lunedì 23 febbraio 2009

Lampedusa

Un poliziotto ogni migrante, uno ogni dieci abitanti: "Come la volete chiamare?"E dopo il decreto sicurezza teme di trasformarsi nella "tomba dei clandestini". Così si vive a Lampedusa isola carcere d'Europa di Carlo Bonini

ISOLA DI LAMPEDUSA - Il pattugliatore 290 della Capitaneria di Porto lascia la darsena del molo vecchio con la luce del primo giorno, scatarrando cherosene nell'azzurro cobalto dei fondali. Perché la clemenza del bollettino del mare e la disperazione di chi lo attraversa sono più forti di un decreto legge. Perché per quarantotto ore, il canale di Sicilia si fa laguna e nella notte torna a restituire uomini, donne e bambini alla deriva. Questa volta, e "per disposizione di Roma", agganciati sui loro barconi oltre l'orizzonte e destinati alle spiagge di porto Empedocle, in Sicilia, e ai centri di identificazione ed espulsione (Cie) dell'isola madre. In una coltre di "discrezione" che consenta di dire che gli sbarchi su questo scoglio di 20 chilometri quadrati si sono spenti d'incanto dopo il consiglio dei ministri che appena venerdì ha riscritto un significativo paragrafo della Bossi-Fini. Con la stessa rapidità con cui sono state soffocate prima, e cancellate dai palinsesti televisivi poi, le fiamme della rivolta tunisina nel centro di contrada Imbriacole. È una finzione che, a ben vedere si è già svelata, nella notte tra sabato e domenica, sulle rocce di Punta Sottile, dove un gommone ha scaricato nove ombre inebetite e incartapecorite da freddo, acqua e salsedine, che parlavano la lingua del Maghreb. È una finzione che deve sedare la collera di seimila isolani e del sindaco ribelle che ne è alla testa, un ex seminarista nato a Pantelleria, eletto con il Movimento per le Autonomie di Lombardo, che di nome fa Bernardino De Rubeis e ha inopinatamente cominciato a chiamare le cose con il loro nome. Qui, sulla terra ferma e persino a Bruxelles. Dimostrando che Lampedusa non è la nuova linea del Piave contro la spallata dei migranti del sud del mondo. Ma ne è e ne sarà solo la discarica. Non più luogo di transito della disperazione. Ma suo centro di stoccaggio e smaltimento definitivo.

IN PIAZZA Libertà, appesi agli infissi scrostati delle case che affacciano sul corso e a quelle del fatiscente Municipio, lenzuoli imbrattati di vernice rossa e verde lo raccontano a modo loro. "Le carceri al Nord, anche lì spazio ce n'è"; "Maroni affonda Lampedusa. Lampedusa affonda Maroni"; "Pacchetto vacanze Lampedusa 2009. Camera con vista mare, gita in barca con avvistamento clandestini. Visita guidata Centro di identificazione ed espulsione e la sera birra con amico africano. Inoltre, per la vostra sicurezza, un militare per ogni bella donna. Il tutto offerto dal presidente Berlusconi e dal ministro Maroni. Grazie". I numeri del Viminale dicono che alla mezzanotte di sabato 21 febbraio, nel Cie di contrada Imbriacole i detenuti, che la burocrazia dell'immigrazione chiama "ospiti", erano 579. Tutti tunisini. E che a quella stessa data e ora, il "dispositivo di sicurezza" sull'isola aveva raggiunto i seicento effettivi. Un uomo in divisa per ogni migrante. O, se si preferisce, un uomo in divisa ogni dieci isolani. Carabinieri dei battaglioni di stanza in Sicilia, reparti mobili della polizia di stato risucchiati dalle questure di Catania e Palermo, finanzieri, soldati di esercito e aeronautica militare assegnati all'operazione "Strade sicure". Occupano ogni posto letto disponibile sull'isola (gli alberghi sono al completo fino ad agosto) e hanno trasformato il paesaggio verde e turchese dell'isola in un pezzo di Ulster italiano. Soldati smontanti che fanno jogging sulle banchine. Cellulari per il trasporto dei reparti antisommossa parcheggiati con il muso rivolto verso l'oasi naturale dell'isola dei conigli. Scudi di plexiglass e sfollagente appoggiati all'ingresso delle taverne del porto dove vengono serviti spaghetti al nero di seppia e calamari alla plancia in convenzione con il Viminale. "Lei come la chiama questa, eh? La chiama isola o la chiama carcere? È Lampedusa o Guantanamo?", dice il sindaco. A Roma, gli danno ora del pazzo, ora dell'irresponsabile, ora del furbacchione pronto a flirtare con quel che resta dell'opposizione di centro-sinistra e, prima o poi, a scendere a patti con il Governo, magari in cambio di un congruo indennizzo. Lui sembra infischiarsene e ripete come un disco rotto quel che nessuno sembra disposto ad ascoltare sulla terra ferma. "Qui i senza futuro non ci possono stare. Noi possiamo continuare a fare quel che abbiamo fatto fino a un mese fa, quando il nostro era ancora un centro temporaneo di primo soccorso. Accogliere e strappare alla morte in mare chi arriva qui fuggendo la guerra e la miseria. Ma non possiamo fare di più. Lampedusa può essere un centro di transito, non può diventare la tomba dei clandestini in attesa di rimpatrio coatto". Per spegnere l'ex seminarista che si è fatto incendiario, è arrivata sull'isola la donna che, per anni, ne è stata il braccio destro. L'ex vicesindaco Angela Maraventano, nata, cresciuta e residente a Lampedusa, oggi senatrice della Repubblica eletta con la Lega in un collegio scelto a caso in quel dell'Emilia Romagna. Di De Rubeis, la Maraventano pensa e dice il peggio. Di quel che sarà o dovrà essere l'isola dice di essere sicura tanto quanto la maggioranza di governo che rappresenta: "Fine del buonismo. Chi arriva a Lampedusa deve sapere che da qui ripartirà solo per tornare a casa propria. Il sindaco non vuole il Cie? Io l'ho detto a Maroni: per me i centri li possiamo anche fare in mare. Sulle navi della marina, così questi che ancora ci provano non toccano neanche terra. Hanno bruciato il centro? E noi lo ricostruiamo. Subito. Provano a bruciarlo di nuovo? E noi gli togliamo gli accendini e le sigarette, che fanno anche male alla salute. Il piano Maroni funzionerà. Vedrete, se funzionerà". Le statistiche lasciano prevedere il contrario. Il 70 per cento dei migranti che raggiungono Lampedusa fugge le guerre del Corno d'Africa e non c'è decreto legge che possa metterne in discussione il diritto all'asilo politico, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Dunque, in Italia resteranno. Solo il trenta per cento (tunisini, marocchini, egiziani) arriva da quel Maghreb verso il quale dovrebbe essere rimpatriato. Ma è un numero così alto che non c'è discarica o prigione che possa contenerli. Novemila migranti maghrebini nel solo 2008. Vale a dire almeno otto volte il numero di clandestini per il quale gli accordi bilaterali chiusi dal nostro Paese consentono il rimpatrio coatto ogni anno. Non è un calcolo complicato. Se da domani non arrivasse sull'isola anche un solo maghrebino in più (e non sarà così), ci vorrebbero almeno sette anni per riportare indietro quelli che già sono in Italia. Ma nella logica di una gestione dell'emergenza che ricorda come un calco - persino nel linguaggio - quella dell'immondizia campana, lo stato di eccezione permanente si fa norma. A Lampedusa uomini e cose vengono impilati in buchi scavati nella terra. Gli uomini a Sud, nel centro sprofondato nella forra di contrada Imbriacole (le donne e i minori, in questi giorni assenti dall'isola, sono trattenuti nella ex base Loran dell'aeronautica, a Ponente). Le cose a nord, in una ferita aperta dalla Protezione civile tra le argille di Taccio Vecchio, area naturale a protezione integrale della Comunità europea, violata dalle ruspe della Protezione civile in nome delle "procedure in deroga" per gli stati di calamità. Tre colline di legno, gomma e ferro, dove, inclinati su un fianco come carcasse di cetacei, riposano i barconi della disperazione, marchiati al loro arrivo con la vernice rossa di chi li agguanta (G. F., guardia di Finanza; C. P. Capitaneria di Porto) e destinati ad essere "tritovagliati" insieme alla rumenta dell'isola. Simona Moscarelli, avvocato dell'Organizzazione Internazionale Migranti (una delle ong, che con "Save the children", l'Alto commissariato per le Nazioni Unite e la Croce Rossa lavora nel Centro di identificazione ed espulsione), racconta che ai prigionieri dell'isola nessuno ha ancora avuto il coraggio di comunicare quale sarà il loro destino. Che, verosimilmente, toccherà farlo a una delegazione del governo tunisino attesa per oggi. "Vogliamo prima capire se il decreto si applicherà anche a chi è sbarcato prima dell'approvazione della nuova legge", dice abbassando lo sguardo. Anche perché ricorda cosa è stato, sin qui, spiegare agli "ospiti" un altro dei buchi neri in cui la burocrazia dello smaltimento migranti ha sin qui annegato i ricorsi di chi, dichiarandosi minorenne, viene al contrario destinato al rimpatrio perché ritenuto maggiorenne. "La legge prevede il diritto di ricorso al Tar. Ma quello di Palermo si è dichiarato incompetente a favore dei giudici di pace di Agrigento. I quali, però, si sono detti a loro volta incompetenti. E comunque, chi ricorre non può contare sul gratuito patrocinio degli avvocati". Ricorrere è inutile. Quasi quanto chiedere oggi accesso al Centro. Non è un carcere, dicono. Ma, esattamente come un carcere, è ora impermeabile al mondo esterno "per motivi di incolumità". Gentili funzionari del Viminale assicurano che "tutto è tranquillo". Che "gli ospiti giocano persino a pallone". Dalla collina che lo sovrasta, lo spettacolo è diverso. Nei due bracci sopravvissuti all'incendio, separati dallo scheletro di lamiera dell'edificio fuso dal calore delle fiamme, una folla di uomini ciondola e spesso grida, agitando stracci dai ballatoi degli alloggi in cui è stipata. In brande e a terra. Nell'unico, angusto cortile, si sta seduti a gambe incrociate per l'appello, sotto lo sguardo di poliziotti trasformati in secondini. Tanto da strappare a Franco Maccari, segretario generale del Coisp, sindacato di polizia, arrivato sull'isola per guardare con i suoi occhi, che "in una situazione così degradante e allucinante, il peggio può ancora venire". Una nuova rivolta o magari un'altra notte come quella del 6 febbraio scorso. Alle 19 di quel venerdì, come ne documentano i registri di ingresso, arrivò nel poliambulatorio dell'isola il primo tunisino trasportato d'urgenza dal Centro. E dopo di lui, altri otto. Fino alle 5.20 del mattino. Nello stomaco di tutti, imprigionati in molliche di pane e morsi di patata, "corpi radio opachi". Lamette da barbiere. Nascoste nelle protesi dentarie al momento dello sbarco e ingoiate poi. Per bucarsi dentro e riuscire ad evadere dall'isola che si è fatta sarcofago.

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