Come ho spesso sostenuto, in queste pagine on line, se il pluralismo societario è la quintessenza del liberalismo, il pluralismo comunitario (o identitario) ne è il cancro. Per ‘pluralismo societario’ intendo sia la libera pluri – appartenenza – ‘libera’ in quanto dalle associazioni di cui si è scelto di far parte si può uscire quando si voglia senza incorrere in alcuna sanzione che non sia di biasimo da parte dei consoci dai quali ci si separa—sia, ed è forse l’attributo più rilevante, la distinzione delle sfere vitali : tra arte e scienza, tra diritto ed etica, tra politica e religione, tra economia e beneficenza etc. Per ‘pluralismo comunitario’ intendo, invece, una rete di mono – appartenenze esigenti e ‘totalitarie’ nel senso che definiscono l’identità delle persone in base al valore ultimo al quale tutti gli altri debbono subordinarsi in rigida gerarchia. Il primo vede nell’arruolamento in un gruppo una partecipazione a responsabilità limitata – il fedele di una chiesa, di una setta, di un partito è tante altre cose: se è uno scienziato non sarà la scienza a prescrivergli i suoi doveri di uomo o di cittadino ma non si lascerà poi condizionare dalle sue credenze nel giudizio sull’evoluzionismo e sul creazionismo. Il secondo vede nell’”appartenenza fondamentale” un impegno che investe tutta la personalità e la sua vita di relazione: se è un comunista sovietico “regolarmente iscritto al Partito”, per dirla con Woody Allen, non accetterà mai un principio come quello evoluzionistico in palese contraddizione con la dialettica della natura di Friedrich Engels. Purtroppo, la retorica delle ‘differenze’, da un lato, e il multiculturalismo, dall’altro, stanno erodendo, in maniera irreparabile, la ‘società aperta’. E quel che è peggio le metastasi sempre più numerose che avvolgono lo ‘Stato moderno’ passano talmente inosservate che pochissimi mostrano di rendersi conto che non ha senso rintuzzare i fautori della comunità chiusa battendosi sul loro terreno e facendo scegliere ad essi le armi. L’antisemitismo non si combatte con puntuali dimostrazioni che gli ebrei, nella storia passata e presente, hanno compiuto azioni e realizzato opere che li rendono eguali—se non superiori—agli ariani ma con l’argomento usato da Carlo Cattaneo, nella sua polemica contro gli scrittori tedeschi del suo tempo, che ragionar di razze è mestiere di zoologi e di allevatori di cavalli . E’ una saggezza che si va perdendo e con essa se ne sta andando anche la nostra libertà. Quest’ultima, infatti, diventa l’ombra di un sogno quando le dimensioni esistenziali si appiattiscono l’una sull’altra e in ogni momento del giorno, in ogni tipo di agire, nel lavoro come nello svago, si deve testimoniare l’ossequio alle filosofie garanti del pluralismo. In Italia, ormai, esse si riassumono in un solo principio, la “par condicio”, che, col passar del tempo, sta diventando un censore assai più rigido dei censori ecclesiastici, che nella Roma di Gregorio XVI, davano il nulla osta solo agli spettacoli e alle pubblicazioni in linea con la morale cattolica e gli insegnamenti della Chiesa. Ne reca testimonianza quanto è capitato al festival di Sanremo con la canzone di Giuseppe Povia, Luca era gay. Il testo racconta la storia di un ragazzo omosessuale che trova il suo grande amore in una ‘lei’ e prova altresì la gioia della paternità. “Luca era gay e adesso sta con lei/ Luca parla con il cuore in mano/ Luca dice sono un altro uomo. Luca non si vergogna del suo passato: questa è la mia storia solo la mia storia nessuna malattia nessuna guarigione/ caro papà ti ho perdonato anche se di qua non sei più tornato/ mamma ti penso spesso ti voglio bene e a volte ho ancora il tuo riflesso ma adesso sono padre e sono innamorato dell’unica donna che io abbia mai amato”. Non so quanto valga la musica (che non ho sentito) e certo al paroliere sarà difficile riservare un posticino nella storia della letteratura italiana, non è Jacques Prévert e neppure il nostro simpaticissimo e compianto Riccardo Pazzaglia. Sennonché delle qualità artistiche del brano, in un festival la cui ragion d’essere è quella di premiare le migliori canzoni dell’anno, non si è quasi parlato. L’estetica è stata brutalmente cacciata dalla scena e, al suo posto, è subentrato il “conflitto di civiltà”. Lo scaltro Paolo Bonolis, dopo l’esibizione di Povia, col tono serio dell’educatore collettivo, ha preso il microfono e annunciato: “Ho promesso a una persona che gli farò fare un intervento” e così, sul palco, è salito Franco Grillini il ‘pontifex maximus’ degli omosessuali italiani per il discorso ‘riparatore’. In un paese civile l’episodio avrebbe suscitato le ire degli eredi di Locke, di Voltaire, di Constant: da noi, nessuna indignazione, nessuna interpellanza parlamentare, nessuna protesta contro l’irruzione della catechesi in uno spettacolo teatrale e televisivo. Non poteva esserci più convincente dimostrazione della prepotenza sfacciata e intollerabile della ‘par condicio’ tesa ormai a far valere i suoi principi etico – egualitaristici in ogni ambito della vita individuale e collettiva e per nulla disposta a rimanere fuori della porta, quando sono in gioco l’arte e la scienza. Se Povia avesse eseguito un capolavoro dedicato, invece che a un gay convertito all’eterosessualità, a un eterosessuale scopertosi gay e contento di esserlo – “Luca era ‘normale’ e ora è ‘omosessuale” – , in base a questa logica, dopo l’esecuzione del brano, avrebbe dovuto prendere la parola Monsignor Rino Fisichella per ricordare che la Chiesa è piena di comprensione per i gay ma non li ritiene ‘normali’ e, pertanto, si rammarica dell’outing di Luca 2. Chi ha qualche dimestichezza con le opere di Oscar Wilde non dubita nemmeno per un attimo del disgusto che avrebbe provocato all’autore del ‘De Profundis’ il constatare come la battaglia da lui sostenuta per liberare l’arte dalla morale si fosse rovesciata in una nuova invasione dell’arte da parte della morale,dettata, questa volta, non più dal puritanesimo vittoriano ma dal puritanesimo progressista (per certi aspetti perfino peggiore). Si capisce meglio, sulla base di questo stile di pensiero, l’ostracismo dato, mezzo secolo fa a grandi figure della letteratura popolare o del ‘cinema di cassetta’ come Giovannino Guareschi o Totò. Come potevano produrre autentiche opere d’arte quanti, come loro, s’ispiravano a una morale qualunquistica, provinciale, infarcita di luoghi comuni piccolo – borghesi? Da allora, indubbiamente, le cose sono in parte cambiate e grazie alla ‘par condicio’ si possono leggere a scuola le storie di don Camillo a patto che poi ad esse facciano seguito, a mezza ruota, i racconti di Alberto Moravia o di Elsa Morante. A ben guardare, tuttavia, l’adozione di un trattamento imparziale è tutt’altro che rassicurante giacché non solo il principio dell’”ascolto delle due campane” entra dove non dovrebbe entrare ma assai spesso vi entra non per garantire “il pluralismo dei valori” ma per opporre all’errore e al pregiudizio morale la corretta visione del vero e del buono. Ridiamo pure col qualunquismo di Guareschi ma poi ristabiliamo la ‘verità storica’. Torniamo a Sanremo. E’ innegabile che mentre Povia ha finito per fare la figura dell’uomo della strada, pieno di pregiudizi sessuofobici – e contento, senza motivo, del ritorno di Luca alla ‘normalità’ – a Grillini è stato riservato il ruolo del portatore dell’autentico sapere, che rimette le cose a posto e demistifica davanti a una platea, che ‘voleva solo divertirsi’, le ipocrisie e le falsità della morale piccolo borghese. E’ come se, in fatto di omosessualità, la scienza, la morale, la psicologia avessero da tempo concluso i lavori e incaricato il leader dei gay italiani di farli conoscere al mondo, autorizzandolo a censurare l’inguaribile spirito parrocchiale ogni volta che rialza la testa . Se al ‘pluralismo comunitario’ venisse lasciato campo libero, non tutto sarebbe ancora perduto. Negli imperi d’antico regime, la molteplicità delle etnie, delle religioni, delle istituzioni produceva attitudini relativistiche e disposizioni oggettive al confronto, all’accordo o al compromesso col ‘diverso’, che talora si traducevano, a livello di società civile, in abiti della mente liberali, pur se incapaci di proiezioni politiche moderne. (Non si spiegherebbe altrimenti la fioritura della ‘scuola austriaca’ proprio sotto il dominio asburgico). A rovinare tutto, invece, è stata l’unione perversa di universalismo e pluralismo comunitario, col relativo potenziamento di quanto di negativo si annida nell’uno e nell’altro L’universalismo, infatti, è il lievito della ‘par condicio’, ultima (paradossale) espressione dell’egualitarismo messianico e rivoluzionario che da secoli incalza e ricatta la libertà, nella sua marcia faticosa attraverso una natura umana ostile e diffidente (la libertà è un peso che spesso ci si scuote di dosso con sollievo..). L’egualitarismo come “gusto depravato per l’eguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello”, – Tocqueville lo distingueva dalla “passione maschia e legittima per l’eguaglianza che spinge gli individui a voler essere tutti forti e stimati” – non essendo riuscito a livellare gli individui s’è preso la rivincita conferendo eguali diritti e riconoscimenti a tutte le appartenenze—religiose, culturali, etniche, linguistiche etc. E poiché diseguaglianza e discriminazione si annidano in tutti gli angoli del sociale, per assolvere a tale compito si sente autorizzato a snidarle, a smascherarle dovunque esse si celino. Per ora siamo solo agli inizi ma un domani, in nome della ‘par condicio’ livellatrice, si potrebbe esigere la censura del ‘5 maggio’. Perché quell’esultanza per la (presunta) conversione di Napoleone (“Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ Ché più superba altezza/Al disonor del Gòlgota/Giammai non si chinò”)? Per un ateo laicista, l’imperatore a Sant’Elena aveva abbandonato i sentieri della ragione per gettarsi tra le braccia della superstizione: bisogna rallegrarsi per questo o non piuttosto si ha il dovere di mettere in guardia gli studenti dal fare il gioco di Santa Romana Chiesa? Se proprio si vuol far leggere l’ode manzoniana almeno la si accompagni alla lettura delle pagine di Alfred Ayer in cui il filosofo, uscito dal coma, dimostra che oltre la morte non ‘è nulla, assolutamente nulla. Se non ci fosse la “par condicio” e il pluralismo comunitario potesse seguire le sue inclinazioni naturali, ci sarebbero una scuola cattolica in cui si esalta il ritorno di Bonaparte alla fede e una scuola laicista in cui ci si delizia con l’”Inno a Satana” del ruggente Giosuè Carducci. Entrambe pagate dalle famiglie e dalle più ampie tribù di appartenenza. A un dì presso, è quanto accadeva nelle vecchie unità imperiali in cui ogni gruppo faceva la sua vita di sempre all’interno di recinti sociali e culturali con scarso flusso di comunicazioni. Con l’irruzione dell’egualitarismo universalistico della ‘par condicio’, invece, le ‘appartenenze’ sono riconosciute, rispettate e persino esaltate (retoricamente) come necessarie all’arricchimento reciproco degli uomini del Terzo Millennio ma l’obbligo del rispetto—sempre più imposto per legge—si converte nell’amputazione di tutti quei loro modi di essere che possono urtare la suscettibilità degli ‘altri’ e attivare il loro odio. Un affresco nella basilica bolognese che raffiguri Maometto tra i dannati dell’Inferno non è più tollerabile dei versi “antisemiti” del sommo Dante – "se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/ si che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!" (‘Paradiso’ V). Insomma al coro pluralistico si ammettono tutte le voci… purché siano o vengano fatte diventare “voci bianche” ovvero purché i diversi teismi si convertano in deismi sempre più simili e sempre più innocui. E’ una ‘ideologia’, questa, che colpisce a morte il liberalismo inteso come esaltazione della concorrenza tra individui e culture che rifiutano il letto di Procuste dell’eguaglianza ma vogliono imporsi e primeggiare, nel libero mercato delle idee, convincendo gli individui a scegliere i loro prodotti culturali, religiosi, artistici, scientifici piuttosto che quelli della concorrenza. Nell’ottica di un pluralismo comunitario sostenuto dalle stecche egualitarie della par condicio, questo è ‘imperialismo culturale’, è ‘darwinismo sociale’ , è ‘fascismo’. Così, per sottrarsi, alla terribile accusa, lo stato sociale, tende a trattare tutti allo stesso modo: se è cultura ‘Giselle’ di Adolphe – Charles Adam, è cultura altresì la danza dei dervisci rotanti ed è giusto, pertanto, che lo Stato, in nome del pluralismo e della ‘par condicio’ finanzi l’una e l’altra. Col denaro del contribuente, of course!
sabato 21 febbraio 2009
Povia e Grillini
Cosa insegnano le performance di Povia e Grillini a Sanremo di Dino Cofrancesco
Come ho spesso sostenuto, in queste pagine on line, se il pluralismo societario è la quintessenza del liberalismo, il pluralismo comunitario (o identitario) ne è il cancro. Per ‘pluralismo societario’ intendo sia la libera pluri – appartenenza – ‘libera’ in quanto dalle associazioni di cui si è scelto di far parte si può uscire quando si voglia senza incorrere in alcuna sanzione che non sia di biasimo da parte dei consoci dai quali ci si separa—sia, ed è forse l’attributo più rilevante, la distinzione delle sfere vitali : tra arte e scienza, tra diritto ed etica, tra politica e religione, tra economia e beneficenza etc. Per ‘pluralismo comunitario’ intendo, invece, una rete di mono – appartenenze esigenti e ‘totalitarie’ nel senso che definiscono l’identità delle persone in base al valore ultimo al quale tutti gli altri debbono subordinarsi in rigida gerarchia. Il primo vede nell’arruolamento in un gruppo una partecipazione a responsabilità limitata – il fedele di una chiesa, di una setta, di un partito è tante altre cose: se è uno scienziato non sarà la scienza a prescrivergli i suoi doveri di uomo o di cittadino ma non si lascerà poi condizionare dalle sue credenze nel giudizio sull’evoluzionismo e sul creazionismo. Il secondo vede nell’”appartenenza fondamentale” un impegno che investe tutta la personalità e la sua vita di relazione: se è un comunista sovietico “regolarmente iscritto al Partito”, per dirla con Woody Allen, non accetterà mai un principio come quello evoluzionistico in palese contraddizione con la dialettica della natura di Friedrich Engels. Purtroppo, la retorica delle ‘differenze’, da un lato, e il multiculturalismo, dall’altro, stanno erodendo, in maniera irreparabile, la ‘società aperta’. E quel che è peggio le metastasi sempre più numerose che avvolgono lo ‘Stato moderno’ passano talmente inosservate che pochissimi mostrano di rendersi conto che non ha senso rintuzzare i fautori della comunità chiusa battendosi sul loro terreno e facendo scegliere ad essi le armi. L’antisemitismo non si combatte con puntuali dimostrazioni che gli ebrei, nella storia passata e presente, hanno compiuto azioni e realizzato opere che li rendono eguali—se non superiori—agli ariani ma con l’argomento usato da Carlo Cattaneo, nella sua polemica contro gli scrittori tedeschi del suo tempo, che ragionar di razze è mestiere di zoologi e di allevatori di cavalli . E’ una saggezza che si va perdendo e con essa se ne sta andando anche la nostra libertà. Quest’ultima, infatti, diventa l’ombra di un sogno quando le dimensioni esistenziali si appiattiscono l’una sull’altra e in ogni momento del giorno, in ogni tipo di agire, nel lavoro come nello svago, si deve testimoniare l’ossequio alle filosofie garanti del pluralismo. In Italia, ormai, esse si riassumono in un solo principio, la “par condicio”, che, col passar del tempo, sta diventando un censore assai più rigido dei censori ecclesiastici, che nella Roma di Gregorio XVI, davano il nulla osta solo agli spettacoli e alle pubblicazioni in linea con la morale cattolica e gli insegnamenti della Chiesa. Ne reca testimonianza quanto è capitato al festival di Sanremo con la canzone di Giuseppe Povia, Luca era gay. Il testo racconta la storia di un ragazzo omosessuale che trova il suo grande amore in una ‘lei’ e prova altresì la gioia della paternità. “Luca era gay e adesso sta con lei/ Luca parla con il cuore in mano/ Luca dice sono un altro uomo. Luca non si vergogna del suo passato: questa è la mia storia solo la mia storia nessuna malattia nessuna guarigione/ caro papà ti ho perdonato anche se di qua non sei più tornato/ mamma ti penso spesso ti voglio bene e a volte ho ancora il tuo riflesso ma adesso sono padre e sono innamorato dell’unica donna che io abbia mai amato”. Non so quanto valga la musica (che non ho sentito) e certo al paroliere sarà difficile riservare un posticino nella storia della letteratura italiana, non è Jacques Prévert e neppure il nostro simpaticissimo e compianto Riccardo Pazzaglia. Sennonché delle qualità artistiche del brano, in un festival la cui ragion d’essere è quella di premiare le migliori canzoni dell’anno, non si è quasi parlato. L’estetica è stata brutalmente cacciata dalla scena e, al suo posto, è subentrato il “conflitto di civiltà”. Lo scaltro Paolo Bonolis, dopo l’esibizione di Povia, col tono serio dell’educatore collettivo, ha preso il microfono e annunciato: “Ho promesso a una persona che gli farò fare un intervento” e così, sul palco, è salito Franco Grillini il ‘pontifex maximus’ degli omosessuali italiani per il discorso ‘riparatore’. In un paese civile l’episodio avrebbe suscitato le ire degli eredi di Locke, di Voltaire, di Constant: da noi, nessuna indignazione, nessuna interpellanza parlamentare, nessuna protesta contro l’irruzione della catechesi in uno spettacolo teatrale e televisivo. Non poteva esserci più convincente dimostrazione della prepotenza sfacciata e intollerabile della ‘par condicio’ tesa ormai a far valere i suoi principi etico – egualitaristici in ogni ambito della vita individuale e collettiva e per nulla disposta a rimanere fuori della porta, quando sono in gioco l’arte e la scienza. Se Povia avesse eseguito un capolavoro dedicato, invece che a un gay convertito all’eterosessualità, a un eterosessuale scopertosi gay e contento di esserlo – “Luca era ‘normale’ e ora è ‘omosessuale” – , in base a questa logica, dopo l’esecuzione del brano, avrebbe dovuto prendere la parola Monsignor Rino Fisichella per ricordare che la Chiesa è piena di comprensione per i gay ma non li ritiene ‘normali’ e, pertanto, si rammarica dell’outing di Luca 2. Chi ha qualche dimestichezza con le opere di Oscar Wilde non dubita nemmeno per un attimo del disgusto che avrebbe provocato all’autore del ‘De Profundis’ il constatare come la battaglia da lui sostenuta per liberare l’arte dalla morale si fosse rovesciata in una nuova invasione dell’arte da parte della morale,dettata, questa volta, non più dal puritanesimo vittoriano ma dal puritanesimo progressista (per certi aspetti perfino peggiore). Si capisce meglio, sulla base di questo stile di pensiero, l’ostracismo dato, mezzo secolo fa a grandi figure della letteratura popolare o del ‘cinema di cassetta’ come Giovannino Guareschi o Totò. Come potevano produrre autentiche opere d’arte quanti, come loro, s’ispiravano a una morale qualunquistica, provinciale, infarcita di luoghi comuni piccolo – borghesi? Da allora, indubbiamente, le cose sono in parte cambiate e grazie alla ‘par condicio’ si possono leggere a scuola le storie di don Camillo a patto che poi ad esse facciano seguito, a mezza ruota, i racconti di Alberto Moravia o di Elsa Morante. A ben guardare, tuttavia, l’adozione di un trattamento imparziale è tutt’altro che rassicurante giacché non solo il principio dell’”ascolto delle due campane” entra dove non dovrebbe entrare ma assai spesso vi entra non per garantire “il pluralismo dei valori” ma per opporre all’errore e al pregiudizio morale la corretta visione del vero e del buono. Ridiamo pure col qualunquismo di Guareschi ma poi ristabiliamo la ‘verità storica’. Torniamo a Sanremo. E’ innegabile che mentre Povia ha finito per fare la figura dell’uomo della strada, pieno di pregiudizi sessuofobici – e contento, senza motivo, del ritorno di Luca alla ‘normalità’ – a Grillini è stato riservato il ruolo del portatore dell’autentico sapere, che rimette le cose a posto e demistifica davanti a una platea, che ‘voleva solo divertirsi’, le ipocrisie e le falsità della morale piccolo borghese. E’ come se, in fatto di omosessualità, la scienza, la morale, la psicologia avessero da tempo concluso i lavori e incaricato il leader dei gay italiani di farli conoscere al mondo, autorizzandolo a censurare l’inguaribile spirito parrocchiale ogni volta che rialza la testa . Se al ‘pluralismo comunitario’ venisse lasciato campo libero, non tutto sarebbe ancora perduto. Negli imperi d’antico regime, la molteplicità delle etnie, delle religioni, delle istituzioni produceva attitudini relativistiche e disposizioni oggettive al confronto, all’accordo o al compromesso col ‘diverso’, che talora si traducevano, a livello di società civile, in abiti della mente liberali, pur se incapaci di proiezioni politiche moderne. (Non si spiegherebbe altrimenti la fioritura della ‘scuola austriaca’ proprio sotto il dominio asburgico). A rovinare tutto, invece, è stata l’unione perversa di universalismo e pluralismo comunitario, col relativo potenziamento di quanto di negativo si annida nell’uno e nell’altro L’universalismo, infatti, è il lievito della ‘par condicio’, ultima (paradossale) espressione dell’egualitarismo messianico e rivoluzionario che da secoli incalza e ricatta la libertà, nella sua marcia faticosa attraverso una natura umana ostile e diffidente (la libertà è un peso che spesso ci si scuote di dosso con sollievo..). L’egualitarismo come “gusto depravato per l’eguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello”, – Tocqueville lo distingueva dalla “passione maschia e legittima per l’eguaglianza che spinge gli individui a voler essere tutti forti e stimati” – non essendo riuscito a livellare gli individui s’è preso la rivincita conferendo eguali diritti e riconoscimenti a tutte le appartenenze—religiose, culturali, etniche, linguistiche etc. E poiché diseguaglianza e discriminazione si annidano in tutti gli angoli del sociale, per assolvere a tale compito si sente autorizzato a snidarle, a smascherarle dovunque esse si celino. Per ora siamo solo agli inizi ma un domani, in nome della ‘par condicio’ livellatrice, si potrebbe esigere la censura del ‘5 maggio’. Perché quell’esultanza per la (presunta) conversione di Napoleone (“Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ Ché più superba altezza/Al disonor del Gòlgota/Giammai non si chinò”)? Per un ateo laicista, l’imperatore a Sant’Elena aveva abbandonato i sentieri della ragione per gettarsi tra le braccia della superstizione: bisogna rallegrarsi per questo o non piuttosto si ha il dovere di mettere in guardia gli studenti dal fare il gioco di Santa Romana Chiesa? Se proprio si vuol far leggere l’ode manzoniana almeno la si accompagni alla lettura delle pagine di Alfred Ayer in cui il filosofo, uscito dal coma, dimostra che oltre la morte non ‘è nulla, assolutamente nulla. Se non ci fosse la “par condicio” e il pluralismo comunitario potesse seguire le sue inclinazioni naturali, ci sarebbero una scuola cattolica in cui si esalta il ritorno di Bonaparte alla fede e una scuola laicista in cui ci si delizia con l’”Inno a Satana” del ruggente Giosuè Carducci. Entrambe pagate dalle famiglie e dalle più ampie tribù di appartenenza. A un dì presso, è quanto accadeva nelle vecchie unità imperiali in cui ogni gruppo faceva la sua vita di sempre all’interno di recinti sociali e culturali con scarso flusso di comunicazioni. Con l’irruzione dell’egualitarismo universalistico della ‘par condicio’, invece, le ‘appartenenze’ sono riconosciute, rispettate e persino esaltate (retoricamente) come necessarie all’arricchimento reciproco degli uomini del Terzo Millennio ma l’obbligo del rispetto—sempre più imposto per legge—si converte nell’amputazione di tutti quei loro modi di essere che possono urtare la suscettibilità degli ‘altri’ e attivare il loro odio. Un affresco nella basilica bolognese che raffiguri Maometto tra i dannati dell’Inferno non è più tollerabile dei versi “antisemiti” del sommo Dante – "se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/ si che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!" (‘Paradiso’ V). Insomma al coro pluralistico si ammettono tutte le voci… purché siano o vengano fatte diventare “voci bianche” ovvero purché i diversi teismi si convertano in deismi sempre più simili e sempre più innocui. E’ una ‘ideologia’, questa, che colpisce a morte il liberalismo inteso come esaltazione della concorrenza tra individui e culture che rifiutano il letto di Procuste dell’eguaglianza ma vogliono imporsi e primeggiare, nel libero mercato delle idee, convincendo gli individui a scegliere i loro prodotti culturali, religiosi, artistici, scientifici piuttosto che quelli della concorrenza. Nell’ottica di un pluralismo comunitario sostenuto dalle stecche egualitarie della par condicio, questo è ‘imperialismo culturale’, è ‘darwinismo sociale’ , è ‘fascismo’. Così, per sottrarsi, alla terribile accusa, lo stato sociale, tende a trattare tutti allo stesso modo: se è cultura ‘Giselle’ di Adolphe – Charles Adam, è cultura altresì la danza dei dervisci rotanti ed è giusto, pertanto, che lo Stato, in nome del pluralismo e della ‘par condicio’ finanzi l’una e l’altra. Col denaro del contribuente, of course!
Come ho spesso sostenuto, in queste pagine on line, se il pluralismo societario è la quintessenza del liberalismo, il pluralismo comunitario (o identitario) ne è il cancro. Per ‘pluralismo societario’ intendo sia la libera pluri – appartenenza – ‘libera’ in quanto dalle associazioni di cui si è scelto di far parte si può uscire quando si voglia senza incorrere in alcuna sanzione che non sia di biasimo da parte dei consoci dai quali ci si separa—sia, ed è forse l’attributo più rilevante, la distinzione delle sfere vitali : tra arte e scienza, tra diritto ed etica, tra politica e religione, tra economia e beneficenza etc. Per ‘pluralismo comunitario’ intendo, invece, una rete di mono – appartenenze esigenti e ‘totalitarie’ nel senso che definiscono l’identità delle persone in base al valore ultimo al quale tutti gli altri debbono subordinarsi in rigida gerarchia. Il primo vede nell’arruolamento in un gruppo una partecipazione a responsabilità limitata – il fedele di una chiesa, di una setta, di un partito è tante altre cose: se è uno scienziato non sarà la scienza a prescrivergli i suoi doveri di uomo o di cittadino ma non si lascerà poi condizionare dalle sue credenze nel giudizio sull’evoluzionismo e sul creazionismo. Il secondo vede nell’”appartenenza fondamentale” un impegno che investe tutta la personalità e la sua vita di relazione: se è un comunista sovietico “regolarmente iscritto al Partito”, per dirla con Woody Allen, non accetterà mai un principio come quello evoluzionistico in palese contraddizione con la dialettica della natura di Friedrich Engels. Purtroppo, la retorica delle ‘differenze’, da un lato, e il multiculturalismo, dall’altro, stanno erodendo, in maniera irreparabile, la ‘società aperta’. E quel che è peggio le metastasi sempre più numerose che avvolgono lo ‘Stato moderno’ passano talmente inosservate che pochissimi mostrano di rendersi conto che non ha senso rintuzzare i fautori della comunità chiusa battendosi sul loro terreno e facendo scegliere ad essi le armi. L’antisemitismo non si combatte con puntuali dimostrazioni che gli ebrei, nella storia passata e presente, hanno compiuto azioni e realizzato opere che li rendono eguali—se non superiori—agli ariani ma con l’argomento usato da Carlo Cattaneo, nella sua polemica contro gli scrittori tedeschi del suo tempo, che ragionar di razze è mestiere di zoologi e di allevatori di cavalli . E’ una saggezza che si va perdendo e con essa se ne sta andando anche la nostra libertà. Quest’ultima, infatti, diventa l’ombra di un sogno quando le dimensioni esistenziali si appiattiscono l’una sull’altra e in ogni momento del giorno, in ogni tipo di agire, nel lavoro come nello svago, si deve testimoniare l’ossequio alle filosofie garanti del pluralismo. In Italia, ormai, esse si riassumono in un solo principio, la “par condicio”, che, col passar del tempo, sta diventando un censore assai più rigido dei censori ecclesiastici, che nella Roma di Gregorio XVI, davano il nulla osta solo agli spettacoli e alle pubblicazioni in linea con la morale cattolica e gli insegnamenti della Chiesa. Ne reca testimonianza quanto è capitato al festival di Sanremo con la canzone di Giuseppe Povia, Luca era gay. Il testo racconta la storia di un ragazzo omosessuale che trova il suo grande amore in una ‘lei’ e prova altresì la gioia della paternità. “Luca era gay e adesso sta con lei/ Luca parla con il cuore in mano/ Luca dice sono un altro uomo. Luca non si vergogna del suo passato: questa è la mia storia solo la mia storia nessuna malattia nessuna guarigione/ caro papà ti ho perdonato anche se di qua non sei più tornato/ mamma ti penso spesso ti voglio bene e a volte ho ancora il tuo riflesso ma adesso sono padre e sono innamorato dell’unica donna che io abbia mai amato”. Non so quanto valga la musica (che non ho sentito) e certo al paroliere sarà difficile riservare un posticino nella storia della letteratura italiana, non è Jacques Prévert e neppure il nostro simpaticissimo e compianto Riccardo Pazzaglia. Sennonché delle qualità artistiche del brano, in un festival la cui ragion d’essere è quella di premiare le migliori canzoni dell’anno, non si è quasi parlato. L’estetica è stata brutalmente cacciata dalla scena e, al suo posto, è subentrato il “conflitto di civiltà”. Lo scaltro Paolo Bonolis, dopo l’esibizione di Povia, col tono serio dell’educatore collettivo, ha preso il microfono e annunciato: “Ho promesso a una persona che gli farò fare un intervento” e così, sul palco, è salito Franco Grillini il ‘pontifex maximus’ degli omosessuali italiani per il discorso ‘riparatore’. In un paese civile l’episodio avrebbe suscitato le ire degli eredi di Locke, di Voltaire, di Constant: da noi, nessuna indignazione, nessuna interpellanza parlamentare, nessuna protesta contro l’irruzione della catechesi in uno spettacolo teatrale e televisivo. Non poteva esserci più convincente dimostrazione della prepotenza sfacciata e intollerabile della ‘par condicio’ tesa ormai a far valere i suoi principi etico – egualitaristici in ogni ambito della vita individuale e collettiva e per nulla disposta a rimanere fuori della porta, quando sono in gioco l’arte e la scienza. Se Povia avesse eseguito un capolavoro dedicato, invece che a un gay convertito all’eterosessualità, a un eterosessuale scopertosi gay e contento di esserlo – “Luca era ‘normale’ e ora è ‘omosessuale” – , in base a questa logica, dopo l’esecuzione del brano, avrebbe dovuto prendere la parola Monsignor Rino Fisichella per ricordare che la Chiesa è piena di comprensione per i gay ma non li ritiene ‘normali’ e, pertanto, si rammarica dell’outing di Luca 2. Chi ha qualche dimestichezza con le opere di Oscar Wilde non dubita nemmeno per un attimo del disgusto che avrebbe provocato all’autore del ‘De Profundis’ il constatare come la battaglia da lui sostenuta per liberare l’arte dalla morale si fosse rovesciata in una nuova invasione dell’arte da parte della morale,dettata, questa volta, non più dal puritanesimo vittoriano ma dal puritanesimo progressista (per certi aspetti perfino peggiore). Si capisce meglio, sulla base di questo stile di pensiero, l’ostracismo dato, mezzo secolo fa a grandi figure della letteratura popolare o del ‘cinema di cassetta’ come Giovannino Guareschi o Totò. Come potevano produrre autentiche opere d’arte quanti, come loro, s’ispiravano a una morale qualunquistica, provinciale, infarcita di luoghi comuni piccolo – borghesi? Da allora, indubbiamente, le cose sono in parte cambiate e grazie alla ‘par condicio’ si possono leggere a scuola le storie di don Camillo a patto che poi ad esse facciano seguito, a mezza ruota, i racconti di Alberto Moravia o di Elsa Morante. A ben guardare, tuttavia, l’adozione di un trattamento imparziale è tutt’altro che rassicurante giacché non solo il principio dell’”ascolto delle due campane” entra dove non dovrebbe entrare ma assai spesso vi entra non per garantire “il pluralismo dei valori” ma per opporre all’errore e al pregiudizio morale la corretta visione del vero e del buono. Ridiamo pure col qualunquismo di Guareschi ma poi ristabiliamo la ‘verità storica’. Torniamo a Sanremo. E’ innegabile che mentre Povia ha finito per fare la figura dell’uomo della strada, pieno di pregiudizi sessuofobici – e contento, senza motivo, del ritorno di Luca alla ‘normalità’ – a Grillini è stato riservato il ruolo del portatore dell’autentico sapere, che rimette le cose a posto e demistifica davanti a una platea, che ‘voleva solo divertirsi’, le ipocrisie e le falsità della morale piccolo borghese. E’ come se, in fatto di omosessualità, la scienza, la morale, la psicologia avessero da tempo concluso i lavori e incaricato il leader dei gay italiani di farli conoscere al mondo, autorizzandolo a censurare l’inguaribile spirito parrocchiale ogni volta che rialza la testa . Se al ‘pluralismo comunitario’ venisse lasciato campo libero, non tutto sarebbe ancora perduto. Negli imperi d’antico regime, la molteplicità delle etnie, delle religioni, delle istituzioni produceva attitudini relativistiche e disposizioni oggettive al confronto, all’accordo o al compromesso col ‘diverso’, che talora si traducevano, a livello di società civile, in abiti della mente liberali, pur se incapaci di proiezioni politiche moderne. (Non si spiegherebbe altrimenti la fioritura della ‘scuola austriaca’ proprio sotto il dominio asburgico). A rovinare tutto, invece, è stata l’unione perversa di universalismo e pluralismo comunitario, col relativo potenziamento di quanto di negativo si annida nell’uno e nell’altro L’universalismo, infatti, è il lievito della ‘par condicio’, ultima (paradossale) espressione dell’egualitarismo messianico e rivoluzionario che da secoli incalza e ricatta la libertà, nella sua marcia faticosa attraverso una natura umana ostile e diffidente (la libertà è un peso che spesso ci si scuote di dosso con sollievo..). L’egualitarismo come “gusto depravato per l’eguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello”, – Tocqueville lo distingueva dalla “passione maschia e legittima per l’eguaglianza che spinge gli individui a voler essere tutti forti e stimati” – non essendo riuscito a livellare gli individui s’è preso la rivincita conferendo eguali diritti e riconoscimenti a tutte le appartenenze—religiose, culturali, etniche, linguistiche etc. E poiché diseguaglianza e discriminazione si annidano in tutti gli angoli del sociale, per assolvere a tale compito si sente autorizzato a snidarle, a smascherarle dovunque esse si celino. Per ora siamo solo agli inizi ma un domani, in nome della ‘par condicio’ livellatrice, si potrebbe esigere la censura del ‘5 maggio’. Perché quell’esultanza per la (presunta) conversione di Napoleone (“Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ Ché più superba altezza/Al disonor del Gòlgota/Giammai non si chinò”)? Per un ateo laicista, l’imperatore a Sant’Elena aveva abbandonato i sentieri della ragione per gettarsi tra le braccia della superstizione: bisogna rallegrarsi per questo o non piuttosto si ha il dovere di mettere in guardia gli studenti dal fare il gioco di Santa Romana Chiesa? Se proprio si vuol far leggere l’ode manzoniana almeno la si accompagni alla lettura delle pagine di Alfred Ayer in cui il filosofo, uscito dal coma, dimostra che oltre la morte non ‘è nulla, assolutamente nulla. Se non ci fosse la “par condicio” e il pluralismo comunitario potesse seguire le sue inclinazioni naturali, ci sarebbero una scuola cattolica in cui si esalta il ritorno di Bonaparte alla fede e una scuola laicista in cui ci si delizia con l’”Inno a Satana” del ruggente Giosuè Carducci. Entrambe pagate dalle famiglie e dalle più ampie tribù di appartenenza. A un dì presso, è quanto accadeva nelle vecchie unità imperiali in cui ogni gruppo faceva la sua vita di sempre all’interno di recinti sociali e culturali con scarso flusso di comunicazioni. Con l’irruzione dell’egualitarismo universalistico della ‘par condicio’, invece, le ‘appartenenze’ sono riconosciute, rispettate e persino esaltate (retoricamente) come necessarie all’arricchimento reciproco degli uomini del Terzo Millennio ma l’obbligo del rispetto—sempre più imposto per legge—si converte nell’amputazione di tutti quei loro modi di essere che possono urtare la suscettibilità degli ‘altri’ e attivare il loro odio. Un affresco nella basilica bolognese che raffiguri Maometto tra i dannati dell’Inferno non è più tollerabile dei versi “antisemiti” del sommo Dante – "se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/ si che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!" (‘Paradiso’ V). Insomma al coro pluralistico si ammettono tutte le voci… purché siano o vengano fatte diventare “voci bianche” ovvero purché i diversi teismi si convertano in deismi sempre più simili e sempre più innocui. E’ una ‘ideologia’, questa, che colpisce a morte il liberalismo inteso come esaltazione della concorrenza tra individui e culture che rifiutano il letto di Procuste dell’eguaglianza ma vogliono imporsi e primeggiare, nel libero mercato delle idee, convincendo gli individui a scegliere i loro prodotti culturali, religiosi, artistici, scientifici piuttosto che quelli della concorrenza. Nell’ottica di un pluralismo comunitario sostenuto dalle stecche egualitarie della par condicio, questo è ‘imperialismo culturale’, è ‘darwinismo sociale’ , è ‘fascismo’. Così, per sottrarsi, alla terribile accusa, lo stato sociale, tende a trattare tutti allo stesso modo: se è cultura ‘Giselle’ di Adolphe – Charles Adam, è cultura altresì la danza dei dervisci rotanti ed è giusto, pertanto, che lo Stato, in nome del pluralismo e della ‘par condicio’ finanzi l’una e l’altra. Col denaro del contribuente, of course!
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2 commenti:
Bonolis probabilmente ha sfruttato l'occasione per fare ascolti e mobilitare le lobies omosessuali perchè partecipino trepidanti al festival, votando, seguendolo e tifando "contro" il povero Povia. Quanto alla par condicio si è dimenticato di dire che opera solo a senso unico. Viene "ristabilita" solo se ad essere "trascurata" è la parte che è nell'ambito del "politicamente corretto". Se, invece, una trasmissione, una canzone, un intervento è sbilanciato dall'altra parte (veggasi nello stesso Sanremo lo squallido esempio di Benigni) allora non si applica alcuna par condicio. Chissà mai perchè ... ;-)
Tra l'altro, Benigni ha parlato di Oscar Wilde. Io sapevo comunque che Wilde non era una brava persona. Era in primis bisessuale (aveva moglie e figli sparsi qui e là) e peggio, amava trastullarsi coi minorenni. Benigni (omo de cultura) ha portato un esempio sbagliato a mio avviso. I pedofili sono bestie. E lui lo ha elevato a grande uomo. Si può dire che è un grande scrittore, si. Ma non lo si può prendere come bell'esempio di uomo. Solo che quasi nessuno ci ha fatto caso a 'sta cosa. Altro che par condicio. Coglioni noi che paghiamo il canone. Con la differenza che a Povia lo hanno fatto nero perchè ha raccontato una storia vera. E Benigni ha santificato un porco.
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