Nel 2002, a un anno dalle elezioni perse contro Berlusconi, la sinistra stordita e sopraffatta dalla sindrome della sconfitta consegnò agli intellettuali girotondisti la missione di riaccendere lo spirito della grande battaglia contro il «Caimano»: fu l’inseguimento affannoso del radicalismo estremista, il rifugio nella sfera onirica della guerra totale contro il nemico. La sinistra riconquistò voti e tensione emotiva fino alla risicata vittoria del 2006. Ma quella fiammata, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, era destinata a spegnersi nel peggiore dei modi. Oggi, a un anno dalla sconfitta del 2008 e dopo un’impressionante sequenza di rovesci culminata nella disfatta sarda e nella crisi devastante del Pd, la sinistra potrebbe trarre una salutare ispirazione da un altro intellettuale, un sociologo lontanissimo dalla tipologia girotondista ma che non ha mai nascosto la sua appartenenza alla cultura della sinistra: Marzio Barbagli. Nell’intervista rilasciata a Francesco Alberti per il Corriere, Barbagli racconta di una formidabile lotta tra i suoi «schematismi» culturali e i dati della realtà che lo hanno costretto, sul tema della criminalità connessa all’immigrazione, a rivedere drasticamente le proprie «ipotesi di partenza». «Non volevo vedere», confessa con cristallina onestà intellettuale Barbagli, «c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull’incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Il racconto di Barbagli riassume con grande pathos espressivo il senso di un percorso sofferto: «ho fatto il possibile per ingannare me stesso»; «era come se avessi un blocco mentale». Fino alla conclusione catartica, ma malinconica e solitaria: «sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore e l’uomo di sinistra. Ora sono un ricercatore. E nient’altro». La conclusione di Barbagli segna il dramma della sinistra italiana che si strazia nel vortice delle ripetute sconfitte. Il suo bagno nella realtà, il suo immergersi nei dati empirici per capire che cosa si muove nella società italiana senza essere percepito dagli occhiali deformanti del politicamente corretto, sanciscono un divorzio tragico tra il «ricercatore» e «l’uomo di sinistra». La sinistra lamenta ritualmente il proprio distacco dalla realtà, il proprio ripiegarsi autoreferenziale in una retorica incomprensibile al «vissuto» della società come realmente è e pensa. Ma per lasciarsi «assalire dalla realtà», come usava dire tra i liberal americani sommersi dall’ondata culturale neoconservatrice, deve impegnarsi per ricomporre la frattura esistenziale raccontata da Barbagli. Deve dimostrare che tra la «ricerca» e la sinistra, tra i «dati» e il discorso dominante nei suoi circuiti autisticamente chiusi in se stessi non c’è guerra o alterità, e che per risollevarsi occorre disfarsi del «blocco mentale» che l’ha paralizzata in questi anni, precludendosi ogni comunicazione con ciò che sta fuori di essa. Scegliere Barbagli e non chi gli «ha tolto il saluto». La realtà e non i sacerdoti di una «correttezza» politica sempre più vuota.
Marzio Barbagli Il sociologo: ho scritto ciò che la realtà mi suggeriva e molti colleghi mi hanno tolto il saluto. «Immigrati e reati, io di sinistra non volevo vedere». C' è il rifiuto di vedere i cambiamenti dovuti all' ondata migratoria
BOLOGNA - «Sì, in quegli anni andava così, non volevo vedere: c' era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull' incidenza dell' immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l' ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull' aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Marzio Barbagli ha 70 anni, è professore di sociologia all' Università di Bologna, ha scritto libri importanti sul tema immigrazione e delinquenza e ha curato per il Viminale (ai tempi di Enzo Bianco e Giuliano Amato) il rapporto sullo stato della criminalità. Nel suo libro, Immigrazione e sicurezza (edito dal Mulino), fissa l' impressionante impennata di stupri compiuti dagli extracomunitari: dal 9% al 40% negli ultimi 20 anni, con romeni, marocchini e albanesi a guidare la classifica. Professore, a quando risale questa specie di cecità scientifica? «Parlo di una decina di anni fa... Ma guardi che non ero l' unico, c' erano anche altri colleghi, della mia stessa parte politica, che si rifiutavano di vedere i cambiamenti, sotto il profilo dell' ordine pubblico, che l' ondata migratoria comportava». Eppure non mancavano dati e statistiche. O no? «Certo che c' erano, ma non volevo crederci, non li cercavo nemmeno. Ho fatto il possibile per ingannare me stesso. Mi dicevo: ma no, le cifre sono sbagliate, le procedure d' analisi difettose. Era come se avessi un blocco mentale...». Poi cos' è successo? «Ho capito che non erano i dati ad essere sbagliati, ma le mie ipotesi di partenza». E a quel punto? «Sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore dall' uomo di sinistra. E ho scritto quello che la realtà mi suggeriva». E alcuni suoi colleghi le hanno tolto il saluto. «Sì, alcuni. Poi ce n' erano altri che, pur sapendo che avevo ragione, mi dicevano che quelle cose non andavano comunque scritte». Lei ha avuto l' onestà e il coraggio di ammettere l' errore: pensa che a sinistra questi condizionamenti ideologici siano molto diffusi? «Di sicuro lo sono stati. E non solo in Italia. Un gap culturale che ha costretto la sinistra ad una faticosa rincorsa, che in parte però sta avvenendo. La stessa Livio Turco, promotrice assieme a Giorgio Napolitano di una legge importante sull' immigrazione, ha ammesso che inizialmente, quando si trovò ad affrontare la questione, non fu semplice superare certi schematismi, una certa immaturità». Cosa le ha insegnato questa esperienza? «È stato un processo faticoso, ma di grande crescita. Ora sono un ricercatore. E nient' altro».
Alberti Francesco
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