Ci vuole uno psicologo o un medium, per capire la linea di Walter Veltroni, perché le ragioni della politica non bastano più per chiarire il suo percorso, i suoi continui cambi di marcia: un giorno il leader del Pd è per il dialogo con Berlusconi, l’altro invoca il muro contro muro; un giorno chiede al centrodestra di «fare le riforme insieme», quello dopo grida al golpe «liberticida». Un giorno tratta per la presidenza della Rai (proponendo il nome), l’altro fa saltare il tavolo per aria. Ieri, Veltroni ci ha dato un ennesimo saggio della sua volubilità, con un’intervista ospitata da La Stampa. Incalzato Veltroni ha fatto ricorso a tutto – comprese le figlie! – per evitare le domande che considerava insidiose. Ma a parte questi affannati dribbling, il suo messaggio è stato chiaro: «È arrivata l’ora di mettere in campo le grandi riforme». Aggiungendo una postilla singolare: «Ci vorrebbe un De Gasperi, non un Berlusconi». Il problema, però, non è Berlusconi perché chiunque rileggesse i giornali dei giorni scorsi troverebbe Veltroni impegnato ad accusarlo di sciacallaggio, di attentato alla Costituzione. Difficile immaginare con questi presupposti il varo di riforme bipartisan. Anche perché tutte le volte che si entra nel merito, che si parli di Giustizia o pensioni, di lavoro o di grandi opere, immediatamente il leader del «ma anche» non esita ad accusare il premier di essere come Putin o bollare il suo governo come razzista. E dire che prima del voto giurava e spergiurava: «Da me non sentirete una sola parola di astio nei confronti dei miei avversari». Ma Veltroni non è nuovo a incoerenze di questo genere, come ben sanno i bambini dell’Africa che continuano ad attenderlo speranzosi.A onor del vero una volta, nel nome della governabilità e della rappresentanza, ha mantenuto fede all’impegno preso: quando il Pd ha votato insieme al Pdl la legge per introdurre lo sbarramento al 4% nelle elezioni europee. Peccato, però, che in quell’occasione non erano in gioco gli interessi del Paese, ma soltanto la sopravvivenza del Pd e del suo leader. Tra le tante spiegazioni che si possono dare dei continui sbalzi schizofrenici la più probabile è la prostrazione in cui versa il partito di Veltroni. Metà delle amministrazioni guidate dai suoi uomini sono finite sotto inchiesta. Molti primi cittadini del Pd, addirittura in manette. Antonio Di Pietro minaccia referendum per scippargli consensi, gli intellettuali (un tempo) organici alla Camilleri annunciano che si candideranno in altre liste, gli eterni critici alla Paolo Flores d’Arcais continuano a girotondare intorno alle sue spoglie. Due giorni fa, persino un attore-scrittore iscritto da una vita al partito bolognese, Ivano Marescotti, ha restituito la tessera per protesta contro l’atteggiamento del Pd sui temi bioetici. E solo 48 ore fa, il parlamentare più impegnato sul caso Englaro, l’amatissimo (dalla base progressista) Ignazio Marino, ha fatto sapere (senza neanche il preavviso di una chiamata di cortesia) che lui è pronto al referendum abrogativo sul testamento biologico. Massimo D’Alema, dice e ripete che «il Pd è un amalgama non riuscito», Pierluigi Bersani si candida contro. Insomma, tutti questi pasticci spiegano i continui cambi di marcia del veltronismo, ma non giustificano fino in fondo il male oscuro che affligge il centrosinistra in Parlamento, il suo «ondivaghismo cronico», per citare l’accusa che un tempo pendeva sulla testa di Occhetto. Il vero nodo con cui fare i conti è da venti anni sempre lo stesso: sotto «le macerie» del muro di Berlino, per usare un’espressione inventata da una moderata diessina come Claudia Mancina, sembra essere rimasto anche un pezzo della sinistra italiana. Ovvero quel minimo di coerenza riformista che un tempo la sinistra riuscì a produrre in Parlamento (ad esempio negli anni di piombo). Il veltronismo di oggi, invece, non riesce a mettere a fuoco la differenza fra modernismo e massimalismo, fra conservatorismo e innovazione. Rimane così condannato alle proprie perpetue oscillazioni, alle trovate di giornata, ai piccoli trucchi da azzeccagarbugli. Una merce non spendibile sul terreno di un dialogo alto fra gli schieramenti. Se è ancora riformismo, è un riformismo a targhe alterne.
lunedì 16 febbraio 2009
Oggi si, domani no...
Il riformismo a targhe alterne di Veltroni di Salvatore Tramontano
Ci vuole uno psicologo o un medium, per capire la linea di Walter Veltroni, perché le ragioni della politica non bastano più per chiarire il suo percorso, i suoi continui cambi di marcia: un giorno il leader del Pd è per il dialogo con Berlusconi, l’altro invoca il muro contro muro; un giorno chiede al centrodestra di «fare le riforme insieme», quello dopo grida al golpe «liberticida». Un giorno tratta per la presidenza della Rai (proponendo il nome), l’altro fa saltare il tavolo per aria. Ieri, Veltroni ci ha dato un ennesimo saggio della sua volubilità, con un’intervista ospitata da La Stampa. Incalzato Veltroni ha fatto ricorso a tutto – comprese le figlie! – per evitare le domande che considerava insidiose. Ma a parte questi affannati dribbling, il suo messaggio è stato chiaro: «È arrivata l’ora di mettere in campo le grandi riforme». Aggiungendo una postilla singolare: «Ci vorrebbe un De Gasperi, non un Berlusconi». Il problema, però, non è Berlusconi perché chiunque rileggesse i giornali dei giorni scorsi troverebbe Veltroni impegnato ad accusarlo di sciacallaggio, di attentato alla Costituzione. Difficile immaginare con questi presupposti il varo di riforme bipartisan. Anche perché tutte le volte che si entra nel merito, che si parli di Giustizia o pensioni, di lavoro o di grandi opere, immediatamente il leader del «ma anche» non esita ad accusare il premier di essere come Putin o bollare il suo governo come razzista. E dire che prima del voto giurava e spergiurava: «Da me non sentirete una sola parola di astio nei confronti dei miei avversari». Ma Veltroni non è nuovo a incoerenze di questo genere, come ben sanno i bambini dell’Africa che continuano ad attenderlo speranzosi.A onor del vero una volta, nel nome della governabilità e della rappresentanza, ha mantenuto fede all’impegno preso: quando il Pd ha votato insieme al Pdl la legge per introdurre lo sbarramento al 4% nelle elezioni europee. Peccato, però, che in quell’occasione non erano in gioco gli interessi del Paese, ma soltanto la sopravvivenza del Pd e del suo leader. Tra le tante spiegazioni che si possono dare dei continui sbalzi schizofrenici la più probabile è la prostrazione in cui versa il partito di Veltroni. Metà delle amministrazioni guidate dai suoi uomini sono finite sotto inchiesta. Molti primi cittadini del Pd, addirittura in manette. Antonio Di Pietro minaccia referendum per scippargli consensi, gli intellettuali (un tempo) organici alla Camilleri annunciano che si candideranno in altre liste, gli eterni critici alla Paolo Flores d’Arcais continuano a girotondare intorno alle sue spoglie. Due giorni fa, persino un attore-scrittore iscritto da una vita al partito bolognese, Ivano Marescotti, ha restituito la tessera per protesta contro l’atteggiamento del Pd sui temi bioetici. E solo 48 ore fa, il parlamentare più impegnato sul caso Englaro, l’amatissimo (dalla base progressista) Ignazio Marino, ha fatto sapere (senza neanche il preavviso di una chiamata di cortesia) che lui è pronto al referendum abrogativo sul testamento biologico. Massimo D’Alema, dice e ripete che «il Pd è un amalgama non riuscito», Pierluigi Bersani si candida contro. Insomma, tutti questi pasticci spiegano i continui cambi di marcia del veltronismo, ma non giustificano fino in fondo il male oscuro che affligge il centrosinistra in Parlamento, il suo «ondivaghismo cronico», per citare l’accusa che un tempo pendeva sulla testa di Occhetto. Il vero nodo con cui fare i conti è da venti anni sempre lo stesso: sotto «le macerie» del muro di Berlino, per usare un’espressione inventata da una moderata diessina come Claudia Mancina, sembra essere rimasto anche un pezzo della sinistra italiana. Ovvero quel minimo di coerenza riformista che un tempo la sinistra riuscì a produrre in Parlamento (ad esempio negli anni di piombo). Il veltronismo di oggi, invece, non riesce a mettere a fuoco la differenza fra modernismo e massimalismo, fra conservatorismo e innovazione. Rimane così condannato alle proprie perpetue oscillazioni, alle trovate di giornata, ai piccoli trucchi da azzeccagarbugli. Una merce non spendibile sul terreno di un dialogo alto fra gli schieramenti. Se è ancora riformismo, è un riformismo a targhe alterne.
Ci vuole uno psicologo o un medium, per capire la linea di Walter Veltroni, perché le ragioni della politica non bastano più per chiarire il suo percorso, i suoi continui cambi di marcia: un giorno il leader del Pd è per il dialogo con Berlusconi, l’altro invoca il muro contro muro; un giorno chiede al centrodestra di «fare le riforme insieme», quello dopo grida al golpe «liberticida». Un giorno tratta per la presidenza della Rai (proponendo il nome), l’altro fa saltare il tavolo per aria. Ieri, Veltroni ci ha dato un ennesimo saggio della sua volubilità, con un’intervista ospitata da La Stampa. Incalzato Veltroni ha fatto ricorso a tutto – comprese le figlie! – per evitare le domande che considerava insidiose. Ma a parte questi affannati dribbling, il suo messaggio è stato chiaro: «È arrivata l’ora di mettere in campo le grandi riforme». Aggiungendo una postilla singolare: «Ci vorrebbe un De Gasperi, non un Berlusconi». Il problema, però, non è Berlusconi perché chiunque rileggesse i giornali dei giorni scorsi troverebbe Veltroni impegnato ad accusarlo di sciacallaggio, di attentato alla Costituzione. Difficile immaginare con questi presupposti il varo di riforme bipartisan. Anche perché tutte le volte che si entra nel merito, che si parli di Giustizia o pensioni, di lavoro o di grandi opere, immediatamente il leader del «ma anche» non esita ad accusare il premier di essere come Putin o bollare il suo governo come razzista. E dire che prima del voto giurava e spergiurava: «Da me non sentirete una sola parola di astio nei confronti dei miei avversari». Ma Veltroni non è nuovo a incoerenze di questo genere, come ben sanno i bambini dell’Africa che continuano ad attenderlo speranzosi.A onor del vero una volta, nel nome della governabilità e della rappresentanza, ha mantenuto fede all’impegno preso: quando il Pd ha votato insieme al Pdl la legge per introdurre lo sbarramento al 4% nelle elezioni europee. Peccato, però, che in quell’occasione non erano in gioco gli interessi del Paese, ma soltanto la sopravvivenza del Pd e del suo leader. Tra le tante spiegazioni che si possono dare dei continui sbalzi schizofrenici la più probabile è la prostrazione in cui versa il partito di Veltroni. Metà delle amministrazioni guidate dai suoi uomini sono finite sotto inchiesta. Molti primi cittadini del Pd, addirittura in manette. Antonio Di Pietro minaccia referendum per scippargli consensi, gli intellettuali (un tempo) organici alla Camilleri annunciano che si candideranno in altre liste, gli eterni critici alla Paolo Flores d’Arcais continuano a girotondare intorno alle sue spoglie. Due giorni fa, persino un attore-scrittore iscritto da una vita al partito bolognese, Ivano Marescotti, ha restituito la tessera per protesta contro l’atteggiamento del Pd sui temi bioetici. E solo 48 ore fa, il parlamentare più impegnato sul caso Englaro, l’amatissimo (dalla base progressista) Ignazio Marino, ha fatto sapere (senza neanche il preavviso di una chiamata di cortesia) che lui è pronto al referendum abrogativo sul testamento biologico. Massimo D’Alema, dice e ripete che «il Pd è un amalgama non riuscito», Pierluigi Bersani si candida contro. Insomma, tutti questi pasticci spiegano i continui cambi di marcia del veltronismo, ma non giustificano fino in fondo il male oscuro che affligge il centrosinistra in Parlamento, il suo «ondivaghismo cronico», per citare l’accusa che un tempo pendeva sulla testa di Occhetto. Il vero nodo con cui fare i conti è da venti anni sempre lo stesso: sotto «le macerie» del muro di Berlino, per usare un’espressione inventata da una moderata diessina come Claudia Mancina, sembra essere rimasto anche un pezzo della sinistra italiana. Ovvero quel minimo di coerenza riformista che un tempo la sinistra riuscì a produrre in Parlamento (ad esempio negli anni di piombo). Il veltronismo di oggi, invece, non riesce a mettere a fuoco la differenza fra modernismo e massimalismo, fra conservatorismo e innovazione. Rimane così condannato alle proprie perpetue oscillazioni, alle trovate di giornata, ai piccoli trucchi da azzeccagarbugli. Una merce non spendibile sul terreno di un dialogo alto fra gli schieramenti. Se è ancora riformismo, è un riformismo a targhe alterne.
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