Una prima avvisaglia l’avevamo avuta sei anni fa, quando erano finiti in manette alcuni fenomeni delle cosiddette «nuove brigate rosse»: quelli, per intenderci, del gruppo della signora Lioce. Tra le carte sequestrate al gruppetto - insieme con elenchi di servi dello Stato, mappe, risoluzioni strategiche, analisi sull’imperialismo e bollettini numero - gli investigatori avevano trovato mazzette di ricevute. Scontrini del supermercato; biglietti del treno e del bus; carte carburanti; e così via. Il tutto da presentare al cassiere della banda per il rimborso. La scoperta della «nota spese della rivoluzione» aveva all’improvviso fatto confluire anche una tragedia come quella del terrorismo fra le classiche cialtronate all’italiana, fra i film di Alberto Sordi e quelli di Totò. Al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin diceva che riteneva improbabile un moto analogo in Germania perché i tedeschi, se dovessero sequestrare un treno, prima si metterebbero diligentemente in fila alla biglietteria. In Italia forse la rivolta è fallita perché i nostri killer non hanno mai trovato il modo di scaricare l’Iva sui Kalashnikov. In questi giorni due notizie di cronaca ci confermano purtroppo (o forse per fortuna) che tutto quel che succede da noi finisce sempre in barzelletta. Renato Curcio si è lamentato per non avere una pensione: «Eppure - ha detto - ho lavorato in vari carceri, ma risulta che non sono stati versati i contributi». E chissà come mai, non li hanno versati. Forse per lo stesso motivo per cui in tutti quegli anni a Curcio non è stato chiesto di pagare l’affitto. L’altra notizia riguarda Cesare Battisti, enfant gaté della Gauche caviar e campione assoluto dell’impunità: uno, per intenderci, al cui confronto Curcio fa un figurone. Battisti, non contento di avere ammazzato e fatto ammazzare, non contento di averla sfangata con un paio d’anni di galera, non contento di essere stato coccolato a Parigi spacciandosi per uno scrittore, non contento di aver usufruito della protezione - sia pure per interposta persona - perfino di un presidente conservatore come Sarkozy, non contento di aver potuto «fuggire» dalla Francia con la gentile collaborazione della gendarmeria, è riuscito a farsi riconoscere come perseguitato politico e a ottenere asilo in Brasile. La tragedia degli anni Settanta finisce così: con una richiesta di pensione e con un marchio di «Stato liberticida» affibbiato all’Italia dal Brasile, un Paese in cui la piaga della povertà viene combattuta dallo Stato con qualche sventagliata di mitra sui bambini in sovrannumero. D’altra parte avremmo dovuto capirlo fin dall’inizio che non era una cosa seria: da quando gli intellettuali cominciarono a parlare di rivoluzione in un Paese in cui si mangiava tre volte al giorno; e da quando per legge abbiamo cominciato a chiamare «pentiti» i Che Guevara della Brianza che soffrivano il carcere. È destino, dicevamo, che ogni cosa in Italia diventi tragicomica, che sia un mix di ridicolo e di orrore: lo fu il fascismo con le sue marcette e le sue guerre, il suo «voi» e le sue leggi razziali, il suo gonfiare il petto e il suo fuggire con la cassa, i suoi antemarcia e i suoi voltagabbana. Lo è stato anche il brigatismo, con l’orrore delle vite spezzate e il ridicolo della richiesta di pensione (per l’ottenimento della quale consigliamo a Curcio di chiedere a Battisti: con l’intercessione di una madame Carlà nulla è impossibile). Un’ultima cosa. Da Curcio, non ce l’aspettavamo. C’è un pezzo di Indro Montanelli datato 13 settembre 1984. S’intitola «Per Curcio» ed è l’elogio di un terrorista che aveva mantenuto la «testa alta», una «dignità», «un coraggio». «È a questa diversità - scriveva Montanelli - che ci inchiniamo». Povero Indro, quante delusioni.
martedì 20 gennaio 2009
Br in pensione
Ora le Br chiedono la pensione di Michele Brambilla
Una prima avvisaglia l’avevamo avuta sei anni fa, quando erano finiti in manette alcuni fenomeni delle cosiddette «nuove brigate rosse»: quelli, per intenderci, del gruppo della signora Lioce. Tra le carte sequestrate al gruppetto - insieme con elenchi di servi dello Stato, mappe, risoluzioni strategiche, analisi sull’imperialismo e bollettini numero - gli investigatori avevano trovato mazzette di ricevute. Scontrini del supermercato; biglietti del treno e del bus; carte carburanti; e così via. Il tutto da presentare al cassiere della banda per il rimborso. La scoperta della «nota spese della rivoluzione» aveva all’improvviso fatto confluire anche una tragedia come quella del terrorismo fra le classiche cialtronate all’italiana, fra i film di Alberto Sordi e quelli di Totò. Al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin diceva che riteneva improbabile un moto analogo in Germania perché i tedeschi, se dovessero sequestrare un treno, prima si metterebbero diligentemente in fila alla biglietteria. In Italia forse la rivolta è fallita perché i nostri killer non hanno mai trovato il modo di scaricare l’Iva sui Kalashnikov. In questi giorni due notizie di cronaca ci confermano purtroppo (o forse per fortuna) che tutto quel che succede da noi finisce sempre in barzelletta. Renato Curcio si è lamentato per non avere una pensione: «Eppure - ha detto - ho lavorato in vari carceri, ma risulta che non sono stati versati i contributi». E chissà come mai, non li hanno versati. Forse per lo stesso motivo per cui in tutti quegli anni a Curcio non è stato chiesto di pagare l’affitto. L’altra notizia riguarda Cesare Battisti, enfant gaté della Gauche caviar e campione assoluto dell’impunità: uno, per intenderci, al cui confronto Curcio fa un figurone. Battisti, non contento di avere ammazzato e fatto ammazzare, non contento di averla sfangata con un paio d’anni di galera, non contento di essere stato coccolato a Parigi spacciandosi per uno scrittore, non contento di aver usufruito della protezione - sia pure per interposta persona - perfino di un presidente conservatore come Sarkozy, non contento di aver potuto «fuggire» dalla Francia con la gentile collaborazione della gendarmeria, è riuscito a farsi riconoscere come perseguitato politico e a ottenere asilo in Brasile. La tragedia degli anni Settanta finisce così: con una richiesta di pensione e con un marchio di «Stato liberticida» affibbiato all’Italia dal Brasile, un Paese in cui la piaga della povertà viene combattuta dallo Stato con qualche sventagliata di mitra sui bambini in sovrannumero. D’altra parte avremmo dovuto capirlo fin dall’inizio che non era una cosa seria: da quando gli intellettuali cominciarono a parlare di rivoluzione in un Paese in cui si mangiava tre volte al giorno; e da quando per legge abbiamo cominciato a chiamare «pentiti» i Che Guevara della Brianza che soffrivano il carcere. È destino, dicevamo, che ogni cosa in Italia diventi tragicomica, che sia un mix di ridicolo e di orrore: lo fu il fascismo con le sue marcette e le sue guerre, il suo «voi» e le sue leggi razziali, il suo gonfiare il petto e il suo fuggire con la cassa, i suoi antemarcia e i suoi voltagabbana. Lo è stato anche il brigatismo, con l’orrore delle vite spezzate e il ridicolo della richiesta di pensione (per l’ottenimento della quale consigliamo a Curcio di chiedere a Battisti: con l’intercessione di una madame Carlà nulla è impossibile). Un’ultima cosa. Da Curcio, non ce l’aspettavamo. C’è un pezzo di Indro Montanelli datato 13 settembre 1984. S’intitola «Per Curcio» ed è l’elogio di un terrorista che aveva mantenuto la «testa alta», una «dignità», «un coraggio». «È a questa diversità - scriveva Montanelli - che ci inchiniamo». Povero Indro, quante delusioni.
Una prima avvisaglia l’avevamo avuta sei anni fa, quando erano finiti in manette alcuni fenomeni delle cosiddette «nuove brigate rosse»: quelli, per intenderci, del gruppo della signora Lioce. Tra le carte sequestrate al gruppetto - insieme con elenchi di servi dello Stato, mappe, risoluzioni strategiche, analisi sull’imperialismo e bollettini numero - gli investigatori avevano trovato mazzette di ricevute. Scontrini del supermercato; biglietti del treno e del bus; carte carburanti; e così via. Il tutto da presentare al cassiere della banda per il rimborso. La scoperta della «nota spese della rivoluzione» aveva all’improvviso fatto confluire anche una tragedia come quella del terrorismo fra le classiche cialtronate all’italiana, fra i film di Alberto Sordi e quelli di Totò. Al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin diceva che riteneva improbabile un moto analogo in Germania perché i tedeschi, se dovessero sequestrare un treno, prima si metterebbero diligentemente in fila alla biglietteria. In Italia forse la rivolta è fallita perché i nostri killer non hanno mai trovato il modo di scaricare l’Iva sui Kalashnikov. In questi giorni due notizie di cronaca ci confermano purtroppo (o forse per fortuna) che tutto quel che succede da noi finisce sempre in barzelletta. Renato Curcio si è lamentato per non avere una pensione: «Eppure - ha detto - ho lavorato in vari carceri, ma risulta che non sono stati versati i contributi». E chissà come mai, non li hanno versati. Forse per lo stesso motivo per cui in tutti quegli anni a Curcio non è stato chiesto di pagare l’affitto. L’altra notizia riguarda Cesare Battisti, enfant gaté della Gauche caviar e campione assoluto dell’impunità: uno, per intenderci, al cui confronto Curcio fa un figurone. Battisti, non contento di avere ammazzato e fatto ammazzare, non contento di averla sfangata con un paio d’anni di galera, non contento di essere stato coccolato a Parigi spacciandosi per uno scrittore, non contento di aver usufruito della protezione - sia pure per interposta persona - perfino di un presidente conservatore come Sarkozy, non contento di aver potuto «fuggire» dalla Francia con la gentile collaborazione della gendarmeria, è riuscito a farsi riconoscere come perseguitato politico e a ottenere asilo in Brasile. La tragedia degli anni Settanta finisce così: con una richiesta di pensione e con un marchio di «Stato liberticida» affibbiato all’Italia dal Brasile, un Paese in cui la piaga della povertà viene combattuta dallo Stato con qualche sventagliata di mitra sui bambini in sovrannumero. D’altra parte avremmo dovuto capirlo fin dall’inizio che non era una cosa seria: da quando gli intellettuali cominciarono a parlare di rivoluzione in un Paese in cui si mangiava tre volte al giorno; e da quando per legge abbiamo cominciato a chiamare «pentiti» i Che Guevara della Brianza che soffrivano il carcere. È destino, dicevamo, che ogni cosa in Italia diventi tragicomica, che sia un mix di ridicolo e di orrore: lo fu il fascismo con le sue marcette e le sue guerre, il suo «voi» e le sue leggi razziali, il suo gonfiare il petto e il suo fuggire con la cassa, i suoi antemarcia e i suoi voltagabbana. Lo è stato anche il brigatismo, con l’orrore delle vite spezzate e il ridicolo della richiesta di pensione (per l’ottenimento della quale consigliamo a Curcio di chiedere a Battisti: con l’intercessione di una madame Carlà nulla è impossibile). Un’ultima cosa. Da Curcio, non ce l’aspettavamo. C’è un pezzo di Indro Montanelli datato 13 settembre 1984. S’intitola «Per Curcio» ed è l’elogio di un terrorista che aveva mantenuto la «testa alta», una «dignità», «un coraggio». «È a questa diversità - scriveva Montanelli - che ci inchiniamo». Povero Indro, quante delusioni.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento