Era il 1999, l'anno della guerra in Kosovo. Migliaia di persone in fuga dai Balcani bussarono alle porte d'Italia e le richieste d'asilo, che solo due anni prima erano state circa 2 mila, superarono le 33 mila; una cifra senza precedenti per il nostro Paese. Allora si parlò di emergenza-profughi. Sono passati dieci anni e molte cose sono cambiate. Dal Kosovo in Italia non arriva più quasi nessuno, ma nel mondo si continua a scappare da Paesi in guerra, persecuzioni, aree di crisi. Alla fine del 2008 le commissioni territoriali per il diritto d'asilo in Italia avevano ricevuto 31.097 richieste: 21.933 sono state valutate. In 9.478 casi le udienze si sono concluse con un diniego, 10.849 hanno avuto esito positivo. Il nostro Paese ha riconosciuto lo status di rifugiato — pensato per chi è vittima di una persecuzione ad personam — a 1.695 richiedenti, e ha accordato forme di protezione sussidiaria o umanitaria in altre 9.154 occasioni. Per capire la realtà descritta dai numeri, però, occorre qualche confronto. Nel 2007 in Italia le domande d'asilo sono state 14 mila. L'anno prima furono circa 10.500.
QUEST'ANNO IL PICCO - C'era un crescendo e quest'anno c'è stato un picco. «Ma stupisce vedere come, di fronte a cifre simili a quelle di dieci fa, la situazione sia sempre di affanno — dice Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati —. Non si è riusciti a prevedere il fenomeno e inserirlo in termini di risorse nel budget dello Stato. La mancanza di programmazione ha impedito che si creasse un sistema adeguato. Così ogni anno si finisce per dichiarare lo stato di emergenza a livello regionale o nazionale perché servono più fondi per offrire accoglienza alle persone. Questo crea confusione nell'opinione pubblica, come se il Paese dovesse difendersi da un'invasione. Non è così».
L'ISOLA DEI CLANDESTINI - Un fattore che distorce la percezione è che sempre più spesso la strada dei richiedenti asilo passa per Lampedusa. Quella che nell'immaginario italiano rimane «l'isola dei clandestini», da almeno un paio d'anni è la principale porta d'ingresso per donne e uomini che fuggono verso l'Europa perché la loro vita è in pericolo. Le carrette del mare sono le stesse, ma i flussi migratori sono cambiati. Nel 2008 (dati del Viminale) sono sbarcate sulle coste italiane 36.952 persone: 30.657 hanno preso terra a Lampedusa. «Dal mare, però, arriva solo il 15% dei clandestini presenti sul territorio nazionale — ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, una decina di giorni fa —. Anche trovando la soluzione alla questione-Lampedusa risolveremmo solo parte del problema: l'85% degli immigrati giunge nel nostro Paese con visti turistici, poi li fa scadere e rimane». Altri perdono il lavoro, non ne trovano uno entro 6 mesi ed entrano in clandestinità.
LE STATISTICHE - L'Unhcr ribadisce: «Le nostre statistiche dicono che il 75% di chi è arrivato in Italia dal mare nel 2008 era un richiedente asilo. Queste persone non possono essere respinte, a meno di violare la Convenzione di Ginevra. Perciò, quando si firmano accordi bilaterali tra Stati nell'ambito della lotta all'immigrazione irregolare, come quelli sui pattugliamenti delle coste africane, ci devono essere garanzie specifiche per i richiedenti asilo». Lo status di rifugiato è concesso con parsimonia, perché accordarlo a chi non ne ha diritto indebolirebbe lo strumento di protezione. L'Ue a fine 2007 dava asilo a 1 milione e 400 mila persone. In Italia i rifugiati sono 38 mila, uno ogni 1.500 residenti (la cifra non comprende minori e rifugiati riconosciuti prima del '90). Non sono molti: Norvegia, Germania e Svezia ospitano oltre 7 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Da noi la procedura standard funziona così: prendendo ad esempio Lampedusa, un funzionario dell'Unhcr comunica a ogni persona che sbarca le informazioni in materia di asilo, illustra le regole, spiega che non tutti hanno titolo per fare domanda. Qualcosa di simile avviene ai valichi di frontiera, a Fiumicino e Malpensa, nei porti di Bari, Brindisi, Ancona e Venezia, dove spesso a fare questo lavoro è il personale di associazioni come Caritas o Consiglio italiano per i rifugiati.
LA PROCEDURA - Chi vuole chiedere asilo viene indicato alle autorità, è fotosegnalato, gli prendono le impronte digitali e le generalità. Poi, se privo di documenti, parte per un «Cara», Centro di accoglienza per richiedenti asilo, mentre se ha soldi e passaporto è libero di spostarsi dove vuole. I «Cara» sono aperti, di giorno le persone entrano ed escono a piacimento, perché chi chiede protezione non ha interesse a scappare. Il passo successivo è compilare il modulo «C3», con il quale chi ha lasciato il suo Paese e non può tornarci comincia a raccontare alle forze di polizia italiane la sua storia. A quel punto inizia l'attesa. Dall'arrivo nel «Cara» all'audizione si aspetta, in media, circa 4 mesi. Dipende dall'arretrato che le commissioni devono smaltire: in questo momento le «istanze in attesa di esame» sono circa 10 mila. In Italia fino a pochi mesi fa operavano 10 commissioni, a novembre un decreto ha istituito altre 5 sottosezioni: sono tutte composte da un prefetto, un rappresentante della polizia, uno dell'Anci e uno dell'Unhcr. Se il caso che esaminano è lampante il colloquio con il richiedente asilo può risolversi in 45 minuti. Altre volte si parla per ore. L'intervistato deve spiegare perché è fuggito da casa sua, meglio se fornisce delle prove: «Capita che mostrino tesserini di appartenenza a un partito di opposizione, articoli di giornale che hanno scritto, documenti che dimostrano la residenza in un luogo dove c'è guerra — spiega Boldrini —. Poi molto dipende dalla loro credibilità. Chi conduce l'audizione fa domande incrociate, prende informazioni sui Paesi di origine presso il database dell'Unhcr e le ambasciate italiane. È un lavoro complicato: hai di fronte una persona che non conosci, ti racconta una storia, parla di tragedie, di violenza. A volte capita che si esprima bene, altre volte che sia quasi incapace di parlare. Magari a causa dei traumi subiti, o semplicemente perché non è spigliato. Tu non gli credi, decidi per un diniego: espulsione, cinque giorni per lasciare l'Italia. E allora ti porti dentro il dubbio: perché non gli ho creduto? Avrò fatto bene?». I tempi per il ricorso sono di 15 giorni se sei all'interno di un «Cara» e di 30 se vivi altrove, fuori dal centro. Dati sul numero dei ricorsi non ce ne sono.
NORMATIVE EUROPEE - Sull'asilo, l'Italia ha recepito le normative europee con standard superiori a quelli minimi stabiliti da Bruxelles: i richiedenti possono avere un avvocato durante l'audizione e chi ottiene lo status di rifugiato non deve indicare requisiti di reddito per il ricongiungimento familiare. Ma la vita può non essere facile nemmeno per loro. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), garantisce ospitalità ad alcune di queste persone in strutture messe a disposizione da più di 100 Comuni italiani. Ognuna di loro costa circa 25 euro al giorno: il grosso lo paga il Viminale, ma negli anni altri soldi sono venuti dall'8 per mille, da fondi europei, in piccola parte dalle casse dei Comuni. I posti a regime, però, sono pochi: 2.600 l'anno scorso, 3.000 in quello appena iniziato. Insomma, la maggioranza rimane fuori. E l'accoglienza è a tempo: 6 mesi, che servono da «accompagnamento verso l'autonomia». Poi la collettività smette di occuparsi di loro.
Mario Porqueddu
0 commenti:
Posta un commento