lunedì 19 gennaio 2009

Lega Nord

Vento del nord. La Lega ha capito come funziona la politica per questo la sa fare di Lodovico Festa

Dove andrà la Lega Nord? Ah! Saperlo. Il movimento fondato da Umberto Bossi negli anni Ottanta è entrato in una nuova fase: quella della centralità politica che tende a sovraimporsi a quella del sindacalismo territoriale e a quella dell’eccellenza amministrativa. Certo, da una parte c’è la raccolta della protesta nelle sue forme più dure (chissenefrega della Capitale, facciamo pagare i "negri” che vengono in Italia, pisciamo sui terreni dove si dovrebbero costruire le moschee, manifestiamo contro gli studi di settore) dall’altra una certa cura per il lavoro amministrativo (talvolta privilegiando le ragioni del ceto politico – ma il tutto è argomentato appellandosi a valori democratici – su quelle dell’efficienza economica: vedi municipalizzate e province), ma la vera novità è l’aspirazione alla centralità politica dimostrata nella partita sul federalismo. E ci sono anche un’altra serie di mosse, locali e nazionali, che tentano di definire una nuova centralità politica della Lega: ambizione che in parte si era manifesta, sia pure con molta minor rilevanza, nella fase di costruzione del governo Dini del 1995. Verrebbe da dire che i leghisti sono diventati così centrali politicamente perché sono rimasti quasi gli unici politici in circolazione. Silvio Berlusconi è un mago degli umori popolari e il più grande animatore di campagne elettorali dell’epoca moderna, Giulio Tremonti è il più dotato di visione di governo, Gianfranco Fini dà ormai punti a chiunque sul terreno della perfezione del correttismo politico nelle sue dichiarazioni, Pierferdinando Casini è il Raul Casadei della nostalgia democristiana, Walter Veltroni prima di diventare quel pugile suonato dall’occhio sbarrato che è oggi, era il miglior confezionatore di dichiarazioni buoniste in circolazione, Antonio Di Pietro è il leader di un partito di rutto e di manette, Massimo D’Alema (che avrebbe tutto il talento necessario) è un necrofilo innamorato del cadavere della prima repubblica. E’ difficile orma trovare uno che abbia un po’ il “senso” della politica che avevano quasi tutti i leader della Prima repubblica, non parlo solo dei grandi, dei Togliatti, dei Nenni o dei Moro, ma anche giù giù fino alle ultime file, fino a Pietro Longo del Psdi o a un medio deputato repubblicano: con grande padronanza dell’arte della dissimulazione, di quella della manovra, dell’affondo e della parata. Tutte arti largamente diffuse, tutte gestite con media (con punte di eccellenza) qualità. E ora invece se si vuole assistere a qualche colpo dal buon valore antico bisogna aspettare Bossi o anche Roberto Calderoli o Roberto Maroni. Ma persino Roberto Cota ha un tratto più disinvolto nell’agire politico di tanti professionisti ormai in disarmo. Perché questo fenomeno? Perché per fare politica bene, bisogna sapere su che base si è costruito il proprio consenso. Il politico veramente libero nella manovra è quello che conosce perfettamente i propri elettori (e ha elettori che possono permettersi di essere almeno un po’ “liberi”). Ora dagli inizi più devastanti della crisi fiscale dello stato italiano, alla fine degli anni Ottanta, i leghisti hanno imparato ad ascoltare la società, a comprenderne anche in modo rozzo le ansie e le aspettative, hanno coltivato una serie di intellettuali organici (spesso ragionieri e geometri) che elaboravano le volontà diffuse, hanno organizzato questo popolo e non l’hanno più mollato. E non si tratta di settori della nostra società disgregati bensì di alcuni dei comparti più laboriosi e produttivi del Paese. Quella dei leghisti è stata una rivoluzione profonda e in qualche modo imprevedibile: l’Italia era abituata a innovazioni che nascevano nelle grandi città, tra i ceti medi e professionali più esposti alla modernità. Invece il sommovimento leghista si radica nelle periferie del Nord, nella fascia subalpina, nelle aree meno densamente urbanizzate. Le nuove idee un tempo attecchivano nei settori di popolazione più secolarizzati, di orientamento radicale, e invece con la Lega esplodono nelle zone di forte consenso democristiano, in tanti casi addirittura “popolare” cioè dove votavano per il partito cattolico nei primi decenni del Novecento. Composizione sociale e base antropologico-culturale danno ai leghisti una particolare solidità che però impone una qualche forma di concretezza: proprio perché sei così forte per radici in una società solida e ricca di valori, devi essere capace di realizzazione. Non rappresenti un tipo di persone che puoi portare indefinitamente a spasso senza fare i conti con quello che riuscirai a ottenere. In parte questa esigenza è soddisfatta dalla crescente leva di amministratori locali leghisti di una certa efficienza: un po’ come il Pci che surrogava l’irrealizzabilità del programma massimo con il buongoverno dei comuni emiliani o toscani, e poi – prima dei Bassolino e dei Veltroni – di mezza Italia. In parte la concretezza è garantita dal “sindacalismo territoriale”, dalla trasformazione della protesta in rivendicazione e il consolidamento viene anche dai successi (più o meno parziali) di quelle rivendicazioni. Anche qui mutuando lo schema che legava il Pci alla Cgil. Però alla fine si arriva alle ragioni di fondo di una forza politica e quando queste crollano, tu crolli con lei (sia pure – talvolta - in tempi lunghissimi: anche in questo caso si consideri l’esperienza del Pci e degli ex Pci). E’ proprio sulle ragioni di “fondo” che chi nel centrodestra si propone di competere, pur nel quadro dell’alleanza, con la Lega dovrebbe fare una riflessione. Come sostituire al sindalismo territoriale, una vocazione di governo del territorio, come praticare una buona amministrazione senza far crescere troppo il ceto politico, come costruire un federalismo governante e non espressione di una fede politica. Non mi pare che molti dichiarazioni soprattutto di amministratori del Nord di Forza Italia vadano in questo senso. Mi pare piuttosto che sfidino il leghismo sul suo terreno. In questo caso sono fritti.

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