Ne allontani dieci, ne arrivano cento. Ed è un crescendo. Ma perché l’immigrazione clandestina anziché diminuire continua ad aumentare? «Fuggono dalla povertà», rispondono tutti. Vero. Ma non basta. Se così fosse i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio Paese, dovrebbe scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. La verità è che gli africani non fuggono solo dalla miseria, bensì inseguono anche, anzi soprattutto, un mito: quello di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente. E fino a quando l’Occidente non si deciderà a smontare questo mito, la battaglia contro l’immigrazione clandestina non sarà mai vinta. Qualche settimana fa sono stato in Africa, nel Benin, per partecipare, in qualità di relatore, a un convegno di Iustitia et Pax sulla comunicazione ed i flussi immigratori e ho capito, trovando conferma a un’intuizione. Nella maggior parte dei Paesi del Continente nero le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani, del progresso e i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla. Quando diventano adulti la simpatia si trasforma in bramosia, perché in Africa la tv, il cinema, la radio tendono a evidenziare gli aspetti più accattivanti della nostra realtà, mentre i media minimizzano e spesso ignorano quelli negativi. Quante volte vengono date notizie sui clandestini che muoiono attraversando il deserto o su un barcone nel Mediterraneo? Poche. Chi realizza inchieste sulla povertà o sulla vita degli immigrati in Europa? Praticamente nessuno e anche quando giornali e tv locali vorrebbero farlo, non hanno i mezzi per realizzarli. La distorsione è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio continente e che per orgoglio mente sulle proprie condizioni. Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio. Quando gli africani decidono di emigrare non conoscono le nostre consuetudini sociali e dunque non immaginano di dover adattare il loro stile di vita al nostro. Sono talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche. «Non immaginano che fuori possa fare più freddo che dentro un frigorifero», racconta Gustave Prosper Sanvee, direttore della tv cattolica del Togo. Ciò che manca è una comunicazione adeguata e a promuoverla non può che essere l’Occidente. Noi possediamo le risorse economiche, le conoscenze tecniche e, soprattutto, noi abbiamo l’interesse, urgente, a farlo. Come? Ad esempio aiutando i governi e i media africani a raccontare giornalisticamente i rischi, i dolori, le umiliazioni subite dalla maggior parte degli immigrati. Ma i canali di informazione tradizionale non bastano; in una società dove l’alfabetizzazione è carente e dove i rapporti di clan sono radicati, occorre includere il passaparola. Dunque convincere (e ricompensare) gli immigrati a raccontare senza menzogne la propria esperienza. Puntare sulla comunicazione costa meno delle misure adottate finora e promette di essere molto più efficace. Perché non provarci?
lunedì 26 gennaio 2009
Le colpe
Le colpe di quei media che alimentano il mito dell’Eldorado
Ne allontani dieci, ne arrivano cento. Ed è un crescendo. Ma perché l’immigrazione clandestina anziché diminuire continua ad aumentare? «Fuggono dalla povertà», rispondono tutti. Vero. Ma non basta. Se così fosse i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio Paese, dovrebbe scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. La verità è che gli africani non fuggono solo dalla miseria, bensì inseguono anche, anzi soprattutto, un mito: quello di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente. E fino a quando l’Occidente non si deciderà a smontare questo mito, la battaglia contro l’immigrazione clandestina non sarà mai vinta. Qualche settimana fa sono stato in Africa, nel Benin, per partecipare, in qualità di relatore, a un convegno di Iustitia et Pax sulla comunicazione ed i flussi immigratori e ho capito, trovando conferma a un’intuizione. Nella maggior parte dei Paesi del Continente nero le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani, del progresso e i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla. Quando diventano adulti la simpatia si trasforma in bramosia, perché in Africa la tv, il cinema, la radio tendono a evidenziare gli aspetti più accattivanti della nostra realtà, mentre i media minimizzano e spesso ignorano quelli negativi. Quante volte vengono date notizie sui clandestini che muoiono attraversando il deserto o su un barcone nel Mediterraneo? Poche. Chi realizza inchieste sulla povertà o sulla vita degli immigrati in Europa? Praticamente nessuno e anche quando giornali e tv locali vorrebbero farlo, non hanno i mezzi per realizzarli. La distorsione è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio continente e che per orgoglio mente sulle proprie condizioni. Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio. Quando gli africani decidono di emigrare non conoscono le nostre consuetudini sociali e dunque non immaginano di dover adattare il loro stile di vita al nostro. Sono talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche. «Non immaginano che fuori possa fare più freddo che dentro un frigorifero», racconta Gustave Prosper Sanvee, direttore della tv cattolica del Togo. Ciò che manca è una comunicazione adeguata e a promuoverla non può che essere l’Occidente. Noi possediamo le risorse economiche, le conoscenze tecniche e, soprattutto, noi abbiamo l’interesse, urgente, a farlo. Come? Ad esempio aiutando i governi e i media africani a raccontare giornalisticamente i rischi, i dolori, le umiliazioni subite dalla maggior parte degli immigrati. Ma i canali di informazione tradizionale non bastano; in una società dove l’alfabetizzazione è carente e dove i rapporti di clan sono radicati, occorre includere il passaparola. Dunque convincere (e ricompensare) gli immigrati a raccontare senza menzogne la propria esperienza. Puntare sulla comunicazione costa meno delle misure adottate finora e promette di essere molto più efficace. Perché non provarci?
Ne allontani dieci, ne arrivano cento. Ed è un crescendo. Ma perché l’immigrazione clandestina anziché diminuire continua ad aumentare? «Fuggono dalla povertà», rispondono tutti. Vero. Ma non basta. Se così fosse i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio Paese, dovrebbe scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. La verità è che gli africani non fuggono solo dalla miseria, bensì inseguono anche, anzi soprattutto, un mito: quello di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente. E fino a quando l’Occidente non si deciderà a smontare questo mito, la battaglia contro l’immigrazione clandestina non sarà mai vinta. Qualche settimana fa sono stato in Africa, nel Benin, per partecipare, in qualità di relatore, a un convegno di Iustitia et Pax sulla comunicazione ed i flussi immigratori e ho capito, trovando conferma a un’intuizione. Nella maggior parte dei Paesi del Continente nero le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani, del progresso e i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla. Quando diventano adulti la simpatia si trasforma in bramosia, perché in Africa la tv, il cinema, la radio tendono a evidenziare gli aspetti più accattivanti della nostra realtà, mentre i media minimizzano e spesso ignorano quelli negativi. Quante volte vengono date notizie sui clandestini che muoiono attraversando il deserto o su un barcone nel Mediterraneo? Poche. Chi realizza inchieste sulla povertà o sulla vita degli immigrati in Europa? Praticamente nessuno e anche quando giornali e tv locali vorrebbero farlo, non hanno i mezzi per realizzarli. La distorsione è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio continente e che per orgoglio mente sulle proprie condizioni. Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio. Quando gli africani decidono di emigrare non conoscono le nostre consuetudini sociali e dunque non immaginano di dover adattare il loro stile di vita al nostro. Sono talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche. «Non immaginano che fuori possa fare più freddo che dentro un frigorifero», racconta Gustave Prosper Sanvee, direttore della tv cattolica del Togo. Ciò che manca è una comunicazione adeguata e a promuoverla non può che essere l’Occidente. Noi possediamo le risorse economiche, le conoscenze tecniche e, soprattutto, noi abbiamo l’interesse, urgente, a farlo. Come? Ad esempio aiutando i governi e i media africani a raccontare giornalisticamente i rischi, i dolori, le umiliazioni subite dalla maggior parte degli immigrati. Ma i canali di informazione tradizionale non bastano; in una società dove l’alfabetizzazione è carente e dove i rapporti di clan sono radicati, occorre includere il passaparola. Dunque convincere (e ricompensare) gli immigrati a raccontare senza menzogne la propria esperienza. Puntare sulla comunicazione costa meno delle misure adottate finora e promette di essere molto più efficace. Perché non provarci?
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