Sarebbe bello vivere nel mondo disegnato ieri da Obama al Cairo, ma il senso di realtà suggerisce che non sarà possibile. Tralasciamo le ovvie parole di apprezzamento per la volontà di pace e per il coraggio politico del presidente americano: chi potrebbe negarli. Obama ha tentato al Cairo di creare con la forza della sua magia una svolta epocale, quella in cui non esiste il conflitto fra islam e Occidente. Ne è risultato il ritratto un po’ banale di un giovane presidente buono. Obama immagina il mondo a partire dalla sua autobiografia: non a caso non ha nemmeno citato la parola terrorismo. Il presidente americano si è presentato come la prova vivente della negazione del conflitto di civiltà, un giovane uomo cresciuto senza conflitto fra islam e cristianesimo, il padre e il nonno musulmani, la madre cristiana e bianca, gli Stati Uniti il porto d’arrivo, dove anche l’islam è una componente indispensabile. Obama ha parlato un’ora intera, ma il mondo ha sentito bene solo alcune cose: la prima riguarda il tono apologetico, in fondo abbiamo principi simili, quelli dei diritti umani. Ma non è andata così. Prima di tutto la storia dei diritti umani è saldamente ancorata all’Europa e agli Usa, non giace anche in qualche anfratto delle satrapie mediorientali pronta a saltare fuori. In secondo luogo la storia delle due culture è sempre stata conflittuale, e mentre le nostre masse lo hanno dimenticato quelle islamiche invece ne fanno la bandiera di ogni giorno, a scuola, in piazza. Non si tratta di fenomeni marginali: lo testimoniano le enormi piazze di Hamas e degli hezbollah, la determinazione dei talebani e di Al Qaida, la laboriosa strategia atomica e terrorista dell’Iran che dal 2005 minaccia prima di tutto gli arabi moderati (per poco Mubarak non veniva deposto da una recente sovversione). Il più grande problema musulmano è la guerra intraislamica, non quella con gli Usa. Gli Usa, come Israele, non sono in guerra con l’islam, ne sono attaccati. Dal ’79, attacco all’ambasciata americana a Teheran, poi Nairobi nel ’98, la Tanzania, giù fino all’11 settembre, l’islam radicale ha attaccato, mentre si creava intorno agli attacchi un consenso di massa. Obama misura dentro di sé l’equilibrio delle sue componenti e le proietta in un universo pacificato. Fa così anche sul conflitto israelo-palestinese che ha citato prima della questione iraniana, lasciando Israele di stucco: ha ribadito la forza del rapporto con Israele, ma ha anche messo sullo stesso piano il comportamento di due popoli di cui in realtà uno ha offerto molte volte di sgomberare i territori occupati per fare spazio a uno Stato palestinese e l’altro ha fatto del rifiuto la sua bandiera. Ed è difficile immaginare che proprio a Hamas, che fa della distruzione di Israele la sua ragione sociale, la proposta di Obama di due Stati possa suonare realistica. Non lo è stata ieri quando Arafat ha rifiutato tutte le offerte, non lo è stata poco fa quando Abu Mazen ha detto no a Olmert. Oggi che c’è di nuovo? Quanto all’Iran, troppe poche parole ha dedicato Obama a quello che è oggi il Paese più pericoloso del mondo, l’islam più aggressivo e feroce. Forse è proprio la sua inconciliabilità con l’islam obamocentrico che lo ha spinto a dire che il Paese degli ayatollah può farsi la sua energia atomica per usi domestici. Risibile ipotesi. Manca lo sfondo: Obama quando parla della tolleranza islamica percorre luoghi comuni. La sua citazione della Spagna era sbagliata: Cordoba, Granada furono testimoni di eccidi musulmani di ebrei, come anche il Marocco, l’Algeria, la Libia, l’Irak, la Siria, l’Iran, lo Yemen, l’Egitto. Lo scontro con il cristianesimo, poi, è così lungo e profondo che non basterà il viso contrito e deciso di Obama a portare pace. Abbiamo già visto Shimon Peres proclamare ai tempi dell’accordo di Oslo che il Nuovo Medio Oriente era stato realizzato. Ma l’attrattiva dei vantaggi della stabilità non ferma l’aspirazione islamica a primeggiare. Obama ha sbagliato a non farne una promessa all’Egitto: forse solo l’aiuto concreto contro l’estremismo iraniano potrebbe confederare l’islam in un sogno di pace.
L’analista: «Non ha nemmeno nominato la parola terrorismo»
«Obama è andato oltre le aspettative, ma il suo discorso non basta a convincere il mondo arabo». Parola di Donatella Della Ratta, che quel mondo lo conosce molto bene. È analista dei media arabi, autrice del blog mediaoriente.com e di un saggio profetico: Un Hussein alla Casa Bianca. Cosa pensa il mondo arabo di Barack Obama (Odoya edizione) scritto con Augusto Valeriani, in cui anticipava la svolta del nuovo presidente americano. Doveva essere un discorso storico, lo è stato davvero? «Sì, per la sua grande valenza simbolica. Aveva promesso di rivolgersi all’islam dal cuore di un Paese arabo e ha rispettato la promessa pronunciando parole di speranza, di apertura, di tolleranza. Se non sbaglio non ha nemmeno pronunciato la parola terrorismo. La differenza rispetto a Bush è abissale. Ha dato l’impressione addirittura di chiedere scusa». Eppure le reazioni sono tiepide... «Dai primi commenti su tv come Al Jazeera, al Arabiya e su internet emerge un atteggiamento ambivalente. Il pubblico più colto, penso soprattutto ai blogger, è affascinato dal messaggio “alto” di Obama, ma la reazione “di pancia” della gente è improntata a un grande scetticismo». Per quale ragione? «Gli arabi non si fidano più delle promesse, vogliono risultati concreti, soprattutto sulla Palestina. Obama ha equiparato le sofferenze degli israeliani a quelle dei palestinesi e nessun presidente lo aveva fatto prima di lui; ma l’opinione pubblica araba vuole essere certa che qualcosa cambierà davvero e fino a quando la situazione resterà immutata, manterrà un atteggiamento difensivo. Appena finito il discorso di Obama, Al Jazeera ha mandato in onda un servizio sugli scontri tra Hamas e Fatah in Cisgiordania. Come dire: Barack predica bene, ma lì si continua a morire». Come viene vissuta l’apertura all’Iran? «Male, ed è il secondo motivo di scetticismo. La prospettiva che l’Iran sciita ottenga l’atomica spaventa il mondo arabo sunnita e in particolare i Paesi del Golfo Persico. Un avvicinamento tra Teheran e Washington non è affatto gradito e anzi viene interpretato come un fattore di possibile destabilizzazione strategica». E le frasi sulla democrazia e sulle donne? «Troppo generiche. Non ha citato alcun Paese e dunque gli accenni alla democrazia sono stati ignorati, come quelli sulle donne. Anzi, su internet molte blogger si sono risentite vedendo che Hillary Clinton indossava il velo. Una scelta che hanno giudicato inopportuna: l’Egitto non è l’Arabia Saudita».
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