mercoledì 25 febbraio 2009

Ma chiuderle direttamente?

Frattini: "Controllare le frontiere". Quasi la metà dei ricercati romeni scappa verso l'Italia di Fabrizia B. Maggi

Nella politica sull’immigrazione del governo italiano forse inizia finalmente a delinearsi una politica del bastone e della carota. “L'Italia vuole chiarire una volta per tutte che noi accogliamo e continueremo ad accogliere i romeni che lavorano rispettando la legge, ma al tempo stesso che saremo fermissimi nei confronti di coloro che non rispettano la legge”. Lo ha detto ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini, al suo ingresso al Consiglio degli Esteri a Bruxelles, sottolineando che in tema di espulsioni paesi come la Francia sono stati molto più severi di noi, senza aver mai fatto così tanto rumore come ha fatto il governo italiano. “Solamente nel 2008 Parigi ha espulso oltre 7000 cittadini romeni, l'Italia ne ha espulsi circa 40”, quindi “le rassicurazioni le debbono dare i romeni a noi, che non ci siano più criminali romeni nelle nostre strade”, ha proseguito. Una politica della mano dura che, sottolinea il ministro Frattini, deve anche tenere in conto l’interesse italiano nei confronti di un partner “assolutamente strategico”. A mettere freno all’associazione tra criminalità e immigrazione è stato il presidente della Camera Gianfranco Fini che, nella presentazione del rapporto Cnel sull'integrazione degli immigrati, ha chiesto di “respingere l'odiosa associazione mentale tra criminalità e immigrazione”. Allo stesso tempo, però, ha avvertito che è anche necessario “affermare che la garanzia della sicurezza e della legalità, soprattutto nei quartieri e nei territori più esposti a rischio della violenza, è condizione necessaria affinché i processi di integrazione possano svolgersi liberamente”. Per Fini occorre in primo luogo “ristabilire nei cittadini la percezione, scossa dai troppi casi in cui al delitto non è seguito il castigo, che l'Italia sa garantire il rispetto rigoroso delle regole della convivenza civile”. Ugualmente importante però è trattare l’immigrato come un connazionale, specialmente per i processi di formazione e inserimento al lavoro, perché “l'unica alternativa diventa la sconfitta, l'incapacità della società italiana a guidare un processo”. Ma certi dati ormai iniziano a svelare che i cosiddetti "luoghi comuni" sul rapporto tra criminalità e immigrazione non sono poi così lontani dalla realtà. A dimostrarlo c’è Franco Pittau, coordinatore scientifico del Dossier sull'immigrazione di Caritas Migrantes, unico in Italia ad aver elaborato i dati demografici e le statistiche criminali sui romeni presenti in Italia. Dal suo lavoro emerge che il problema non è il tasso di criminalità, cioè il rapporto tra i denunciati romeni e il numero complessivo di romeni che vivono da noi. Dopo l'entrata della Romania nell’Unione europea il primo gennaio 2007, infatti, sul territorio italiano vivono e lavorano più di un milione di romeni. In proporzione, quindi, alla fine del 2006 i detenuti di questa nazionalità erano solamente 1.650, mentre oggi sono 2.729, con un aumento quasi insignificante dello 0,27 per cento. Il tasso sulla criminalità dei romeni assume un significato molto diverso se si prendono in considerazione i singoli reati: come rileva il ministero dell'Interno, nell'arco dei tre anni tra il 2004 e il 2006, i romeni sono risultati al primo posto tra gli stranieri per gli omicidi volontari, primi per le violenze sessuali, primi per i furti in abitazione, con strappo e con destrezza, primi tra gli estorsori e nelle rapine in esercizi commerciali. Il ministro della Giustizia romeno, Catalin Preodiu, aggiunge un dato allarmante: il 40 per cento dei ricercati con mandato internazionale da Bucarest si trova in Italia. Per di più tra il 2000 e il 2005 le denunce contro i cittadini romeni sono quasi triplicate comportando dei costi finanziari elevatissimi: una ricerca di Andrea De Nicola, docente di Criminologia all'Università di Trento, ha stimato che - se si calcolano i costi conseguenti al reato (pecuniari, biologici e morali), al mancato reddito prodotto in seguito alla violenza subita, ai costi delle attività inquirenti e giudicanti (spese processuali e di detenzione) - le violenze sessuali commesse da stranieri, dove primeggiano i romeni, comportano allo Stato una spesa di 2,7 miliardi di euro l'anno. Per tutte queste ragioni sono iniziate a emergere alcune voci che, dalla comunità romena ormai integrata in Italia, chiedono per primi al governo di adottare una politica più rigorosa anche nel loro interesse. Dmitru Jlnca è romeno, vive a Padova ed è un esponente del Pdl, candidato anche per le elezioni europee nel Partito Popolare. Assicura che per la maggioranza dei romeni, “l’Italia è una seconda patria” e spiega la ragione di questo incremento della criminalità romeno è dovuto alla leggerezza del sistema giurisdizionale: “Purtroppo il passaparola c'è anche tra i criminali: hanno visto che in Italia se commetti un reato esci dal carcere dopo tre giorni e quindi hanno pensato che è conveniente venire qui... Il problema dell'Italia è la certezza della pena. Chi sbaglia deve pagare, punto e basta, e i processi devono essere più veloci”. E aggiunge che “i detenuti, compresi quelli romeni, dovrebbero lavorare in carcere per mantenersi e pagarsi le spese: non è giusto che anche con le mie tasse si mantengano dei criminali”. Gli fa eco un altro famoso romeno, il centrocampista del Siena Paul Codrea, che chiede di non fare di tutta l’erba un fascio: “I criminali, quando vengono catturati, devono rimanere in carcere per evitare che commettano nuovi reati”. Eppure qualcosa si poteva fare per evitare di arrivare a questa “emergenza sicurezza”. Un suggerimento viene da Alessandro Silj del Consiglio italiano per le Scienze sociali Etnobatometro che ricorda come sia possibile avviare iniziative per controllare l’emigrazione. “Alcune associazioni di immigrati romeni vogliono fare un appello al governo di Bucarest affinché prenda iniziative in merito, inclusa addirittura la non concessione del passaporto ai concittadini che in patria sono stati già implicati in atti di violenza”, spiega Silj che la ritiene una misura attuabile perché “la Romania entrerà nell'area Schengen solo nel 2011 e i controlli di frontiera dovrebbero essere tuttora in vigore, non dovrebbe essere impossibile per le autorità filtrare i cittadini che emigrano”. L’iniziativa trova il sostegno anche del ministro Frattini che oggi ha lanciato la proposta di far segnalare alle forze di sicurezza italiane i cittadini romeni che hanno precedenti penali e che intendono entrare in Italia, senza bloccarli alla frontiera italiana, “in uno spirito di piena collaborazione”. Questo meccanismo, previsto da Schengen, dovrebbe entrare in vigore per la Romania nel 2011: “In fondo noi chiediamo soltanto di anticipare questa direttiva Ue di due anni”, ha chiarito il titolare della Farnesina. Sempre nell’ambito della collaborazione di polizia c’è anche la richiesta italiana di aumentare il numero di poliziotti romeni presenti in Italia: “Abbiamo delle richieste - ha spiegato Frattini - e alcune hanno già trovato risposta, come quella per l'invio di un maggiore contingente di operatori di polizia specializzati nel contrasto della criminalità urbana, per lo più intesa come scippi, stupri o rapine”. Altre proposte le lancia lo stesso ministro della Giustizia romeno che, durante una conferenza stampa a Bucarest, ha tenuto a sottolineare che “in nessun caso una condanna italiana non viene riconosciuta in Romania”. Il problema sarebbe imputabile alle “procedure di estradizione, che stanno incontrando difficoltà”. Un chiaro messaggio, quindi, alla magistratura italiana per accelerare le procedure di estradizione. Forse le cose in Italia stanno iniziando davvero a cambiare, anche se in ritardo. Un dietrofront è venuto persino dalle fila della sinistra, da sempre impegnata nelle politiche di apertura senza controllo dell’immigrazione. Il primo “outing” lo ha fatto proprio un intellettuale di sinistra, Marzio Barbagli in un’intervista rilasciata a Francesco Alberti per il Corriere dove ha spiegato la sua “lotta interiore” tra “gli schematismi culturali della sua vecchia formazione di sinistra” e i dati della realtà che lo hanno costretto, sul tema della criminalità connessa all’immigrazione, a rivedere drasticamente le proprie “ipotesi di partenza”. “Non volevo vedere”, confessa con cristallina onestà intellettuale Barbagli, “c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull’incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno persino tolto il saluto”. Barbagli non è l’unico personaggio di Sinistra a cui è capitato il difficile compito di fare un mea culpa pubblico. Anche Livia Turco, ex ministro della Sanità durante il governo Prodi, si è confessata: “Prima di diventare ministro, sull' immigrazione appartenevo alla cultura del ‘ti accolgo punto e basta’. Sbagliavo, da anni non la penso più così. Pensavo contasse solo la solidarietà, poi ho capito che servono regole severe. Ma non ho mai derogato dai miei valori”. Se tornasse indietro la deputata del Pd non aprirebbe più le porte alle ondate migratorie e si domanderebbe innanzitutto se l’Italia è in grado di accogliere gli immigrati. “Questo non vuol dire non essere solidali – ha sottolineato -. Anzi, significa essere solidali fino in fondo perché per rispettare la dignità di una persona bisogna dirgli la verità. E la verità è che non possiamo accogliere tutti”. Resta un finale amaro: se la Turco fosse arrivata prima a conclusioni del genere (e avesse convinto i suoi compagni di partito), forse oggi né gli italiani né gli immigrati, quelli onesti, si sentirebbero insicuri in Italia.

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