Adesso, obiettivamente, ragioniamo: un elettore di sinistra, ma in generale un elettore qualsiasi, un essere umano nel pieno delle facoltà psicofisiche, cosciente e senziente, può mai aver nostalgia di Romano Prodi? Certo che sì: se ammettiamo che si possa aver nostalgia del torcicollo, di un dito in un occhio o delle coliche renali. Così, allo stesso modo, si può forse rimpiangere un capo di governo che ti ha gonfiato la pressione fiscale fino al 43,1%, che ti ha messo le mani in tasca con 67 nuove tasse diverse, dall’Irpef più alta alla tassa sulle successioni e le donazioni, all’imposta di bollo, al ticket sanitario, con il Times che sfotteva: «Sull’economia scivolate dietro la Spagna, la vostra sinistra è allo sbando»? Eppure adesso a sinistra vanno di moda le riesumazioni: stanno ritirando fuori dalla cripta il Professore che, pur fossilizzato, davanti a Veltroni pare Richard Gere. Del resto Prodi e Company avranno pure scassato la sinistra, ma almeno con lui c’era una sinistra da scassare. «Mi fanno santo ma non torno», dice Prodi a La Stampa con l’aria del grande statista in pensione, l’Helmut Kohl in salsa di ragù, il Cincinnato che si ritira a vita rurale a coltivare tortellini. A Romano seduto in platea durante una pièce teatrale a Bologna, Marco Travaglio ha detto che «sente spesso nostalgia di lui», suscitando una standing ovation che a Bologna non si vedeva dai tempi di Fulvio Bernardini, scudetto ’63-’64. Giulio Tremonti, il ministro Tremonti, è andato in tv a dire che «Romano ha ragione, sulla crisi globale serve una risposta globale». Un piccolo riconoscimento: ma detto da Tremonti, che affiderebbe i risparmi a Gatto Silvestro piuttosto che a Romano, la cosa fa un certo effetto, soprattutto nel Pd. E ora che a sinistra son caduti dalla padella alla brace, cominciano a riscoprire la bellezza della padella. Al che lui sogghigna e fa le fusa, sorvola il branco piddìno come un avvoltoio in pensione, dice che ha da fare all’Onu, gruppo di lavoro sull’Africa, sai c’è Mubarak al telefono, poi ripete che «tanto non torno», come se l’Italia lo stesse supplicando in ginocchio. Come se tutti avessero nostalgia delle strade di Napoli traboccanti di pattume, diossina, risse e pestaggi, i verdi contro gli inceneritori, e poi le foto di mamme e bambini a passeggio tra i rifiuti, e i titolacci della stampa estera: «Mozzarella e diossina», «Napoli in ginocchio», «Napoli è la vergogna dell’Italia e dell’Europa». Che nostalgia, che magone, ti si stringe il cuore. Sono tutti ansiosi di riviverli, quei placidi momenti in cui l’Alitalia stava precipitando nel caos, AirFrance ritirava l’offerta, con i sindacati che ballavano sulle macerie. Quando pensi a Prodi ti immagini i piloti esagitati, i tassisti imbufaliti, i no global strumentalizzati: ti ritorna nelle orecchie la colonna sonora di fischi che lo bersagliavano in ogni occasione, al Motorshow di Bologna, e poi a Torino, e poi a Roma dai commercianti e dagli artigiani, persino davanti al Papa, a Verona, l’hanno accolto a suon di buuu. La mano corre al fazzoletto, certo, ma non per la commozione. Perché con Romano non funzionano le tiritere dei vecchietti che hanno fatto la guerra sul Piave, «si stava meglio quando si stava peggio». No, con lui quando si stava peggio si stava effettivamente peggio. Certo, la Lehman Brothers ai tempi esisteva ancora: ma esisteva anche Pecoraro Scanio, non so se mi spiego. E come accade con le più grandi tragedie dell’umanità, ne approfittiamo per celebrare l’anniversario: tra pochi giorni cadrà un anno esatto dalla morte del governo Prodi: come si dice in questi casi, «per non dimenticare». E non si capisce come si possa dimenticare un governo che per 608 giorni vissuti pericolosamente si è retto sulle stampelle dei senatori a vita: bastava un’assenza, un onorevole incontinente, una febbriciattola, un ranteghino, ed era subito crisi. Quando non c’erano rotture di clavicola, c’erano rotture di maggioranza: era l’epoca dei ministri di piazza e di governo, ricordate? Sulla base americana di Vicenza, sui Dico, sui precari, sul Medio Oriente, spuntava sempre il Pecoraro furioso, il Ferrero isterico, il Diliberto che sfilava coi palestinesi al grido di «Bush sanguinario», e poi il comunista che litiga con il democristiano, Di Pietro che abbaia contro Mastella. «Avevamo detto serietà al governo, basta giocare con la piazza», sbottava Prodi circondato da ogni fronte. Che tra continue verifiche, sgambetti e franchi tiratori, incassava il rimprovero di Napolitano sul «ricorso abnorme» ai voti di fiducia, l’unico antibiotico in grado di tenere in piedi il corpaccione dell’esecutivo. Ma non abbastanza poderoso da impedire, sul voto cruciale sulla missione italiana in Afghanistan, di finire sotto in Senato per colpa del tiro mancino dei comunisti Rossi e Turigliatto. Perché tenere insieme 21 partiti, da Giordano a Boselli a Caruso, è impresa sovrumana: divisi sugli esteri, sull’etica, sul lavoro, sull’economia non ne parliamo. Sulla Finanziaria extralarge, la cura da cavallo da 35 miliardi, è scoppiata una guerra interna durata mesi, tanto che il premier è dapprima caduto nel ridicolo, «abbiamo scontentato tutti, quindi va tutto bene», e poi nel patetico: «Non capisco, l’Italia dev’essere impazzita». Come no. Impazzita l’Italia che non riusciva ad apprezzare i meriti economici del governo. Impazzita anche l’Eurostat quando assegnò al Professore la medaglia di mortadella per il «falso in bilancio» più grande del mondo. Praticamente 30 miliardi di euro, con i quali il governo avrebbe «drogato» i conti pubblici italiani al fine di caricare il deficit sulle spalle dell’esecutivo di centrodestra. È uno scherzetto di cui ci siamo già occupati: pare che tra le fantasiose voci di bilancio ci sia un cavillo che prevede l’accollo statale dei debiti delle ferrovie: 13 miliardi annotati astutamente nell’esercizio 2006, falsando le statistiche. Insomma, un vero paradiso, il regno di Prodi: alcune meraviglie dell’Eden però dobbiamo sviscerarle ancora oggi. Per esempio, al di là dell’archiviazione in sede giudiziaria, c’è da capire come mai il viceministro Visco ha licenziato il comandante della Guardia di Finanza, Speciale, dopo una polemica di fuoco su certe nomine nel corpo. C’è ancora da capire come mai il consigliere economico di Prodi, Rovati, si è dimesso, dopo aver fatto recapitare un misterioso bigliettino intestato Palazzo Chigi all’ex capo di Telecom Tronchetti Provera. C’è da dire, in ogni caso, che il Prof due piccoli record può vantarli: il suo è stato il governo più popoloso della Repubblica pur avendo vinto col minimo scarto. Una vittoria alle elezioni dello 0,06%, 25mila voti, gli ha consentito di formare un governo di 102 poltrone, 25 ministri, 10 viceministri e un reggimento di 66 sottosegretari. C’è davvero qualcuno che sogna un ritorno al passato? Oggi Romano sembra per la prima volta inflessibile: «Non ritornerò, quando una stagione si chiude, si chiude davvero». Un punto d’orgoglio, per lui; una speranza per tanti altri.
mercoledì 21 gennaio 2009
In memoria
Tasse, monnezza e molte bugie. La sinistra rimpiange già Prodi
Adesso, obiettivamente, ragioniamo: un elettore di sinistra, ma in generale un elettore qualsiasi, un essere umano nel pieno delle facoltà psicofisiche, cosciente e senziente, può mai aver nostalgia di Romano Prodi? Certo che sì: se ammettiamo che si possa aver nostalgia del torcicollo, di un dito in un occhio o delle coliche renali. Così, allo stesso modo, si può forse rimpiangere un capo di governo che ti ha gonfiato la pressione fiscale fino al 43,1%, che ti ha messo le mani in tasca con 67 nuove tasse diverse, dall’Irpef più alta alla tassa sulle successioni e le donazioni, all’imposta di bollo, al ticket sanitario, con il Times che sfotteva: «Sull’economia scivolate dietro la Spagna, la vostra sinistra è allo sbando»? Eppure adesso a sinistra vanno di moda le riesumazioni: stanno ritirando fuori dalla cripta il Professore che, pur fossilizzato, davanti a Veltroni pare Richard Gere. Del resto Prodi e Company avranno pure scassato la sinistra, ma almeno con lui c’era una sinistra da scassare. «Mi fanno santo ma non torno», dice Prodi a La Stampa con l’aria del grande statista in pensione, l’Helmut Kohl in salsa di ragù, il Cincinnato che si ritira a vita rurale a coltivare tortellini. A Romano seduto in platea durante una pièce teatrale a Bologna, Marco Travaglio ha detto che «sente spesso nostalgia di lui», suscitando una standing ovation che a Bologna non si vedeva dai tempi di Fulvio Bernardini, scudetto ’63-’64. Giulio Tremonti, il ministro Tremonti, è andato in tv a dire che «Romano ha ragione, sulla crisi globale serve una risposta globale». Un piccolo riconoscimento: ma detto da Tremonti, che affiderebbe i risparmi a Gatto Silvestro piuttosto che a Romano, la cosa fa un certo effetto, soprattutto nel Pd. E ora che a sinistra son caduti dalla padella alla brace, cominciano a riscoprire la bellezza della padella. Al che lui sogghigna e fa le fusa, sorvola il branco piddìno come un avvoltoio in pensione, dice che ha da fare all’Onu, gruppo di lavoro sull’Africa, sai c’è Mubarak al telefono, poi ripete che «tanto non torno», come se l’Italia lo stesse supplicando in ginocchio. Come se tutti avessero nostalgia delle strade di Napoli traboccanti di pattume, diossina, risse e pestaggi, i verdi contro gli inceneritori, e poi le foto di mamme e bambini a passeggio tra i rifiuti, e i titolacci della stampa estera: «Mozzarella e diossina», «Napoli in ginocchio», «Napoli è la vergogna dell’Italia e dell’Europa». Che nostalgia, che magone, ti si stringe il cuore. Sono tutti ansiosi di riviverli, quei placidi momenti in cui l’Alitalia stava precipitando nel caos, AirFrance ritirava l’offerta, con i sindacati che ballavano sulle macerie. Quando pensi a Prodi ti immagini i piloti esagitati, i tassisti imbufaliti, i no global strumentalizzati: ti ritorna nelle orecchie la colonna sonora di fischi che lo bersagliavano in ogni occasione, al Motorshow di Bologna, e poi a Torino, e poi a Roma dai commercianti e dagli artigiani, persino davanti al Papa, a Verona, l’hanno accolto a suon di buuu. La mano corre al fazzoletto, certo, ma non per la commozione. Perché con Romano non funzionano le tiritere dei vecchietti che hanno fatto la guerra sul Piave, «si stava meglio quando si stava peggio». No, con lui quando si stava peggio si stava effettivamente peggio. Certo, la Lehman Brothers ai tempi esisteva ancora: ma esisteva anche Pecoraro Scanio, non so se mi spiego. E come accade con le più grandi tragedie dell’umanità, ne approfittiamo per celebrare l’anniversario: tra pochi giorni cadrà un anno esatto dalla morte del governo Prodi: come si dice in questi casi, «per non dimenticare». E non si capisce come si possa dimenticare un governo che per 608 giorni vissuti pericolosamente si è retto sulle stampelle dei senatori a vita: bastava un’assenza, un onorevole incontinente, una febbriciattola, un ranteghino, ed era subito crisi. Quando non c’erano rotture di clavicola, c’erano rotture di maggioranza: era l’epoca dei ministri di piazza e di governo, ricordate? Sulla base americana di Vicenza, sui Dico, sui precari, sul Medio Oriente, spuntava sempre il Pecoraro furioso, il Ferrero isterico, il Diliberto che sfilava coi palestinesi al grido di «Bush sanguinario», e poi il comunista che litiga con il democristiano, Di Pietro che abbaia contro Mastella. «Avevamo detto serietà al governo, basta giocare con la piazza», sbottava Prodi circondato da ogni fronte. Che tra continue verifiche, sgambetti e franchi tiratori, incassava il rimprovero di Napolitano sul «ricorso abnorme» ai voti di fiducia, l’unico antibiotico in grado di tenere in piedi il corpaccione dell’esecutivo. Ma non abbastanza poderoso da impedire, sul voto cruciale sulla missione italiana in Afghanistan, di finire sotto in Senato per colpa del tiro mancino dei comunisti Rossi e Turigliatto. Perché tenere insieme 21 partiti, da Giordano a Boselli a Caruso, è impresa sovrumana: divisi sugli esteri, sull’etica, sul lavoro, sull’economia non ne parliamo. Sulla Finanziaria extralarge, la cura da cavallo da 35 miliardi, è scoppiata una guerra interna durata mesi, tanto che il premier è dapprima caduto nel ridicolo, «abbiamo scontentato tutti, quindi va tutto bene», e poi nel patetico: «Non capisco, l’Italia dev’essere impazzita». Come no. Impazzita l’Italia che non riusciva ad apprezzare i meriti economici del governo. Impazzita anche l’Eurostat quando assegnò al Professore la medaglia di mortadella per il «falso in bilancio» più grande del mondo. Praticamente 30 miliardi di euro, con i quali il governo avrebbe «drogato» i conti pubblici italiani al fine di caricare il deficit sulle spalle dell’esecutivo di centrodestra. È uno scherzetto di cui ci siamo già occupati: pare che tra le fantasiose voci di bilancio ci sia un cavillo che prevede l’accollo statale dei debiti delle ferrovie: 13 miliardi annotati astutamente nell’esercizio 2006, falsando le statistiche. Insomma, un vero paradiso, il regno di Prodi: alcune meraviglie dell’Eden però dobbiamo sviscerarle ancora oggi. Per esempio, al di là dell’archiviazione in sede giudiziaria, c’è da capire come mai il viceministro Visco ha licenziato il comandante della Guardia di Finanza, Speciale, dopo una polemica di fuoco su certe nomine nel corpo. C’è ancora da capire come mai il consigliere economico di Prodi, Rovati, si è dimesso, dopo aver fatto recapitare un misterioso bigliettino intestato Palazzo Chigi all’ex capo di Telecom Tronchetti Provera. C’è da dire, in ogni caso, che il Prof due piccoli record può vantarli: il suo è stato il governo più popoloso della Repubblica pur avendo vinto col minimo scarto. Una vittoria alle elezioni dello 0,06%, 25mila voti, gli ha consentito di formare un governo di 102 poltrone, 25 ministri, 10 viceministri e un reggimento di 66 sottosegretari. C’è davvero qualcuno che sogna un ritorno al passato? Oggi Romano sembra per la prima volta inflessibile: «Non ritornerò, quando una stagione si chiude, si chiude davvero». Un punto d’orgoglio, per lui; una speranza per tanti altri.
Adesso, obiettivamente, ragioniamo: un elettore di sinistra, ma in generale un elettore qualsiasi, un essere umano nel pieno delle facoltà psicofisiche, cosciente e senziente, può mai aver nostalgia di Romano Prodi? Certo che sì: se ammettiamo che si possa aver nostalgia del torcicollo, di un dito in un occhio o delle coliche renali. Così, allo stesso modo, si può forse rimpiangere un capo di governo che ti ha gonfiato la pressione fiscale fino al 43,1%, che ti ha messo le mani in tasca con 67 nuove tasse diverse, dall’Irpef più alta alla tassa sulle successioni e le donazioni, all’imposta di bollo, al ticket sanitario, con il Times che sfotteva: «Sull’economia scivolate dietro la Spagna, la vostra sinistra è allo sbando»? Eppure adesso a sinistra vanno di moda le riesumazioni: stanno ritirando fuori dalla cripta il Professore che, pur fossilizzato, davanti a Veltroni pare Richard Gere. Del resto Prodi e Company avranno pure scassato la sinistra, ma almeno con lui c’era una sinistra da scassare. «Mi fanno santo ma non torno», dice Prodi a La Stampa con l’aria del grande statista in pensione, l’Helmut Kohl in salsa di ragù, il Cincinnato che si ritira a vita rurale a coltivare tortellini. A Romano seduto in platea durante una pièce teatrale a Bologna, Marco Travaglio ha detto che «sente spesso nostalgia di lui», suscitando una standing ovation che a Bologna non si vedeva dai tempi di Fulvio Bernardini, scudetto ’63-’64. Giulio Tremonti, il ministro Tremonti, è andato in tv a dire che «Romano ha ragione, sulla crisi globale serve una risposta globale». Un piccolo riconoscimento: ma detto da Tremonti, che affiderebbe i risparmi a Gatto Silvestro piuttosto che a Romano, la cosa fa un certo effetto, soprattutto nel Pd. E ora che a sinistra son caduti dalla padella alla brace, cominciano a riscoprire la bellezza della padella. Al che lui sogghigna e fa le fusa, sorvola il branco piddìno come un avvoltoio in pensione, dice che ha da fare all’Onu, gruppo di lavoro sull’Africa, sai c’è Mubarak al telefono, poi ripete che «tanto non torno», come se l’Italia lo stesse supplicando in ginocchio. Come se tutti avessero nostalgia delle strade di Napoli traboccanti di pattume, diossina, risse e pestaggi, i verdi contro gli inceneritori, e poi le foto di mamme e bambini a passeggio tra i rifiuti, e i titolacci della stampa estera: «Mozzarella e diossina», «Napoli in ginocchio», «Napoli è la vergogna dell’Italia e dell’Europa». Che nostalgia, che magone, ti si stringe il cuore. Sono tutti ansiosi di riviverli, quei placidi momenti in cui l’Alitalia stava precipitando nel caos, AirFrance ritirava l’offerta, con i sindacati che ballavano sulle macerie. Quando pensi a Prodi ti immagini i piloti esagitati, i tassisti imbufaliti, i no global strumentalizzati: ti ritorna nelle orecchie la colonna sonora di fischi che lo bersagliavano in ogni occasione, al Motorshow di Bologna, e poi a Torino, e poi a Roma dai commercianti e dagli artigiani, persino davanti al Papa, a Verona, l’hanno accolto a suon di buuu. La mano corre al fazzoletto, certo, ma non per la commozione. Perché con Romano non funzionano le tiritere dei vecchietti che hanno fatto la guerra sul Piave, «si stava meglio quando si stava peggio». No, con lui quando si stava peggio si stava effettivamente peggio. Certo, la Lehman Brothers ai tempi esisteva ancora: ma esisteva anche Pecoraro Scanio, non so se mi spiego. E come accade con le più grandi tragedie dell’umanità, ne approfittiamo per celebrare l’anniversario: tra pochi giorni cadrà un anno esatto dalla morte del governo Prodi: come si dice in questi casi, «per non dimenticare». E non si capisce come si possa dimenticare un governo che per 608 giorni vissuti pericolosamente si è retto sulle stampelle dei senatori a vita: bastava un’assenza, un onorevole incontinente, una febbriciattola, un ranteghino, ed era subito crisi. Quando non c’erano rotture di clavicola, c’erano rotture di maggioranza: era l’epoca dei ministri di piazza e di governo, ricordate? Sulla base americana di Vicenza, sui Dico, sui precari, sul Medio Oriente, spuntava sempre il Pecoraro furioso, il Ferrero isterico, il Diliberto che sfilava coi palestinesi al grido di «Bush sanguinario», e poi il comunista che litiga con il democristiano, Di Pietro che abbaia contro Mastella. «Avevamo detto serietà al governo, basta giocare con la piazza», sbottava Prodi circondato da ogni fronte. Che tra continue verifiche, sgambetti e franchi tiratori, incassava il rimprovero di Napolitano sul «ricorso abnorme» ai voti di fiducia, l’unico antibiotico in grado di tenere in piedi il corpaccione dell’esecutivo. Ma non abbastanza poderoso da impedire, sul voto cruciale sulla missione italiana in Afghanistan, di finire sotto in Senato per colpa del tiro mancino dei comunisti Rossi e Turigliatto. Perché tenere insieme 21 partiti, da Giordano a Boselli a Caruso, è impresa sovrumana: divisi sugli esteri, sull’etica, sul lavoro, sull’economia non ne parliamo. Sulla Finanziaria extralarge, la cura da cavallo da 35 miliardi, è scoppiata una guerra interna durata mesi, tanto che il premier è dapprima caduto nel ridicolo, «abbiamo scontentato tutti, quindi va tutto bene», e poi nel patetico: «Non capisco, l’Italia dev’essere impazzita». Come no. Impazzita l’Italia che non riusciva ad apprezzare i meriti economici del governo. Impazzita anche l’Eurostat quando assegnò al Professore la medaglia di mortadella per il «falso in bilancio» più grande del mondo. Praticamente 30 miliardi di euro, con i quali il governo avrebbe «drogato» i conti pubblici italiani al fine di caricare il deficit sulle spalle dell’esecutivo di centrodestra. È uno scherzetto di cui ci siamo già occupati: pare che tra le fantasiose voci di bilancio ci sia un cavillo che prevede l’accollo statale dei debiti delle ferrovie: 13 miliardi annotati astutamente nell’esercizio 2006, falsando le statistiche. Insomma, un vero paradiso, il regno di Prodi: alcune meraviglie dell’Eden però dobbiamo sviscerarle ancora oggi. Per esempio, al di là dell’archiviazione in sede giudiziaria, c’è da capire come mai il viceministro Visco ha licenziato il comandante della Guardia di Finanza, Speciale, dopo una polemica di fuoco su certe nomine nel corpo. C’è ancora da capire come mai il consigliere economico di Prodi, Rovati, si è dimesso, dopo aver fatto recapitare un misterioso bigliettino intestato Palazzo Chigi all’ex capo di Telecom Tronchetti Provera. C’è da dire, in ogni caso, che il Prof due piccoli record può vantarli: il suo è stato il governo più popoloso della Repubblica pur avendo vinto col minimo scarto. Una vittoria alle elezioni dello 0,06%, 25mila voti, gli ha consentito di formare un governo di 102 poltrone, 25 ministri, 10 viceministri e un reggimento di 66 sottosegretari. C’è davvero qualcuno che sogna un ritorno al passato? Oggi Romano sembra per la prima volta inflessibile: «Non ritornerò, quando una stagione si chiude, si chiude davvero». Un punto d’orgoglio, per lui; una speranza per tanti altri.
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