDH, seduto nei saloni di Villa Grazioli, ex dimora gentilizia sui colli del Tuscolo, citando subito l’esempio di Obama. “Si capisce che Obama rappresenta un modello per la società europea. Personalmente, non credo che l’Europa a breve potrà eleggere una personalità di origine mista al potere supremo. La seconda ragione sta nel fatto che l’economia americana è molto più aperta e più disposta alla mobilità sociale: se dunque il multiculturalismo è una piaga per l’occidente, noi in America siamo più capaci di confondere le distinzioni di classe: un afroamericano, un ispanico, un asiatico può anche insistere sui suoi privilegi restando legato alla sua lingua, alle sue tradizioni religiose, ma sarà molto più disposto all’integrazione e all’assimilazione rispetto a un musulmano alle prese con la stratificazione della vecchia Europa”. Naturalmente, per noi europei c’è anche un problema di identità: “Se voi stessi non sapete chi siete, se voi europei non riuscite a definire la vostra stessa identità in senso culturale, non potete pretendere di spiegarla agli immigrati. Se i primi a non avere fiducia nei vostri princìpi siete voi, per forza di cose finite per creare dei ghetti nelle vostre città, come succede a Berlino e Parigi, per quei musulmani non assimilati che non si sentono parte della cultura europea e, dal punto vista della gerarchia sociale, non si sentono parte della classe operaia. E’ per questo che voi europei cercate di pacificarli, anziché assimilarli ai valori occidentali”. Eppure, se così fosse non si capirebbe il nostro entusiasmo per Obama. Falsa proiezione, replica VDH. “Esiste un desiderio di utopia a basso prezzo. Barack Obama rappresenta un presidente americano che col suo messaggio rassicura voi europei. E infatti è come se vi dicesse: ‘Non avete bisogno di avere a capo del governo un nero, un curdo, un algerino: potete proiettare tutti i vostri sogni su di me. Voi mi apprezzate, mi trattate come se fossi una figura messianica e perciò io vi approvo’. In fondo quest’atteggiamento è la prova dell’esistenza del liberalismo, del progressismo, della tolleranza. Dunque, questo è il vostro ragionamento: noi europei possiamo continuare a vivere così, senza porci il problema dell’integrazione razziale nelle nostre scuole. Ed è lo stesso argomento a spiegare tra l’altro la grande popolarità di cui Obama gode in America. Simbolicamente, è come se dicesse ai genitori: ‘Non abbiamo bisogno di integrare gli stranieri attraverso la scuola, perché in fondo, eleggendo un afroamericano come me alla Casa Bianca, voi avete già dimostrato di essere veramente liberi e democratici’”. In sostanza una proiezione psichica? “E’ una strana psicosi, anzi una condizione psichiatrica in cui la gente proietta su Obama le sue paure, trasformandolo in un totem, e lui in cambio libera i suoi elettori dei loro sensi di colpa”. VDH è molto critico verso la politica di Obama. Le sue sono riserve culturali, prima che strategiche, simboliche oltreché politiche. “Vi sono alcune cose che rendono l’America un paese unico: la libertà, il governo fondato sul consenso, l’economia aperta, la forza propositiva della democrazia nel mondo. Tutto questo ci ha spinti a credere che fosse giusto combattere i talebani, Saddam, Milosevic, Noriega e i dittatori delle ex repubbliche sovietiche. Obama invece è convinto che gli Stati Uniti d’America siano una nazione tra le altre. Lo dimostra la prima intervista rilasciata ad al Arabiya, quando disse che gli Stati Uniti non si erano mostrati sensibili verso i musulmani. Dimentica che l’America è il paese che ha cercato di salvare i musulmani dai sovietici in Afghanistan, li ha salvati da Saddam Hussein in Kuwait, ha cercato di salvarli dalla fame in Somalia, ha denunciato il trattamento al quale sono tenuti per mano dei russi in Cecenia, e per loro ha stanziato 3 miliardi di dollari l’anno”. Per tutte queste ragioni Obama, secondo VDH, è un “opportunista”. E lo storico ricorda l’accordo tacito nel non nominare il suo vero nome per esteso, Barack Hussein Obama, durante la campagna per le presidenziali, e nel glissare sul fatto che il padre del senatore dell’Illinois fosse musulmano. “La prima cosa che ha fatto, appena eletto, è stata presentarsi ad al Arabiya per sottolineare che il suo nome, la religione di suo padre, il suo retroterra non tradizionale gli avrebbero facilitato il compito di entrare in contatto col mondo intero. Ma davvero Obama crede nella trascendenza delle razze e delle religioni? Di fatto, sembra suggerire che il mondo è una tribù, ma che non esistono sufficienti affinità se qualcuno non vuole entrare in contatto con noi per le ragioni giuste. Questo dice Obama sulla scena internazionale. Solo che quando torna a casa, dice una cosa diversa: non vuole che la gente pensi in termini di tribù. In uno dei suoi discorsi più controversi ha citato la nonna, dicendo che era un tipica donna bianca, e ha parlato della passione che la classe media della Pennsylvania nutre per le armi da fuoco e la religione… in fondo, vuole combattere il tribalismo in politica interna, perché si rende conto che sarebbe una scelta razzista e separatista, ma in politica estera tiene un discorso opposto, esaltando il suo retroterra originale, proprio perché convinto che sia utile a trattare con gente che pensa in maniera tribale”.
Da storico militare, esperto nell’arte della guerra, VDH ha spiegato nei suoi saggi (ultimo “l’Arte occidentale della Guerra”, nei tascabili Garzanti) che la supremazia militare occidentale non è frutto di un determinismo casuale, ma è legata agli stessi valori occidentali, ai principi fondamentali dell’occidente. “Noi occidentali, e parlo del mondo comune all’Europa e agli Stati Uniti, siamo forti sul piano economico, militare, culturale e per certi versi sul piano del valori che non hanno nulla a che fare con la geografia, i geni, la razza, ma risalgono agli antichi greci, all’impero romano, al cristianesimo, al Rinascimento e alla Riforma. Ora, io penso che Obama sia completamente dimentico di tutto ciò. Lo ha dimostrato in varie occasioni. Una volta, davanti a un gruppo di giornalisti di colore disse che lui credeva nelle riparazioni, da leader antropologicamente corretto. Un’altra volta disse che c’era bisogno di ulteriori studi sull’oppressione. E parlando di storia europea o americana, c’è chi è pronto a giurare che farebbe rimuovere la statua di Churchill dal suo studio, perché Churchill era un imperialista. Solo che Obama l’imperialismo non sa nemmeno cosa sia stato. Non conosce la storia dell’Europa e degli Stati Uniti; ha un senso infantile dell’evoluzione storica: divide l’umanità tra buoni e cattivi; non pensa che gli uomini si trovino ad affrontare cattive scelte per giuste ragioni, o a compiere buone scelte per ragioni sbagliate; non riuscirebbe mai a sostenere che Montezuma fosse molto più mostruoso di Cortes, così come non può capire cosa abbiano fatto gli africani prima che arrivassero gli europei. Per Obama esiste solo il bianco e nero: non può capire che ci sono problemi molto complessi per i quali non esistono risposte facili. E d’altra parte, lui stesso non ammette di essere il beneficiario di una lunga tradizione occidentale. Leggendo la sua autobiografia, si capisce come la tradizione che Obama sogna è quella di suo padre kenyota, è la tradizione della cultura indigena africana, che purtroppo non ha mai portato da nessuna parte. Libertà, tolleranza, dissenso, eguaglianza tra i sessi, libertà religiosa sono il portato storico della cultura occidentale e sfortunatamente costituiscono valori antitetici a quelli in cui credono il mondo musulmano e la cultura indigena del terzo mondo”. Dunque sbaglia chi sostiene che Obama, primo presidente afroamericano d’America, rappresenti in realtà la quintessenza, anzi la consacrazione dell’uomo bianco e dei suoi valori? “Attenzione – risponde il professore – evitiamo l’accusa di razzismo e parliamo di cultura occidentale. Obama pensa che la storia della cultura occidentale sia in larga parte quella di un ingiusto trattamento imposto alle minoranze, alle donne, ai neri, agli omosessuali. Non capisce che invece è la cultura occidentale l’unica cultura che affronti questi problemi cercando di risolverli. Il senso di marcia dell’umanità è una prerogativa esclusiva alla cultura occidentale: i diritti dei gay non sono riconosciuti in nessun’altra parte del mondo se non in occidente. Ma Obama non lo sa, o meglio non è consapevole, perché non ne ha mai tratto un vantaggio politico: pur avendo studiato in un college delle Hawaii e poi all’Università di Harvard, ha continuato a trafficare nell’industria del biasimo e della vittimizzazione. Del resto, se si guarda alla sua agenda economica si scopre che somiglia molto a quella dell’Europa negli anni Settanta e Ottanta. Obama sembra non rendersi conto di come l’Europa si interroghi da tempo sull’aumento del gettito fiscale, sull’efficacia del sistema pubblico sanitario, della nazionalizzazione di banche e industria, tutte questioni di cui in America oggi si discute in modo molto romantico. L’ironia della storia è che sono stati proprio gli Stati Uniti col loro mercato aperto e con le spese per la difesa ad aver reso possibile l’esperimento socialista in Europa, e ad aver fornito uno scudo per proteggere l’Europa”. Tutto questo ora è superato? Con la fine dell’eccezione americana e del primato universale degli Stati Uniti, l’Europa dovrà forse aspettarsi di veder svanire il suo principale alleato e difensore? “Bisogna stare attenti a quel che Obama vorrà fare” risponde Victor Davis Hanson. “Non sappiamo che cosa farà Obama se in Europa spunterà un nuovo Milosevic, se l’Ucraina farà la fine della Georgia. Non credo che sarà disposto a intervenire contro l’espansione della Russia. Porterà il problema davanti all’assemblea delle Nazioni Unite o invocherà il Tribunale penale internazionale. E’ vero che sinora non ha mai fatto del male a nessuno. Quando era senatore dell’Illinois ha sempre risposto “present”, che in America non vuol dire né sì né no, ma soltanto “sono qui”. Quando è esplosa la crisi in Georgia, il primo giorno ha detto parliamone all’Onu, il secondo ha detto che Georgia e Russia meritavano eguale condanna, il terzo ha spiegato che la crisi era scoppiata perché l’America era intervenuta in Iraq. Pensi un po’ che ragionamento: una democrazia rimuove una dittatura e perciò incoraggia un governo autoritario a rimuovere una democrazia. Mentre è vero esattamente il contrario”. Davis Hanson è convinto che nel background di Obama non vi sia nulla che suggerisca l’eccezione del mondo occidentale, non vi sia nulla che l’induca a pensare che il ruolo storico dell’America sia quello di proteggere la cultura occidentale. “Per questo temo che per lui sarà difficile prendere una decisione. Il primo test sarà Israele. Obama è un multiculturalista. E’ convinto che tutte le culture si equivalgano: non crede che alcune siano uniche a causa dei loro principi e dei loro valori. E se alcune nazioni occidentali sono potenti, come Israele, lo è solo a causa dell’oppressione che esercitano sui più deboli. Le nomine che Obama ha fatto al dipartimento di stato vanno contro Israele. I video che ha lanciato sono apparsi una mano tesa verso l’Iran. Ha inviato suoi rappresentanti in missione a Damasco e ha deciso di inviare fondi per miliardi di dollari a Hamas per la ricostruzione di Gaza, mentre a Washington si parla di “containement” dei missili iraniani, non di eliminarli. Hanno capito tutti che sta mandando segnali a Israele perché agisca da solo contro il regime degli ayatollah. Ma probabilmente gli israeliani, pur disponendo di un arsenale militare d’avanguardia, non saranno in grado di attaccare da soli, senza il sostegno logistico degli Stati Uniti e senza ottenere i sofisticati codici di volo segreto, in possesso della nostra aeronautica militare”. Il governo di Obama, dopo 120 giorni, per VDH è fonte di apprensione e delusione. “In America è tradizione che i presidenti non parlino mai dei loro predecessori. George W. Bush non ha mai parlato di Clinton, Obama invece parla in continuazione di Bush, per dire che lui è diverso, che governerà in un altro modo. L’ironia è che in materia di antiterrorismo ogni singolo aspetto combattuto in campagna elettorale (dai tribunali militari all’intervento in Iraq, alle truppe in Afghanistan, per non parlare della base di Guantanamo) è stato per così dire ritrattato. I democratici hanno votato contro la chiusura di Guantanamo, Obama ha adottato il piano Bush in Iraq e ha deciso di continuare gli attacchi in Pakistan. Può anche cambiare idea, ma avrà sempre dalla sua parte i media che per anni, quando Bush faceva le stesse cose, hanno detto che era un fascista e un pericolo per la democrazia mentre adesso che Obama segue la sua stessa strategia riconoscono che non ha altra scelta. E se poi c’è una minaccia, sostengono che lui non ne era al corrente e che comunque sarà un portavoce migliore dello stesso programma, o un presidente più in grado di spiegarne le differenze. Insomma, siamo di fronte a una frattura radicale". "Di fatto – conclude Victor Davis Hanson – non ho mai visto in vita mia alla testa degli Stati Uniti un presidente che non si considerasse il protettore e il difensore della cultura americana. Obama vede se stesso come il cittadino del mondo, come l’espressione di culture non occidentali, o di pari valore, legittimate dall’accordo contro l’occidente. Voi europei non l’avete ancora capito e io ho paura che ben presto dovrete ricredervi. Obama non pensa di essere parte della vostra gloriosa tradizione, non capisce la cultura europea. Se si fosse trovato qui con noi, a Villa Grazioli, in questa villa tuscolana costruita nel Cinquecento dal cardinal Carafa, si sarebbe chiesto: ‘Da dove viene tutta questa ricchezza? Quale tipo di sfruttamento sui popoli non europei è stato responsabile di queste splendide opere d’arte?’ Verrà il giorno, credetemi, in cui sentiremo la mancanza di un Ronald Reagan o di George W. Bush alla Casa Bianca. Quando qualcuno manderà un missile sull’Europa, o i tank russi invaderanno l’Ucraina, o si chiuderanno i rubinetti del gas, o un aereo si abbatterà sul Vaticano, Berlusconi, Sarkozy e la Merkel capiranno che è giunta l’ora di riunire le forze. ‘Giustissimo’, dirà Obama, ‘sono d’accordo con voi’. Ma non andrà oltre. Non vi dirà: ‘Ecco, vi mando la mia contraerea, non vi preoccupate noi americani siamo con voi europei, e insieme faremo fronte comune contro i russi’. Certo, gli europei vorrebbero che non accadesse. Ma il loro è solo un desiderio. E io sono convinto che loro nemmeno lo sanno che è solo un desiderio”.
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