Scusate, ma non ce la faccio. Non riesco ad emozionarmi. Ce l’ho messa tutta, ve lo giuro. Niente da fare. Vedo intorno a me gente che va in sollucchero, fiumi di entusiasmo, commozione e fan scatenati. Sento parlare di «svolta globale», «evento epocale», «parole storiche» che «hanno segnato una nuova speranza per il mondo». Assisto a un’euforia contagiosa che attraversa tutti, dai ministri alle passerelle di moda, dai sindacalisti alle showgirl. E, purtroppo, non riesco a esserne parte. Dico purtroppo perché mi dispiace. Un po’ di euforia fa sempre bene, soprattutto di questi tempi. Perciò sinceramente invidio chi riesce a intravedere nel discorso che ha fatto Obama ieri la «speranza di un mondo migliore». Io ci intravedo, al massimo, un po’ di onesta retorica, qualche sprazzo di vigore e una manciata di buoni sentimenti. We can e volemose bene, una strizzata d’occhio al bushismo e una scivolata verso lidi che sembrano quasi veltroniani. Fra Condoleezza Rice e Concita De Gregorio, insomma. Ma dov’è la svolta globale?Ripeto, probabilmente è una mancanza mia. Vi chiedo scusa in anticipo. Se tutto il mondo suona le fanfare di fronte a queste parole storiche, probabilmente le parole saranno davvero storiche. Io, purtroppo, temo che domani me le sarò già dimenticate. E pensare che le ho lette e rilette per cercare di trovare lo slogan vincente, la frase tagliente, una formula di quelle che passa direttamente dal comizio all’enciclopedia, genere «nuove frontiere» o «I have a dream». O, se non altro, «dove c’è Barilla c’è casa», che non finisce nell’enciclopedia ma almeno si fa ricordare. Non sono riuscito a trovarla. L’amnesia incombe. Ho cercato allora almeno un’idea nuova nei contenuti, una proposta forte, una soluzione innovativa. Se Obama è la nuova speranza planetaria, mi dicevo, magari tira fuori dal cilindro qualcosa di sorprendente, di quelle che le senti e dici: «Accipicchia, io non ci sarei arrivato, vedi perché lui è presidente degli Stati Uniti?». Scusatemi, ma non ho trovato nemmeno quello. Le tradizioni dei Padri, la grandezza della nazione, la fiducia da restituire. Le sfide («serie e molte», si capisce) da affrontare. «Sappi questo America: le risolveremo». Benissimo: e perché ne sei così sicuro? «Perché abbiamo scelto la speranza invece della paura, l’unità d’intenti invece della discordia». Grazie, tante: fin lì ci arrivavamo anche a Trastevere. We can e volemose bene, appunto. Per quello che ne ho capito (ma lo ripeto: evidentemente dev’essermi sfuggito qualcosa) la parte migliore del discorso di Obama ricalca la parte migliore di Bush. Un po’ di orgoglio, un po’ di vigore, un messaggio chiaro ai terroristi: la guerra contro di voi continua. Ottimo, ma allora la svolta storica dov’è? Nel messaggio ai musulmani? Quel «mano tesa all’Islam» che sembra una predica di monsignor Tettamanzi? E poi che razza di novità è questa? Ma vi pare possibile? Tutto questo po’ po’ di evento globale per dire che ci vuole più «dialogo»? No, per favore no: il dialogo no, almeno nel giorno in cui inizia una nuova era. C’è un po’ di differenza tra la Casa Bianca e il Mulino Bianco: questo il nuovo presidente lo sa benissimo e infatti, alla faccia di tutti gli obamaniaci d’Europa, alla fine probabilmente sarà anche lui un comandante in capo, fermo e deciso a difendere l’America e il mondo, come il suo predecessore. Molto lontano dal pupazzetto simil-veltroniano che ci stanno propinando qui da noi. Ma allora, scusate, com’è che inizia la nuova era? Dov’è il cambiamento epocale? Con i suoi primi passi, cioè con la scelta degli uomini, Obama ha premiato il vecchio establishment. Il discorso d’investitura non apre nuovi orizzonti, a parte, appunto, il dialogo. Scusate, mi spiegate come posso fare, allora, per emozionarmi anch’io? Ve l’ho detto, io non ci riesco proprio. Sarò l’unico, ma non ce la faccio. Per la verità, proprio l’unico no: ho notato che anche Wall Street ieri non ha provato brividi d’entusiasmo dinanzi al momento storico. Al contrario, dopo l’intervento del presidente ha toccato i minimi. Evidentemente a chi lavora con i dané sonanti il dialogo e l’«unità d’intenti» non bastano. Ci vuole qualcosa di più, ci voleva qualcosa di più. L’altro giorno in riunione di redazione mi hanno raccontato che il giovane genio incaricato di scrivere il discorso di Obama ha avuto un mancamento per lo stress e lo sforzo compiuto nella stesura. Be’, dopo aver letto il prodotto di tanto sforzo ho pensato che se avesse preso una camomilla magari si stressava meno e gli veniva meglio. L’ottimo Tg1 delle 20 ieri sera apriva con un titolone per dire che «il mondo spera». Certo: il mondo spera. E, sinceramente, sperava anche qualcosa di più. Per essere un giorno epocale, invece, l’unico commento che viene spontaneo è: tutto qui?
mercoledì 21 gennaio 2009
Obama (2)
Caro Barack, è tutto qui? di Mario Giordano
Scusate, ma non ce la faccio. Non riesco ad emozionarmi. Ce l’ho messa tutta, ve lo giuro. Niente da fare. Vedo intorno a me gente che va in sollucchero, fiumi di entusiasmo, commozione e fan scatenati. Sento parlare di «svolta globale», «evento epocale», «parole storiche» che «hanno segnato una nuova speranza per il mondo». Assisto a un’euforia contagiosa che attraversa tutti, dai ministri alle passerelle di moda, dai sindacalisti alle showgirl. E, purtroppo, non riesco a esserne parte. Dico purtroppo perché mi dispiace. Un po’ di euforia fa sempre bene, soprattutto di questi tempi. Perciò sinceramente invidio chi riesce a intravedere nel discorso che ha fatto Obama ieri la «speranza di un mondo migliore». Io ci intravedo, al massimo, un po’ di onesta retorica, qualche sprazzo di vigore e una manciata di buoni sentimenti. We can e volemose bene, una strizzata d’occhio al bushismo e una scivolata verso lidi che sembrano quasi veltroniani. Fra Condoleezza Rice e Concita De Gregorio, insomma. Ma dov’è la svolta globale?Ripeto, probabilmente è una mancanza mia. Vi chiedo scusa in anticipo. Se tutto il mondo suona le fanfare di fronte a queste parole storiche, probabilmente le parole saranno davvero storiche. Io, purtroppo, temo che domani me le sarò già dimenticate. E pensare che le ho lette e rilette per cercare di trovare lo slogan vincente, la frase tagliente, una formula di quelle che passa direttamente dal comizio all’enciclopedia, genere «nuove frontiere» o «I have a dream». O, se non altro, «dove c’è Barilla c’è casa», che non finisce nell’enciclopedia ma almeno si fa ricordare. Non sono riuscito a trovarla. L’amnesia incombe. Ho cercato allora almeno un’idea nuova nei contenuti, una proposta forte, una soluzione innovativa. Se Obama è la nuova speranza planetaria, mi dicevo, magari tira fuori dal cilindro qualcosa di sorprendente, di quelle che le senti e dici: «Accipicchia, io non ci sarei arrivato, vedi perché lui è presidente degli Stati Uniti?». Scusatemi, ma non ho trovato nemmeno quello. Le tradizioni dei Padri, la grandezza della nazione, la fiducia da restituire. Le sfide («serie e molte», si capisce) da affrontare. «Sappi questo America: le risolveremo». Benissimo: e perché ne sei così sicuro? «Perché abbiamo scelto la speranza invece della paura, l’unità d’intenti invece della discordia». Grazie, tante: fin lì ci arrivavamo anche a Trastevere. We can e volemose bene, appunto. Per quello che ne ho capito (ma lo ripeto: evidentemente dev’essermi sfuggito qualcosa) la parte migliore del discorso di Obama ricalca la parte migliore di Bush. Un po’ di orgoglio, un po’ di vigore, un messaggio chiaro ai terroristi: la guerra contro di voi continua. Ottimo, ma allora la svolta storica dov’è? Nel messaggio ai musulmani? Quel «mano tesa all’Islam» che sembra una predica di monsignor Tettamanzi? E poi che razza di novità è questa? Ma vi pare possibile? Tutto questo po’ po’ di evento globale per dire che ci vuole più «dialogo»? No, per favore no: il dialogo no, almeno nel giorno in cui inizia una nuova era. C’è un po’ di differenza tra la Casa Bianca e il Mulino Bianco: questo il nuovo presidente lo sa benissimo e infatti, alla faccia di tutti gli obamaniaci d’Europa, alla fine probabilmente sarà anche lui un comandante in capo, fermo e deciso a difendere l’America e il mondo, come il suo predecessore. Molto lontano dal pupazzetto simil-veltroniano che ci stanno propinando qui da noi. Ma allora, scusate, com’è che inizia la nuova era? Dov’è il cambiamento epocale? Con i suoi primi passi, cioè con la scelta degli uomini, Obama ha premiato il vecchio establishment. Il discorso d’investitura non apre nuovi orizzonti, a parte, appunto, il dialogo. Scusate, mi spiegate come posso fare, allora, per emozionarmi anch’io? Ve l’ho detto, io non ci riesco proprio. Sarò l’unico, ma non ce la faccio. Per la verità, proprio l’unico no: ho notato che anche Wall Street ieri non ha provato brividi d’entusiasmo dinanzi al momento storico. Al contrario, dopo l’intervento del presidente ha toccato i minimi. Evidentemente a chi lavora con i dané sonanti il dialogo e l’«unità d’intenti» non bastano. Ci vuole qualcosa di più, ci voleva qualcosa di più. L’altro giorno in riunione di redazione mi hanno raccontato che il giovane genio incaricato di scrivere il discorso di Obama ha avuto un mancamento per lo stress e lo sforzo compiuto nella stesura. Be’, dopo aver letto il prodotto di tanto sforzo ho pensato che se avesse preso una camomilla magari si stressava meno e gli veniva meglio. L’ottimo Tg1 delle 20 ieri sera apriva con un titolone per dire che «il mondo spera». Certo: il mondo spera. E, sinceramente, sperava anche qualcosa di più. Per essere un giorno epocale, invece, l’unico commento che viene spontaneo è: tutto qui?
Scusate, ma non ce la faccio. Non riesco ad emozionarmi. Ce l’ho messa tutta, ve lo giuro. Niente da fare. Vedo intorno a me gente che va in sollucchero, fiumi di entusiasmo, commozione e fan scatenati. Sento parlare di «svolta globale», «evento epocale», «parole storiche» che «hanno segnato una nuova speranza per il mondo». Assisto a un’euforia contagiosa che attraversa tutti, dai ministri alle passerelle di moda, dai sindacalisti alle showgirl. E, purtroppo, non riesco a esserne parte. Dico purtroppo perché mi dispiace. Un po’ di euforia fa sempre bene, soprattutto di questi tempi. Perciò sinceramente invidio chi riesce a intravedere nel discorso che ha fatto Obama ieri la «speranza di un mondo migliore». Io ci intravedo, al massimo, un po’ di onesta retorica, qualche sprazzo di vigore e una manciata di buoni sentimenti. We can e volemose bene, una strizzata d’occhio al bushismo e una scivolata verso lidi che sembrano quasi veltroniani. Fra Condoleezza Rice e Concita De Gregorio, insomma. Ma dov’è la svolta globale?Ripeto, probabilmente è una mancanza mia. Vi chiedo scusa in anticipo. Se tutto il mondo suona le fanfare di fronte a queste parole storiche, probabilmente le parole saranno davvero storiche. Io, purtroppo, temo che domani me le sarò già dimenticate. E pensare che le ho lette e rilette per cercare di trovare lo slogan vincente, la frase tagliente, una formula di quelle che passa direttamente dal comizio all’enciclopedia, genere «nuove frontiere» o «I have a dream». O, se non altro, «dove c’è Barilla c’è casa», che non finisce nell’enciclopedia ma almeno si fa ricordare. Non sono riuscito a trovarla. L’amnesia incombe. Ho cercato allora almeno un’idea nuova nei contenuti, una proposta forte, una soluzione innovativa. Se Obama è la nuova speranza planetaria, mi dicevo, magari tira fuori dal cilindro qualcosa di sorprendente, di quelle che le senti e dici: «Accipicchia, io non ci sarei arrivato, vedi perché lui è presidente degli Stati Uniti?». Scusatemi, ma non ho trovato nemmeno quello. Le tradizioni dei Padri, la grandezza della nazione, la fiducia da restituire. Le sfide («serie e molte», si capisce) da affrontare. «Sappi questo America: le risolveremo». Benissimo: e perché ne sei così sicuro? «Perché abbiamo scelto la speranza invece della paura, l’unità d’intenti invece della discordia». Grazie, tante: fin lì ci arrivavamo anche a Trastevere. We can e volemose bene, appunto. Per quello che ne ho capito (ma lo ripeto: evidentemente dev’essermi sfuggito qualcosa) la parte migliore del discorso di Obama ricalca la parte migliore di Bush. Un po’ di orgoglio, un po’ di vigore, un messaggio chiaro ai terroristi: la guerra contro di voi continua. Ottimo, ma allora la svolta storica dov’è? Nel messaggio ai musulmani? Quel «mano tesa all’Islam» che sembra una predica di monsignor Tettamanzi? E poi che razza di novità è questa? Ma vi pare possibile? Tutto questo po’ po’ di evento globale per dire che ci vuole più «dialogo»? No, per favore no: il dialogo no, almeno nel giorno in cui inizia una nuova era. C’è un po’ di differenza tra la Casa Bianca e il Mulino Bianco: questo il nuovo presidente lo sa benissimo e infatti, alla faccia di tutti gli obamaniaci d’Europa, alla fine probabilmente sarà anche lui un comandante in capo, fermo e deciso a difendere l’America e il mondo, come il suo predecessore. Molto lontano dal pupazzetto simil-veltroniano che ci stanno propinando qui da noi. Ma allora, scusate, com’è che inizia la nuova era? Dov’è il cambiamento epocale? Con i suoi primi passi, cioè con la scelta degli uomini, Obama ha premiato il vecchio establishment. Il discorso d’investitura non apre nuovi orizzonti, a parte, appunto, il dialogo. Scusate, mi spiegate come posso fare, allora, per emozionarmi anch’io? Ve l’ho detto, io non ci riesco proprio. Sarò l’unico, ma non ce la faccio. Per la verità, proprio l’unico no: ho notato che anche Wall Street ieri non ha provato brividi d’entusiasmo dinanzi al momento storico. Al contrario, dopo l’intervento del presidente ha toccato i minimi. Evidentemente a chi lavora con i dané sonanti il dialogo e l’«unità d’intenti» non bastano. Ci vuole qualcosa di più, ci voleva qualcosa di più. L’altro giorno in riunione di redazione mi hanno raccontato che il giovane genio incaricato di scrivere il discorso di Obama ha avuto un mancamento per lo stress e lo sforzo compiuto nella stesura. Be’, dopo aver letto il prodotto di tanto sforzo ho pensato che se avesse preso una camomilla magari si stressava meno e gli veniva meglio. L’ottimo Tg1 delle 20 ieri sera apriva con un titolone per dire che «il mondo spera». Certo: il mondo spera. E, sinceramente, sperava anche qualcosa di più. Per essere un giorno epocale, invece, l’unico commento che viene spontaneo è: tutto qui?
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