È lecito, in tempi di crisi come questi, pretendere che i lavoratori nazionali vengano prima di quelli immigrati? In Italia, no. Qui ogni tentativo della manodopera locale di essere presa in considerazione prima di quella straniera è etichettato come inquinamento leghista della coscienza proletaria, e in quanto tale subito represso. I sindacati tappezzano le città di manifesti per dirci che i lavoratori sono tutti uguali, da qualunque parte del mondo vengano. Dalla parità di trattamento, spesso si sconfina addirittura nella “affirmative action”, la disparità in favore dei nuovi arrivati. È così che molte amministrazioni locali sono arrivate a finanziare, tramite prestiti e agevolazioni fiscali, le piccole imprese degli immigrati. Il risultato, ad esempio, è che gli stra-tassati negozianti italiani finanziano, con le loro imposte, i loro concorrenti immigrati, che così riescono facilmente a cacciarli fuori dal mercato. Chi avesse dubbi, vada a fare un giro nelle strade del centro di città come Bologna, e chieda a un fruttivendolo autoctono, se ne è rimasto qualcuno, come se la passa. Tutto molto inclusivo, per usare uno degli aggettivi più in voga di questi tempi. Scelte benedette anche da vescovi, imprenditori e dal novantanove per cento dei politici e dei commentatori. Ma non è così ovunque. E lo sarà sempre di meno, se la crisi continua a mordere e la disoccupazione sale. Benvenuti nell’Europa unita e solidale. Nel civilissimo Regno Unito, governato dal progressista Labour Party, i compagni lavoratori protestano e scioperano contro gli immigrati che levano loro il posto. Il caso vuole che si tratti di immigrati europei. Italiani e portoghesi, per l’esattezza. I colleghi delle tute blu lasciate a spasso per colpa dei terroni d’Europa manifestano in tutto il paese, in segno di solidarietà. I sindacati si rivolgono al governo, mettono al lavoro gli avvocati e denunciano la perdita dei posti di lavoro inglesi a vantaggio della manodopera importata come «immorale, potenzialmente illegale e politicamente pericolosa». La pubblica informazione e una vasta parte della classe politica, a differenza di quanto accade dalle nostre parti, stanno con loro. Le proteste sono iniziate nella raffineria Lindsey Oil, nel Lincolnshire, est dell’Inghilterra. All’origine c’è la decisione della Total, che gestisce l’impianto, di affidare i lavori di ampliamento a un’impresa italiana, la Irem, vincitrice di un regolarissimo appalto. La Irem ha bisogno di manodopera specializzata e ha solo quattro mesi di tempo per portare a termine i lavori. Ha quindi previsto, già ai tempi in cui è stato raggiunto l’accordo, di usare i propri dipendenti italiani e portoghesi, addestrati per simili operazioni. Cento sono già al lavoro nel cantiere e altri trecento arriveranno nel giro di un mese. Una scelta che i lavoratori del luogo non hanno digerito. A centinaia hanno iniziato a protestare, alzando cartelli con la scritta «British jobs for British workers», «Lavori inglesi per lavoratori inglesi», slogan del primo ministro Gordon Brown che adesso rischia di ritorcersi contro il suo autore. Gli scioperi di solidarietà si sono subito estesi nelle raffinerie e nelle centrali elettriche di tutto il paese, inclusi Scozia e Galles. Hanno incrociato le braccia circa duemila lavoratori, in 17 diversi impianti. Per lunedì è prevista una grande manifestazione, e gli organizzatori delle proteste avvertono che le loro iniziative si allargheranno «come incendi» finché italiani e portoghesi non se ne andranno. Nessuno, da quelle parti, li tratta come xenofobi. Per tutti, sono semplicemente padri e madri di famiglia che difendono il loro diritto alla pagnotta. Iniziando dal principale sindacato nazionale, che si chiama Unite, conta oltre due milioni di iscritti e, manco a dirlo, è di sinistra. «Il governo deve agire rapidamente e pretendere che le compagnie diano ai lavoratori del Regno Unito pari opportunità nella costruzione delle infrastrutture inglesi», si legge nel comunicato scritto ieri dai vertici del sindacato, nel quale si annuncia anche la presentazione di azioni giudiziarie. «È una lotta per il nostro diritto al lavoro, non un attacco razzista», giura un dirigente di Unite. Gordon Brown nicchia, schiacciato tra gli impegni presi con i suoi connazionali e i regolamenti europei che gli impongono di garantire la libera circolazione dei lavoratori. Tramite un portavoce, il primo ministro inglese fa sapere che il contratto tra la Total e l’azienda italiana era stato siglato quando ancora la crisi non era arrivata e nell’industria delle costruzioni c’era carenza di manodopera qualificata. Quasi un modo per scusarsi di quanto avvenuto. Ma il suo ministro dell’Ambiente, Hilary Benn, anche lui membro del Partito laburista, non ha problemi a schierarsi dalla parte dei manifestanti: «I nostri lavoratori hanno diritto ad avere una risposta», avverte. L’opposizione conservatrice, intanto, chiede al governo di varare nuove norme per garantire ai lavoratori inglesi il diritto di precedenza sugli altri: «Quando le circostanze cambiano, anche le leggi debbono cambiare». Sono in molti, oltremanica, a pensarla così. Pure i media inglesi sono schierati dalla parte dei lavoratori. La Bbc mette la protesta delle tute blu tra i titoli più importanti del notiziario. Il quotidiano conservatore Daily Mail pubblica la foto di tre operai italiani che lavorano al cantiere: uno mostra ai reporter e agli inglesi che manifestano contro di loro il dito medio, un altro fa il gesto dell’ombrello. Tutti i giornali d’Oltremanica mettono in evidenza che gli italiani e i portoghesi sono alloggiati in «larghe chiatte galleggianti ormeggiate al molo di Grimsby». A sottintendere che, oltre allo stipendio, hanno anche l’alloggio gratis. Un altro tabloid, il Daily Express, raccoglie lo sfogo dei lavoratori del luogo, secondo il quale gli italiani lavorano male e non rispettano le norme di sicurezza. La guerra tra poveri è iniziata. La speranza è che, alla fine, non siano sempre i lavoratori italiani a rimetterci. In Italia perché lasciati indifesi da sindacati, forze politiche e organi di stampa che, per conformismo buonista e paura di essere accusati di xenofobia, li trattano al pari degli altri. All’estero perché vittime delle scelte autarchiche di sindacati, forze politiche e organi di stampa forse meno equi e solidali dei nostri, ma di sicuro molto più attenti ai bisogni dei loro connazionali.
sabato 31 gennaio 2009
Europa
Se gli inglesi si rivoltano contro i lavoratori italiani di Fausto Carioti
È lecito, in tempi di crisi come questi, pretendere che i lavoratori nazionali vengano prima di quelli immigrati? In Italia, no. Qui ogni tentativo della manodopera locale di essere presa in considerazione prima di quella straniera è etichettato come inquinamento leghista della coscienza proletaria, e in quanto tale subito represso. I sindacati tappezzano le città di manifesti per dirci che i lavoratori sono tutti uguali, da qualunque parte del mondo vengano. Dalla parità di trattamento, spesso si sconfina addirittura nella “affirmative action”, la disparità in favore dei nuovi arrivati. È così che molte amministrazioni locali sono arrivate a finanziare, tramite prestiti e agevolazioni fiscali, le piccole imprese degli immigrati. Il risultato, ad esempio, è che gli stra-tassati negozianti italiani finanziano, con le loro imposte, i loro concorrenti immigrati, che così riescono facilmente a cacciarli fuori dal mercato. Chi avesse dubbi, vada a fare un giro nelle strade del centro di città come Bologna, e chieda a un fruttivendolo autoctono, se ne è rimasto qualcuno, come se la passa. Tutto molto inclusivo, per usare uno degli aggettivi più in voga di questi tempi. Scelte benedette anche da vescovi, imprenditori e dal novantanove per cento dei politici e dei commentatori. Ma non è così ovunque. E lo sarà sempre di meno, se la crisi continua a mordere e la disoccupazione sale. Benvenuti nell’Europa unita e solidale. Nel civilissimo Regno Unito, governato dal progressista Labour Party, i compagni lavoratori protestano e scioperano contro gli immigrati che levano loro il posto. Il caso vuole che si tratti di immigrati europei. Italiani e portoghesi, per l’esattezza. I colleghi delle tute blu lasciate a spasso per colpa dei terroni d’Europa manifestano in tutto il paese, in segno di solidarietà. I sindacati si rivolgono al governo, mettono al lavoro gli avvocati e denunciano la perdita dei posti di lavoro inglesi a vantaggio della manodopera importata come «immorale, potenzialmente illegale e politicamente pericolosa». La pubblica informazione e una vasta parte della classe politica, a differenza di quanto accade dalle nostre parti, stanno con loro. Le proteste sono iniziate nella raffineria Lindsey Oil, nel Lincolnshire, est dell’Inghilterra. All’origine c’è la decisione della Total, che gestisce l’impianto, di affidare i lavori di ampliamento a un’impresa italiana, la Irem, vincitrice di un regolarissimo appalto. La Irem ha bisogno di manodopera specializzata e ha solo quattro mesi di tempo per portare a termine i lavori. Ha quindi previsto, già ai tempi in cui è stato raggiunto l’accordo, di usare i propri dipendenti italiani e portoghesi, addestrati per simili operazioni. Cento sono già al lavoro nel cantiere e altri trecento arriveranno nel giro di un mese. Una scelta che i lavoratori del luogo non hanno digerito. A centinaia hanno iniziato a protestare, alzando cartelli con la scritta «British jobs for British workers», «Lavori inglesi per lavoratori inglesi», slogan del primo ministro Gordon Brown che adesso rischia di ritorcersi contro il suo autore. Gli scioperi di solidarietà si sono subito estesi nelle raffinerie e nelle centrali elettriche di tutto il paese, inclusi Scozia e Galles. Hanno incrociato le braccia circa duemila lavoratori, in 17 diversi impianti. Per lunedì è prevista una grande manifestazione, e gli organizzatori delle proteste avvertono che le loro iniziative si allargheranno «come incendi» finché italiani e portoghesi non se ne andranno. Nessuno, da quelle parti, li tratta come xenofobi. Per tutti, sono semplicemente padri e madri di famiglia che difendono il loro diritto alla pagnotta. Iniziando dal principale sindacato nazionale, che si chiama Unite, conta oltre due milioni di iscritti e, manco a dirlo, è di sinistra. «Il governo deve agire rapidamente e pretendere che le compagnie diano ai lavoratori del Regno Unito pari opportunità nella costruzione delle infrastrutture inglesi», si legge nel comunicato scritto ieri dai vertici del sindacato, nel quale si annuncia anche la presentazione di azioni giudiziarie. «È una lotta per il nostro diritto al lavoro, non un attacco razzista», giura un dirigente di Unite. Gordon Brown nicchia, schiacciato tra gli impegni presi con i suoi connazionali e i regolamenti europei che gli impongono di garantire la libera circolazione dei lavoratori. Tramite un portavoce, il primo ministro inglese fa sapere che il contratto tra la Total e l’azienda italiana era stato siglato quando ancora la crisi non era arrivata e nell’industria delle costruzioni c’era carenza di manodopera qualificata. Quasi un modo per scusarsi di quanto avvenuto. Ma il suo ministro dell’Ambiente, Hilary Benn, anche lui membro del Partito laburista, non ha problemi a schierarsi dalla parte dei manifestanti: «I nostri lavoratori hanno diritto ad avere una risposta», avverte. L’opposizione conservatrice, intanto, chiede al governo di varare nuove norme per garantire ai lavoratori inglesi il diritto di precedenza sugli altri: «Quando le circostanze cambiano, anche le leggi debbono cambiare». Sono in molti, oltremanica, a pensarla così. Pure i media inglesi sono schierati dalla parte dei lavoratori. La Bbc mette la protesta delle tute blu tra i titoli più importanti del notiziario. Il quotidiano conservatore Daily Mail pubblica la foto di tre operai italiani che lavorano al cantiere: uno mostra ai reporter e agli inglesi che manifestano contro di loro il dito medio, un altro fa il gesto dell’ombrello. Tutti i giornali d’Oltremanica mettono in evidenza che gli italiani e i portoghesi sono alloggiati in «larghe chiatte galleggianti ormeggiate al molo di Grimsby». A sottintendere che, oltre allo stipendio, hanno anche l’alloggio gratis. Un altro tabloid, il Daily Express, raccoglie lo sfogo dei lavoratori del luogo, secondo il quale gli italiani lavorano male e non rispettano le norme di sicurezza. La guerra tra poveri è iniziata. La speranza è che, alla fine, non siano sempre i lavoratori italiani a rimetterci. In Italia perché lasciati indifesi da sindacati, forze politiche e organi di stampa che, per conformismo buonista e paura di essere accusati di xenofobia, li trattano al pari degli altri. All’estero perché vittime delle scelte autarchiche di sindacati, forze politiche e organi di stampa forse meno equi e solidali dei nostri, ma di sicuro molto più attenti ai bisogni dei loro connazionali.
È lecito, in tempi di crisi come questi, pretendere che i lavoratori nazionali vengano prima di quelli immigrati? In Italia, no. Qui ogni tentativo della manodopera locale di essere presa in considerazione prima di quella straniera è etichettato come inquinamento leghista della coscienza proletaria, e in quanto tale subito represso. I sindacati tappezzano le città di manifesti per dirci che i lavoratori sono tutti uguali, da qualunque parte del mondo vengano. Dalla parità di trattamento, spesso si sconfina addirittura nella “affirmative action”, la disparità in favore dei nuovi arrivati. È così che molte amministrazioni locali sono arrivate a finanziare, tramite prestiti e agevolazioni fiscali, le piccole imprese degli immigrati. Il risultato, ad esempio, è che gli stra-tassati negozianti italiani finanziano, con le loro imposte, i loro concorrenti immigrati, che così riescono facilmente a cacciarli fuori dal mercato. Chi avesse dubbi, vada a fare un giro nelle strade del centro di città come Bologna, e chieda a un fruttivendolo autoctono, se ne è rimasto qualcuno, come se la passa. Tutto molto inclusivo, per usare uno degli aggettivi più in voga di questi tempi. Scelte benedette anche da vescovi, imprenditori e dal novantanove per cento dei politici e dei commentatori. Ma non è così ovunque. E lo sarà sempre di meno, se la crisi continua a mordere e la disoccupazione sale. Benvenuti nell’Europa unita e solidale. Nel civilissimo Regno Unito, governato dal progressista Labour Party, i compagni lavoratori protestano e scioperano contro gli immigrati che levano loro il posto. Il caso vuole che si tratti di immigrati europei. Italiani e portoghesi, per l’esattezza. I colleghi delle tute blu lasciate a spasso per colpa dei terroni d’Europa manifestano in tutto il paese, in segno di solidarietà. I sindacati si rivolgono al governo, mettono al lavoro gli avvocati e denunciano la perdita dei posti di lavoro inglesi a vantaggio della manodopera importata come «immorale, potenzialmente illegale e politicamente pericolosa». La pubblica informazione e una vasta parte della classe politica, a differenza di quanto accade dalle nostre parti, stanno con loro. Le proteste sono iniziate nella raffineria Lindsey Oil, nel Lincolnshire, est dell’Inghilterra. All’origine c’è la decisione della Total, che gestisce l’impianto, di affidare i lavori di ampliamento a un’impresa italiana, la Irem, vincitrice di un regolarissimo appalto. La Irem ha bisogno di manodopera specializzata e ha solo quattro mesi di tempo per portare a termine i lavori. Ha quindi previsto, già ai tempi in cui è stato raggiunto l’accordo, di usare i propri dipendenti italiani e portoghesi, addestrati per simili operazioni. Cento sono già al lavoro nel cantiere e altri trecento arriveranno nel giro di un mese. Una scelta che i lavoratori del luogo non hanno digerito. A centinaia hanno iniziato a protestare, alzando cartelli con la scritta «British jobs for British workers», «Lavori inglesi per lavoratori inglesi», slogan del primo ministro Gordon Brown che adesso rischia di ritorcersi contro il suo autore. Gli scioperi di solidarietà si sono subito estesi nelle raffinerie e nelle centrali elettriche di tutto il paese, inclusi Scozia e Galles. Hanno incrociato le braccia circa duemila lavoratori, in 17 diversi impianti. Per lunedì è prevista una grande manifestazione, e gli organizzatori delle proteste avvertono che le loro iniziative si allargheranno «come incendi» finché italiani e portoghesi non se ne andranno. Nessuno, da quelle parti, li tratta come xenofobi. Per tutti, sono semplicemente padri e madri di famiglia che difendono il loro diritto alla pagnotta. Iniziando dal principale sindacato nazionale, che si chiama Unite, conta oltre due milioni di iscritti e, manco a dirlo, è di sinistra. «Il governo deve agire rapidamente e pretendere che le compagnie diano ai lavoratori del Regno Unito pari opportunità nella costruzione delle infrastrutture inglesi», si legge nel comunicato scritto ieri dai vertici del sindacato, nel quale si annuncia anche la presentazione di azioni giudiziarie. «È una lotta per il nostro diritto al lavoro, non un attacco razzista», giura un dirigente di Unite. Gordon Brown nicchia, schiacciato tra gli impegni presi con i suoi connazionali e i regolamenti europei che gli impongono di garantire la libera circolazione dei lavoratori. Tramite un portavoce, il primo ministro inglese fa sapere che il contratto tra la Total e l’azienda italiana era stato siglato quando ancora la crisi non era arrivata e nell’industria delle costruzioni c’era carenza di manodopera qualificata. Quasi un modo per scusarsi di quanto avvenuto. Ma il suo ministro dell’Ambiente, Hilary Benn, anche lui membro del Partito laburista, non ha problemi a schierarsi dalla parte dei manifestanti: «I nostri lavoratori hanno diritto ad avere una risposta», avverte. L’opposizione conservatrice, intanto, chiede al governo di varare nuove norme per garantire ai lavoratori inglesi il diritto di precedenza sugli altri: «Quando le circostanze cambiano, anche le leggi debbono cambiare». Sono in molti, oltremanica, a pensarla così. Pure i media inglesi sono schierati dalla parte dei lavoratori. La Bbc mette la protesta delle tute blu tra i titoli più importanti del notiziario. Il quotidiano conservatore Daily Mail pubblica la foto di tre operai italiani che lavorano al cantiere: uno mostra ai reporter e agli inglesi che manifestano contro di loro il dito medio, un altro fa il gesto dell’ombrello. Tutti i giornali d’Oltremanica mettono in evidenza che gli italiani e i portoghesi sono alloggiati in «larghe chiatte galleggianti ormeggiate al molo di Grimsby». A sottintendere che, oltre allo stipendio, hanno anche l’alloggio gratis. Un altro tabloid, il Daily Express, raccoglie lo sfogo dei lavoratori del luogo, secondo il quale gli italiani lavorano male e non rispettano le norme di sicurezza. La guerra tra poveri è iniziata. La speranza è che, alla fine, non siano sempre i lavoratori italiani a rimetterci. In Italia perché lasciati indifesi da sindacati, forze politiche e organi di stampa che, per conformismo buonista e paura di essere accusati di xenofobia, li trattano al pari degli altri. All’estero perché vittime delle scelte autarchiche di sindacati, forze politiche e organi di stampa forse meno equi e solidali dei nostri, ma di sicuro molto più attenti ai bisogni dei loro connazionali.
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3 commenti:
Non condivido la chiosatura del pezzo di Carioti. Il pulpito è certamente sbagliato perchè la GB è tra i principale stati mondialisti e globalisti che ha prodotto questo sfascio. Ma i loro operai (che di quel che tramano le loro élites finanziarie non sanno un tubo) fanno bene a difendere con unghie e con denti il "lavoro britannico per i britannici". Mi spiace per noi Italiani, ma facciamoci un po' furbi e a casa nostra e vediamo di imitare gli operai inglesi. Come? Mandando affanbagno i sindacati italioti e impedendo che gli stranieri occupino i loro posti. Ormai il precedente c'è: la Gran Bretagna.
E magari succedesse che anche gli operai italiani facciano la stessa cosa. Ma qui, come dici tu ci sono i sindacati italioti che si straccerebbero le vesti.
E difatti sono proprio i sindacati italioti che sono già insorti contro quei poveri disgraziati di operai britannici, chiamandoli "indifendibili". Che dovrebbero fare? Dire avanti c'è posto per tutti anche quando non è vero?
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