WASHINGTON – Said Ali al Shihri, nome di battaglia Abu Sayyaf, è rimasto rinchiuso nella gabbia di Guantanamo fino al novembre 2007. Per i guardiani era il prigioniero numero 372. Poi lo hanno liberato e inviato a casa, in Arabia Saudita, dove hanno cercato di de-programmarlo con un corso speciale. Risorse sprecate. Al Shihri ha trovato accoglienza nel movimento qaedista nello Yemen, ne è diventato il numero due e ha organizzato, in settembre, un attentato contro l'ambasciata Usa a Sanaa (16 morti). Rivelando la storia di Abu Sayyaf al New York Times, l'intelligence Usa ha voluto indicare quali rischi si possono correre chiudendo a Guantanamo. Un messaggio lanciato nel momento in cui Barack Obama ha avviato la chiusura – in tempi lunghi – del centro di detenzione. Alcuni commentatori e ambienti della sicurezza hanno insistito su un punto: chi controllerà i detenuti mandati nei paesi di origine? E per rafforzare il loro interrogativo hanno citato un rapporto del Pentagono secondo il quale almeno 61 ex prigionieri sono tornati alla violenza. Nel dossier americano al Shihri, 35 anni, viene indicato come un esperto combattente, con buoni agganci in Pakistan, nei paesi del Golfo e in Iran. Dopo la cattura, ha giustificato i suoi viaggi con il desiderio di «acquistare dei tappeti». Quando gli americani lo hanno estradato in Arabia Saudita, Abu Sayyaf si è sottoposto al programma di «rieducazione» ma poi ha fatto perdere le sue tracce. Abu Sayyaf è fuggito nello Yemen unendosi alle cellule jihadiste. Una realtà, peraltro, non omogenea. Poche settimane fa, un alto esponente estremista – Hamza al Dhayani - ha sostenuto che l'attacco contro l'ambasciata era in realtà una manovra organizzata dalla polizia segreta che aveva manipolato qualche testa calda. L'obiettivo sarebbe stato quello di ottenere la solidarietà internazionale. Informazioni recenti raccontano poi che la fazione sarebbe divisa tra chi insiste per azioni contro il «nemico lontano» (gli Stati Uniti) e quanti invece propendono per operazioni contro il «nemico vicino», lo Yemen. Se su Guantanamo Obama vuole cancellare la macchia, non è disposto a rallentare la pressione sui rifugi in Pakistan. Lo dimostrano due raid di aerei senza pilota lanciati nell'area tribale: 18 le vittime, tra loro alcuni stranieri. Il presidente, in campagna elettorale, non ha mai nascosto la volontà di incalzare i terroristi nei loro nascondigli, sfidando anche la forte resistenza di Islamabad, dove l'opinione pubblica considera le incursioni come una grave violazione.
Guido Olimpio
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