lunedì 19 gennaio 2009

Aspettative

Stati Uniti: la rivoluzione può attendere di Marco De Martino

Ora i suoi consiglieri cercano di abbassare le aspettative. Ai giornalisti amici fanno sapere che la promessa del cambiamento verrà mantenuta, ma a tappe. La grande riforma sanitaria per cui è stato creato un nuovo zar, Tom Daschle, che lavorerà a pochi passi dallo Studio ovale? Sarà fatta, forse solo rimandata di qualche mese. E l’imposizione di un tetto sulle emissioni di anidride carbonica che rappresenta il primo passo verso la conversione alle energie rinnovabili e l’emancipazione dal petrolio mediorientale? È ancora tra le priorità, tanto è vero che nella nuova planimetria dell’ala ovest della Casa Bianca è stato ricavato un altro ufficio, che sarà occupato dalla nuova zarina energetica Carol Browner. Ma anche lei dovrà pazientare. La rivoluzione, persino quella obamiana, può attendere. Neppure l’uomo del destino che il 20 gennaio metterà la mano sulla Bibbia diventando il 44esimo presidente della storia americana è infatti in grado di creare da solo il mondo nuovo che i suoi discepoli si aspettano. Secondo loro Barack Obama dovrebbe non solo affrontare la peggiore crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione, ma anche trovare un nuovo modello capace di dare un futuro al capitalismo. Dovrebbe trasformare Washington nella capitale dell’economia nazionalizzata mentre salva l’industria dell’auto e ne riconcepisce la strategia. E poi trovare un nuovo ruolo per l’America nel mondo mentre sono ancora in corso due guerre, in Iraq e in Afghanistan, e riprendere il processo di pace tra israeliani e palestinesi mentre esplode la polveriera di Gaza. «Che cosa succede se ora non ce la fa?» si chiede la copertina del mensile Foreign policy, condensando i dubbi di molti. Forse anche quelli di Obama: non a caso l’uomo che ha conquistato il cuore degli americani promettendo il cambiamento ha cominciato ad accentuare nelle sue dichiarazioni pubbliche gli elementi di continuità che la sua amministrazione avrà con quella di George W. Bush.Quando il vicepresidente Dick Cheney lo ha invitato ad aspettare di avere tutte le informazioni sulla lotta al terrorismo prima di tagliare i programmi più controversi, Obama ha risposto: «È un ottimo consiglio». E quando gli è stato chiesto se la sua politica estera si distaccherà da quella di Bush, il nuovo presidente ha detto: «Se guardate non solo a Bush ma anche a Bill Clinton avrete un’idea dell’approccio che prenderò». Anche per questo Christian Brose, consigliere e speechwriter di Condoleezza Rice e prima ancora di Colin Powell, ha coniato un nuovo soprannome: «George W. Obama». «La vera cesura nella politica estera americana si è avuta alla fine dei primi quattro anni della presidenza Bush» spiega Walter Russell Mead, che è tra gli esperti più autorevoli del Council on foreign relations. «Il suo secondo mandato, improntato a un approccio molto più prudente e multilaterale, segna chiaramente la direzione anche per Obama. Dopotutto è stata l’amministrazione Bush a negoziare con il governo iracheno i termini del ritiro americano dall’Iraq di cui Obama si prenderà il merito». Dall’Iraq il nuovo presidente intende spostare la sua attenzione su Pakistan e Afghanistan, dove cercherà di applicare i principi della strategia del «surge» elaborata durante la seconda amministrazione Bush, con un aumento di truppe e negoziati con le fazioni talebane disposte a schierarsi contro Al Qaeda e gli estremisti.Lo stesso Obama, che pure aveva promesso risultati rapidi, ora avverte che la strategia non punta al successo, ma solo a guadagnare tempo prima di un riesame generale della strategia americana nella lotta al terrorismo: «Quello afghano è un problema molto diverso da quello iracheno, a partire dal fatto che in Afghanistan la maggior parte della popolazione vive nelle zone rurali» dice il generale David Petraeus, che da poco ha preso il comando del Centcom da cui dipendono i teatri di guerra mediorientali. Che poi sottolinea anche la differenza maggiore: «Nella lunga guerra, come è stata chiamata la battaglia contro il terrorismo, il capitolo afghano è sicuramente destinato a essere il più lungo». Un monito condiviso da quanti pensano che gli Stati Uniti facciano male a impegnarsi proprio ora dove altri, a partire dai sovietici, hanno fallito. Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale nella Casa Bianca di Bush padre, a Obama suggerisce di affrontare immediatamente il problema della convivenza fra israeliani e palestinesi, evitando l’errore dei precedenti due presidenti americani che alla questione hanno dedicato solo gli ultimi mesi della loro amministrazione. Come Bush figlio Obama è per il diritto di Israele a difendersi, anche per lui Hamas è una organizzazione terroristica. Quanto all’Iran, Obama aggiungerà l’arma dei negoziati diretti a quella che è stata la ricetta di George W. Bush: trovare una soluzione diplomatica all’emergenza della costruzione dell’atomica iraniana. E se i negoziati dovessero fallire il nuovo presidente non escluderebbe il ricorso alla forza. Quanto all’economia, Obama ha criticato Bush sulla gestione dei primi 350 miliardi del programma anticrisi. Lui punta su un intervento di stimolo da 775 miliardi, di cui 300 in tagli temporanei delle tasse (favoriti dall’opposizione repubblicana) e il resto in investimenti nelle infrastrutture (che i democratici vorrebbero aumentare). Ai molti che sostengono si tratti di un investimento non sufficiente a fronteggiare la vastità della crisi, Obama risponde che, se necessario, la cifra verrà aumentata.Però neppure il neopresidente può giurare che la sua ricetta funzionerà. Christina Romer, che sarà il principale consigliere economico, ha scritto in una ricerca pubblicata nel 1994 che gli stimoli fiscali di solito producono scarsi risultati e che la migliore ricetta anticrisi sta nei tagli dei tassi d’interesse. La storia insegna poi che la spesa pubblica per le infrastrutture funziona solo quando la ripresa è già iniziata, quando cioè le aziende private sono più disponibili ad affiancare con investimenti propri quelli del governo. Obama spinge per la riparazione di strade e ponti, altri sostengono che gli investimenti in infrastrutture sarebbero più proficui altrove, per esempio nella costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità.Altro tema chiave della campagna elettorale è l’energia. Il gruppo messo assieme da Obama, a partire dal premio Nobel Steven Cho, spingerà verso l’adozione di misure drastiche per fronteggiare il cambiamento climatico. Però nessuno può assicurare che, avendo perso il lavoro, gli americani vogliano investire in pannelli solari. Il programma di Obama sembra segnare solo una strada: «Ancora prima di iniziare a lavorare Obama ha costruito una bellissima macchina» commenta William Galston, uno degli esperti del Brookings institute. «Il problema è che nessuno sa se cammina». Molto dipenderà dai rapporti dentro la nuova amministrazione. Come Bush anche Obama si è circondato di veterani della politica Usa. La squadra economica include un ex segretario del Tesoro e un ex direttore della Federal Reserve (Lawrence Summers e Paul Volcker). Nella squadra di politica estera un generale che è stato comandante delle truppe alleate in Europa (il consigliere per la sicurezza nazionale James Jones) dovrà cercare di mediare fra titani che spesso sono stati in disaccordo con il nuovo presidente: Hillary Clinton (che per esempio ha votato a favore dell’intervento in Iraq) e Robert Gates (che ha applicato la strategia del surge). Una squadra che a un osservatore acuto come Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, lascia presagire molti guai: «Le personalità sono talmente forti che tutto dipende dalla capacità del presidente di imporre un senso di direzione». Ecco una grande differenza con George W. Bush: lui delegava, mentre nella nuova Casa Bianca tutte le strade portano a Obama. Che questo sia un vantaggio è tutto da vedere.

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