Se in Sardegna c'è stato un terremoto, Firenze è arrivato lo tsunami. Improvviso e violentissimo. In un colpo solo ha spazzato via certezze, strategie, equilibrismi, giochi di potere e la nomenklatura di un partito: il Pd. Finale a sorpresa per le primarie del centrosinistra in riva d'Arno, che mette un punto su sei mesi di campagna elettorale al veleno e apre nuove crepe nel già precario parterre democrat. Lo tsunami si chiama Matteo Renzi, 34 anni, presidente uscente della Provincia, rutelliano doc (non è un caso se nella sequela di commenti e dichiarazioni post voto proprio Rutelli ha parlato di “clamorosa vittoria”). I fiorentini che lo hanno scelto nelle urne democratiche delle primarie di coalizione sono stati 15.104 pari al 40,5%. Quanto basta per superare la prova al primo turno (il regolamento fissava la soglia proprio al 40%) e battere con ampio margine gli avversari, in testa quelli Pd. Due su tutti, i più blasonati, sponsorizzati dal partito fiorentino e romano: Lapo Pistelli, deputato, ex Dl, candidato gradito (i maligni dicono “imposto”) a Walter Veltroni che si è fermato al 26,9% e Michele Ventura, onorevole pure lui, dalemiano di ferro, “calato” all'ultimo nell'agone elettorale (in realtà per depotenziare la corsa di Pistelli dal momento che quella di Renzi era già considerata fuori gioco). Per Ventura si è speso in prima persona Pierluigi Bersani (a sua volta incoronato da Massimo D'Alema) già in campo per il congresso democratico di ottobre e dunque per la leadership nazionale. Il “Mike” ha ottenuto un modestissimo 12,5%, addirittura preceduto dalla pasionaria a sinistra del Pd Daniela Lastri, assessore della giunta comunale Domenici, con all'attivo il 14,6% dei consensi. Fanalino di coda il presidente no global del consiglio comunale Eros Cruccolini, candidato de La Sinistra, inchiodato al 5,5%. Affluenza di tutto rispetto alle urne, 38mila elettori, tuttavia inferiore a quella che designò Prodi e di poco superiore a quella che inaugurò l'era Veltroni. Eppure la “gioiosa macchina da guerra” del partito non è riuscita a cammellare voti secondo i propri desiderata. Il punto è che in questa città, per la prima volta, si registra un evento per certi aspetti storico: la netta batosta che travolge la dirigenza ex Ds - veltroniani e dalemiani - e l'affermazione degli ex democristiani post-margheriti. Dato oggettivo che ora apre nuovi scenari ma che al di là delle beghe interne di partito, segna la debolezza dei post-comunisti e la fine di un'egemonia che da quella tradizione discende. Dunque, ancora una volta a Firenze si intrecciano i destini, le ascese e le discese dei vertici, nazionali e locali, di un partito ancora alla ricerca di se stesso. Perchè il caso Firenze durante i mesi tribolati della campagna elettorale è diventato centrale negli stop and go (in realtà più stop che go) della nomenklatura romana. Perchè nell'ultimo fortino rosso si sono consumate notti dei lunghi coltelli, lotte fratricide, condotte con cinico calcolo da chi a Roma come a Firenze questa partita doveva gestirla e giocarla fino in fondo. Il paradosso di ciò che le urne democratiche certificano ha dell'incredibile: nessuno avrebbe scommesso un cent sulla vittoria dell'enfant prodige Renzi, considerato nei ranghi alti del partito personaggio scomodo per il suo iperattivismo e soprattutto perchè “difficile da gestire”. Il quadro peraltro era già chiaro nei suoi cinque anni da presidente della Provincia, quando un bel giorno e senza tanti complimenti mise fuori dalla porta della maggioranza i Verdi che tiravano su muri ambientalisti alla realizzazione di grandi opere e infrastrutture sulle quali, invece, Renzi aveva vinto le elezioni. Uomo immagine, molto attento alla comunicazione, meglio se di respiro nazionale e internazionale (è un patito del web), Renzi ha vinto queste primarie “da solo”. Perchè gli apparati Pd (sia Ds che parte dei Dl) hanno tentato di ostacolarne l'avanzata dall'inizio alla fine. Prima con la propaganda sul suo asse con l'assessore Graziano Cioni, entrato da indagato nell'ormai famoso affaire Castello (la vicenda ha destabilizzato politicamente la giunta di Palazzo Vecchio e incrinato la maggioranza di centrosinistra) e per questo prima candidato alle primarie poi estromesso; quindi auspicando interventi dal Nazareno per azzoppare la sua corsa, e in ultimo mettendo nero su bianco regole e codici etici che fissavano soglie alle spese per la campagna elettorale; arrivando negli ultimi giorni perfino a paventare, sempre in nome del regolamento, ipotesi di esclusione anche in caso di vittoria per chi avesse sforato il budget di 45mila euro (il messaggio era per Renzi e Pistelli messi sotto osservazione dal Comitato dei garanti). E invece no, Renzi ha spiazzato tutti. Giocando, politicamente, una carta strategica che ha fatto breccia nella base del partito interpretando il maldipancia dell'elettorato di riferimento. E l'altro dato significativo delle primarie fiorentine (pure qui ci sono contaminazioni ed effetti che rimandano al livello nazionale) è proprio questo: il popolo del Pd ha scelto da solo e segnato ancora più nettamente uno spartiacque rispetto alla dirigenza. Insomma, un voto di opinione. Il che significa che neppure le potenti strutture della Cgil, della Cna o delle coop rosse, non sono riuscite a convogliare consensi sui candidati favoriti (Ventura e Pistelli). Renzi ha colto nel segno: da obamiano convinto (i suoi supporter hanno già tradotto l'ormai celebre “yes, we can” nel fiorentinissimo “si pole, si pole”) ha letto in chiave locale lo stesso desiderio di cambiamento la gente oggi chiede. Con un'operazione sì mediatica, ma pure calata nelle cose da fare per rilanciare Firenze. E l'unica cosa da fare, per lui era marcare da un lato una forte discontinuità dall'amministrazione Domenici sui progetti strategici (dalla tramvia in piazza Duomo, alle infrastrutture, all'aeroporto); dall'altro rivendicare un'autonomia progettuale dall'establishment nazionale impantanato nell'immobilismo decisionale su programma e gestione del partito. Temi che Renzi in campagna elettorale ha amplificato con forza tirandosi addosso gli strali dei maggiorenti Pd. La discontinuità da Domenici si è tradotta in proposte alternative tuttavia mutuate dal programma del centrodestra, al punto che i suoi detrattori nel partito e tra gli alleati lo hanno accusato di fare “melina” con l'opposizione. Niente di più falso, ribattono dalle file del Pdl dove la lettura della novità fiorentina è chiara: Renzi si presenta come il paladino del rinnovamento ma in realtà non è credibile. I motivi: nei cinque anni in Provincia il giovane presidente ha avallato le scelte del sindaco Domenici; eppoi non riuscirà a realizzare neanche una delle proposte che va dicendo dal momento che la coalizione che lo sostiene è esattamente la stessa che ha permesso a Domenici di governare fin qui e si ripropone tale e quale al voto per le amministrative. C'è un altro dato che rimanda a una riflessione sul caso Firenze. Se Renzi per vincere le primarie ha dovuto mutuare i punti programmatici del Pdl da sempre al centro delle battaglie politiche che l'opposizione ha condotto a Palazzo Vecchio e tra la gente, vuol dire che nell'opinione pubblica si va facendo strada la consapevolezza che le idee del Pdl rappresentano una reale e possibile alternativa a decenni di giunte monocolore. La ragione sostanziale sta nella lontananza siderale del centrodestra dal sistema che a Firenze come in Toscana (salvo rare eccezioni) da sempre “controlla” la vita di ciascuno, dalla culla alla bara. Renzi questo l'ha capito e giocherà fino in fondo la sua partita su due fronti: cercando di ricompattare un Pd spiazzato dall'esito delle primarie ma che già ha fatto quadrato attorno a lui (da Veltroni a Chiti al segretario regionale Manciulli, mentre Verdi e Sinistra mantengono per ora una certa freddezza), e intercettare un voto quanto più possibile trasversale, pescando voti nell'alveo del centrodestra. Ecco perchè la partita di Firenze diventa più che mai strategica: il 6 e 7 giugno i fiorentini dovranno scegliere tra un centrosinistra che per spirito di sopravvivenza è costretto a puntare su un candidato “nuovo” ma scomodo e comunque espressione di un sistema di potere ormai vicino al capolinea, e il nome che sotto le insegne del Pdl saprà interpretare e garantire la benedizione dell'alternanza. Il nome c'è già, assicurano dai ranghi del Popolo della Libertà, e sarà ufficializzato a breve. I rumors riportati dai media locali avanzano l'ipotesi di Giovanni Galli, ex portiere del Milan e della Fiorentina. Imprenditore, personaggio molto noto e amato in città, non solo per la sua gloriosa carriera calcistica, ma soprattutto per le sue doti umane e civiche capaci di arrivare al cuore dei fiorentini. Che per tradizione si sa è ruvido, ma se capisce che stavolta si può davvero voltare pagina con la forza delle idee, come accaduto in Abruzzo e in Sardegna, si può rivelare generosissimo. E da oggi la partita in riva d'Arno è più che mai aperta.
martedì 17 febbraio 2009
Primarie Pd
Sconfitti D'Alema e Veltroni. A Firenze Renzi vince le primarie con un programma di centro-destra di Brunello Strozzi
Se in Sardegna c'è stato un terremoto, Firenze è arrivato lo tsunami. Improvviso e violentissimo. In un colpo solo ha spazzato via certezze, strategie, equilibrismi, giochi di potere e la nomenklatura di un partito: il Pd. Finale a sorpresa per le primarie del centrosinistra in riva d'Arno, che mette un punto su sei mesi di campagna elettorale al veleno e apre nuove crepe nel già precario parterre democrat. Lo tsunami si chiama Matteo Renzi, 34 anni, presidente uscente della Provincia, rutelliano doc (non è un caso se nella sequela di commenti e dichiarazioni post voto proprio Rutelli ha parlato di “clamorosa vittoria”). I fiorentini che lo hanno scelto nelle urne democratiche delle primarie di coalizione sono stati 15.104 pari al 40,5%. Quanto basta per superare la prova al primo turno (il regolamento fissava la soglia proprio al 40%) e battere con ampio margine gli avversari, in testa quelli Pd. Due su tutti, i più blasonati, sponsorizzati dal partito fiorentino e romano: Lapo Pistelli, deputato, ex Dl, candidato gradito (i maligni dicono “imposto”) a Walter Veltroni che si è fermato al 26,9% e Michele Ventura, onorevole pure lui, dalemiano di ferro, “calato” all'ultimo nell'agone elettorale (in realtà per depotenziare la corsa di Pistelli dal momento che quella di Renzi era già considerata fuori gioco). Per Ventura si è speso in prima persona Pierluigi Bersani (a sua volta incoronato da Massimo D'Alema) già in campo per il congresso democratico di ottobre e dunque per la leadership nazionale. Il “Mike” ha ottenuto un modestissimo 12,5%, addirittura preceduto dalla pasionaria a sinistra del Pd Daniela Lastri, assessore della giunta comunale Domenici, con all'attivo il 14,6% dei consensi. Fanalino di coda il presidente no global del consiglio comunale Eros Cruccolini, candidato de La Sinistra, inchiodato al 5,5%. Affluenza di tutto rispetto alle urne, 38mila elettori, tuttavia inferiore a quella che designò Prodi e di poco superiore a quella che inaugurò l'era Veltroni. Eppure la “gioiosa macchina da guerra” del partito non è riuscita a cammellare voti secondo i propri desiderata. Il punto è che in questa città, per la prima volta, si registra un evento per certi aspetti storico: la netta batosta che travolge la dirigenza ex Ds - veltroniani e dalemiani - e l'affermazione degli ex democristiani post-margheriti. Dato oggettivo che ora apre nuovi scenari ma che al di là delle beghe interne di partito, segna la debolezza dei post-comunisti e la fine di un'egemonia che da quella tradizione discende. Dunque, ancora una volta a Firenze si intrecciano i destini, le ascese e le discese dei vertici, nazionali e locali, di un partito ancora alla ricerca di se stesso. Perchè il caso Firenze durante i mesi tribolati della campagna elettorale è diventato centrale negli stop and go (in realtà più stop che go) della nomenklatura romana. Perchè nell'ultimo fortino rosso si sono consumate notti dei lunghi coltelli, lotte fratricide, condotte con cinico calcolo da chi a Roma come a Firenze questa partita doveva gestirla e giocarla fino in fondo. Il paradosso di ciò che le urne democratiche certificano ha dell'incredibile: nessuno avrebbe scommesso un cent sulla vittoria dell'enfant prodige Renzi, considerato nei ranghi alti del partito personaggio scomodo per il suo iperattivismo e soprattutto perchè “difficile da gestire”. Il quadro peraltro era già chiaro nei suoi cinque anni da presidente della Provincia, quando un bel giorno e senza tanti complimenti mise fuori dalla porta della maggioranza i Verdi che tiravano su muri ambientalisti alla realizzazione di grandi opere e infrastrutture sulle quali, invece, Renzi aveva vinto le elezioni. Uomo immagine, molto attento alla comunicazione, meglio se di respiro nazionale e internazionale (è un patito del web), Renzi ha vinto queste primarie “da solo”. Perchè gli apparati Pd (sia Ds che parte dei Dl) hanno tentato di ostacolarne l'avanzata dall'inizio alla fine. Prima con la propaganda sul suo asse con l'assessore Graziano Cioni, entrato da indagato nell'ormai famoso affaire Castello (la vicenda ha destabilizzato politicamente la giunta di Palazzo Vecchio e incrinato la maggioranza di centrosinistra) e per questo prima candidato alle primarie poi estromesso; quindi auspicando interventi dal Nazareno per azzoppare la sua corsa, e in ultimo mettendo nero su bianco regole e codici etici che fissavano soglie alle spese per la campagna elettorale; arrivando negli ultimi giorni perfino a paventare, sempre in nome del regolamento, ipotesi di esclusione anche in caso di vittoria per chi avesse sforato il budget di 45mila euro (il messaggio era per Renzi e Pistelli messi sotto osservazione dal Comitato dei garanti). E invece no, Renzi ha spiazzato tutti. Giocando, politicamente, una carta strategica che ha fatto breccia nella base del partito interpretando il maldipancia dell'elettorato di riferimento. E l'altro dato significativo delle primarie fiorentine (pure qui ci sono contaminazioni ed effetti che rimandano al livello nazionale) è proprio questo: il popolo del Pd ha scelto da solo e segnato ancora più nettamente uno spartiacque rispetto alla dirigenza. Insomma, un voto di opinione. Il che significa che neppure le potenti strutture della Cgil, della Cna o delle coop rosse, non sono riuscite a convogliare consensi sui candidati favoriti (Ventura e Pistelli). Renzi ha colto nel segno: da obamiano convinto (i suoi supporter hanno già tradotto l'ormai celebre “yes, we can” nel fiorentinissimo “si pole, si pole”) ha letto in chiave locale lo stesso desiderio di cambiamento la gente oggi chiede. Con un'operazione sì mediatica, ma pure calata nelle cose da fare per rilanciare Firenze. E l'unica cosa da fare, per lui era marcare da un lato una forte discontinuità dall'amministrazione Domenici sui progetti strategici (dalla tramvia in piazza Duomo, alle infrastrutture, all'aeroporto); dall'altro rivendicare un'autonomia progettuale dall'establishment nazionale impantanato nell'immobilismo decisionale su programma e gestione del partito. Temi che Renzi in campagna elettorale ha amplificato con forza tirandosi addosso gli strali dei maggiorenti Pd. La discontinuità da Domenici si è tradotta in proposte alternative tuttavia mutuate dal programma del centrodestra, al punto che i suoi detrattori nel partito e tra gli alleati lo hanno accusato di fare “melina” con l'opposizione. Niente di più falso, ribattono dalle file del Pdl dove la lettura della novità fiorentina è chiara: Renzi si presenta come il paladino del rinnovamento ma in realtà non è credibile. I motivi: nei cinque anni in Provincia il giovane presidente ha avallato le scelte del sindaco Domenici; eppoi non riuscirà a realizzare neanche una delle proposte che va dicendo dal momento che la coalizione che lo sostiene è esattamente la stessa che ha permesso a Domenici di governare fin qui e si ripropone tale e quale al voto per le amministrative. C'è un altro dato che rimanda a una riflessione sul caso Firenze. Se Renzi per vincere le primarie ha dovuto mutuare i punti programmatici del Pdl da sempre al centro delle battaglie politiche che l'opposizione ha condotto a Palazzo Vecchio e tra la gente, vuol dire che nell'opinione pubblica si va facendo strada la consapevolezza che le idee del Pdl rappresentano una reale e possibile alternativa a decenni di giunte monocolore. La ragione sostanziale sta nella lontananza siderale del centrodestra dal sistema che a Firenze come in Toscana (salvo rare eccezioni) da sempre “controlla” la vita di ciascuno, dalla culla alla bara. Renzi questo l'ha capito e giocherà fino in fondo la sua partita su due fronti: cercando di ricompattare un Pd spiazzato dall'esito delle primarie ma che già ha fatto quadrato attorno a lui (da Veltroni a Chiti al segretario regionale Manciulli, mentre Verdi e Sinistra mantengono per ora una certa freddezza), e intercettare un voto quanto più possibile trasversale, pescando voti nell'alveo del centrodestra. Ecco perchè la partita di Firenze diventa più che mai strategica: il 6 e 7 giugno i fiorentini dovranno scegliere tra un centrosinistra che per spirito di sopravvivenza è costretto a puntare su un candidato “nuovo” ma scomodo e comunque espressione di un sistema di potere ormai vicino al capolinea, e il nome che sotto le insegne del Pdl saprà interpretare e garantire la benedizione dell'alternanza. Il nome c'è già, assicurano dai ranghi del Popolo della Libertà, e sarà ufficializzato a breve. I rumors riportati dai media locali avanzano l'ipotesi di Giovanni Galli, ex portiere del Milan e della Fiorentina. Imprenditore, personaggio molto noto e amato in città, non solo per la sua gloriosa carriera calcistica, ma soprattutto per le sue doti umane e civiche capaci di arrivare al cuore dei fiorentini. Che per tradizione si sa è ruvido, ma se capisce che stavolta si può davvero voltare pagina con la forza delle idee, come accaduto in Abruzzo e in Sardegna, si può rivelare generosissimo. E da oggi la partita in riva d'Arno è più che mai aperta.
Se in Sardegna c'è stato un terremoto, Firenze è arrivato lo tsunami. Improvviso e violentissimo. In un colpo solo ha spazzato via certezze, strategie, equilibrismi, giochi di potere e la nomenklatura di un partito: il Pd. Finale a sorpresa per le primarie del centrosinistra in riva d'Arno, che mette un punto su sei mesi di campagna elettorale al veleno e apre nuove crepe nel già precario parterre democrat. Lo tsunami si chiama Matteo Renzi, 34 anni, presidente uscente della Provincia, rutelliano doc (non è un caso se nella sequela di commenti e dichiarazioni post voto proprio Rutelli ha parlato di “clamorosa vittoria”). I fiorentini che lo hanno scelto nelle urne democratiche delle primarie di coalizione sono stati 15.104 pari al 40,5%. Quanto basta per superare la prova al primo turno (il regolamento fissava la soglia proprio al 40%) e battere con ampio margine gli avversari, in testa quelli Pd. Due su tutti, i più blasonati, sponsorizzati dal partito fiorentino e romano: Lapo Pistelli, deputato, ex Dl, candidato gradito (i maligni dicono “imposto”) a Walter Veltroni che si è fermato al 26,9% e Michele Ventura, onorevole pure lui, dalemiano di ferro, “calato” all'ultimo nell'agone elettorale (in realtà per depotenziare la corsa di Pistelli dal momento che quella di Renzi era già considerata fuori gioco). Per Ventura si è speso in prima persona Pierluigi Bersani (a sua volta incoronato da Massimo D'Alema) già in campo per il congresso democratico di ottobre e dunque per la leadership nazionale. Il “Mike” ha ottenuto un modestissimo 12,5%, addirittura preceduto dalla pasionaria a sinistra del Pd Daniela Lastri, assessore della giunta comunale Domenici, con all'attivo il 14,6% dei consensi. Fanalino di coda il presidente no global del consiglio comunale Eros Cruccolini, candidato de La Sinistra, inchiodato al 5,5%. Affluenza di tutto rispetto alle urne, 38mila elettori, tuttavia inferiore a quella che designò Prodi e di poco superiore a quella che inaugurò l'era Veltroni. Eppure la “gioiosa macchina da guerra” del partito non è riuscita a cammellare voti secondo i propri desiderata. Il punto è che in questa città, per la prima volta, si registra un evento per certi aspetti storico: la netta batosta che travolge la dirigenza ex Ds - veltroniani e dalemiani - e l'affermazione degli ex democristiani post-margheriti. Dato oggettivo che ora apre nuovi scenari ma che al di là delle beghe interne di partito, segna la debolezza dei post-comunisti e la fine di un'egemonia che da quella tradizione discende. Dunque, ancora una volta a Firenze si intrecciano i destini, le ascese e le discese dei vertici, nazionali e locali, di un partito ancora alla ricerca di se stesso. Perchè il caso Firenze durante i mesi tribolati della campagna elettorale è diventato centrale negli stop and go (in realtà più stop che go) della nomenklatura romana. Perchè nell'ultimo fortino rosso si sono consumate notti dei lunghi coltelli, lotte fratricide, condotte con cinico calcolo da chi a Roma come a Firenze questa partita doveva gestirla e giocarla fino in fondo. Il paradosso di ciò che le urne democratiche certificano ha dell'incredibile: nessuno avrebbe scommesso un cent sulla vittoria dell'enfant prodige Renzi, considerato nei ranghi alti del partito personaggio scomodo per il suo iperattivismo e soprattutto perchè “difficile da gestire”. Il quadro peraltro era già chiaro nei suoi cinque anni da presidente della Provincia, quando un bel giorno e senza tanti complimenti mise fuori dalla porta della maggioranza i Verdi che tiravano su muri ambientalisti alla realizzazione di grandi opere e infrastrutture sulle quali, invece, Renzi aveva vinto le elezioni. Uomo immagine, molto attento alla comunicazione, meglio se di respiro nazionale e internazionale (è un patito del web), Renzi ha vinto queste primarie “da solo”. Perchè gli apparati Pd (sia Ds che parte dei Dl) hanno tentato di ostacolarne l'avanzata dall'inizio alla fine. Prima con la propaganda sul suo asse con l'assessore Graziano Cioni, entrato da indagato nell'ormai famoso affaire Castello (la vicenda ha destabilizzato politicamente la giunta di Palazzo Vecchio e incrinato la maggioranza di centrosinistra) e per questo prima candidato alle primarie poi estromesso; quindi auspicando interventi dal Nazareno per azzoppare la sua corsa, e in ultimo mettendo nero su bianco regole e codici etici che fissavano soglie alle spese per la campagna elettorale; arrivando negli ultimi giorni perfino a paventare, sempre in nome del regolamento, ipotesi di esclusione anche in caso di vittoria per chi avesse sforato il budget di 45mila euro (il messaggio era per Renzi e Pistelli messi sotto osservazione dal Comitato dei garanti). E invece no, Renzi ha spiazzato tutti. Giocando, politicamente, una carta strategica che ha fatto breccia nella base del partito interpretando il maldipancia dell'elettorato di riferimento. E l'altro dato significativo delle primarie fiorentine (pure qui ci sono contaminazioni ed effetti che rimandano al livello nazionale) è proprio questo: il popolo del Pd ha scelto da solo e segnato ancora più nettamente uno spartiacque rispetto alla dirigenza. Insomma, un voto di opinione. Il che significa che neppure le potenti strutture della Cgil, della Cna o delle coop rosse, non sono riuscite a convogliare consensi sui candidati favoriti (Ventura e Pistelli). Renzi ha colto nel segno: da obamiano convinto (i suoi supporter hanno già tradotto l'ormai celebre “yes, we can” nel fiorentinissimo “si pole, si pole”) ha letto in chiave locale lo stesso desiderio di cambiamento la gente oggi chiede. Con un'operazione sì mediatica, ma pure calata nelle cose da fare per rilanciare Firenze. E l'unica cosa da fare, per lui era marcare da un lato una forte discontinuità dall'amministrazione Domenici sui progetti strategici (dalla tramvia in piazza Duomo, alle infrastrutture, all'aeroporto); dall'altro rivendicare un'autonomia progettuale dall'establishment nazionale impantanato nell'immobilismo decisionale su programma e gestione del partito. Temi che Renzi in campagna elettorale ha amplificato con forza tirandosi addosso gli strali dei maggiorenti Pd. La discontinuità da Domenici si è tradotta in proposte alternative tuttavia mutuate dal programma del centrodestra, al punto che i suoi detrattori nel partito e tra gli alleati lo hanno accusato di fare “melina” con l'opposizione. Niente di più falso, ribattono dalle file del Pdl dove la lettura della novità fiorentina è chiara: Renzi si presenta come il paladino del rinnovamento ma in realtà non è credibile. I motivi: nei cinque anni in Provincia il giovane presidente ha avallato le scelte del sindaco Domenici; eppoi non riuscirà a realizzare neanche una delle proposte che va dicendo dal momento che la coalizione che lo sostiene è esattamente la stessa che ha permesso a Domenici di governare fin qui e si ripropone tale e quale al voto per le amministrative. C'è un altro dato che rimanda a una riflessione sul caso Firenze. Se Renzi per vincere le primarie ha dovuto mutuare i punti programmatici del Pdl da sempre al centro delle battaglie politiche che l'opposizione ha condotto a Palazzo Vecchio e tra la gente, vuol dire che nell'opinione pubblica si va facendo strada la consapevolezza che le idee del Pdl rappresentano una reale e possibile alternativa a decenni di giunte monocolore. La ragione sostanziale sta nella lontananza siderale del centrodestra dal sistema che a Firenze come in Toscana (salvo rare eccezioni) da sempre “controlla” la vita di ciascuno, dalla culla alla bara. Renzi questo l'ha capito e giocherà fino in fondo la sua partita su due fronti: cercando di ricompattare un Pd spiazzato dall'esito delle primarie ma che già ha fatto quadrato attorno a lui (da Veltroni a Chiti al segretario regionale Manciulli, mentre Verdi e Sinistra mantengono per ora una certa freddezza), e intercettare un voto quanto più possibile trasversale, pescando voti nell'alveo del centrodestra. Ecco perchè la partita di Firenze diventa più che mai strategica: il 6 e 7 giugno i fiorentini dovranno scegliere tra un centrosinistra che per spirito di sopravvivenza è costretto a puntare su un candidato “nuovo” ma scomodo e comunque espressione di un sistema di potere ormai vicino al capolinea, e il nome che sotto le insegne del Pdl saprà interpretare e garantire la benedizione dell'alternanza. Il nome c'è già, assicurano dai ranghi del Popolo della Libertà, e sarà ufficializzato a breve. I rumors riportati dai media locali avanzano l'ipotesi di Giovanni Galli, ex portiere del Milan e della Fiorentina. Imprenditore, personaggio molto noto e amato in città, non solo per la sua gloriosa carriera calcistica, ma soprattutto per le sue doti umane e civiche capaci di arrivare al cuore dei fiorentini. Che per tradizione si sa è ruvido, ma se capisce che stavolta si può davvero voltare pagina con la forza delle idee, come accaduto in Abruzzo e in Sardegna, si può rivelare generosissimo. E da oggi la partita in riva d'Arno è più che mai aperta.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento