In Olanda perdono popolari e socialisti. Dopo il voto olandese l'Europa trema di fronte al voto dei suoi cittadini di Michele Marchi
Mentre olandesi ed inglesi hanno già chiuso le loro urne ed irlandesi e cechi si apprestano ad aprirle, l’Unione a 27 si avvia verso un probabile “week-end di paura”. Gli ultimi sondaggi hanno confermato una possibile, anche se quasi impercettibile, inversione di tendenza rispetto all’astensionismo record del 2004 quando il 54 per cento degli aventi diritto non si recò alle urne. Se un cittadino su due si recherà a votare a Bruxelles e Strasburgo si brinderà, ma resteranno comunque brindisi amari, frutto di una visione elitaria e tecnocratica di Europa, quella stessa convinzione che ha spinto Barroso ad affermare di non preoccuparsi qualora dovesse votare solo il 40 per cento degli aventi diritto. Dunque non solo non ci si allarma per quel mix pericoloso di sfiducia, disinteresse e rigetto che attraversa tutti i 27 Paesi membri e che, ironia della sorte, pare l’unico elemento unificante dell’Unione del 2009. Ma non ci si sofferma nemmeno ad analizzare seriamente le ragioni di questo sentimento così diffuso, né ci si sforza di comprendere come le categorie del nuovo euro-scetticismo e quelle dell’antieuropeismo odierno siano mutate in maniera sostanziale rispetto all’antieuropeismo delle origini. Si finisce così per accomunare FPO austriaco e British National Party britannico, PVV di Wilders (che i primi exit poll danno al 15%, con quattro deputati eletti) e Front National francese. Eppure ci sono due ragioni immediatamente evidenti per spiegare l’attuale situazione, che peraltro è solo il riproporsi su vasta scala di una costante tendenza dal 1979 ad oggi. Le elezioni per il Parlamento europeo sono le uniche elezioni esistenti che non decidono né la formazione di un governo, né scelte politiche chiare ed evidenti. Come è possibile che, oramai da molte settimane, Partito popolare e Partito socialista (i due gruppi più consistenti) si siano già accordati per il rinnovo di Barroso alla guida della presidenza della Commissione (che peraltro solo difficilmente può essere assimilata ad un esecutivo nel senso classico del termine)? Per quanto riguarda poi le scelte politiche come è possibile motivare l’elettorato se non esiste una piattaforma programmatica coerente presentata dai principali soggetti politici europei? È così strano che disinteresse e sfiducia siano dominanti, quando l’espressione del suffragio finisce per tramutarsi in un semplice atto di “testimonianza politico-ideologica”, senza nessuna tangibile ricaduta né nella formazione dell’esecutivo né nella selezione delle principali scelte politiche da attuare? Per quale motivo nessuno ricorda che al referendum francese del 29 maggio 2005, quando le opzioni in campo erano piuttosto evidenti (anche se magari distorte da motivazioni propagandistiche), hanno partecipato quasi il 70% dei cittadini francesi? Proprio il tema delle principali forze politiche presenti nell’Europarlamento permette di affrontare questa vigilia elettorale anche da un altro angolo visuale. L’integrazione europea è stata storicamente supportata dall’incontro tra le tradizioni politiche democratico-cristiane (popolari) e socialiste, con un contributo non trascurabile, ma comunque non di primissimo piano, della corrente liberale. Ebbene se la tradizione del popolarismo europeo ha saputo rinnovarsi e trovare nuove declinazioni (basti pensare al neo-gollismo oggi asse portante del Ppe e anche al probabile ingresso del Pdl nella comune famiglia popolare, ma anche al quasi certo abbandono dei conservatori britannici), altrettanto non si può dire della famiglia socialista. La crisi economica e le critiche piovute nei confronti della cosiddetta illusione liberal-capitalista non sono state sfruttate dal socialismo europeo. Non a caso oggi socialisti francesi, laburisti inglesi e socialisti spagnoli arrancano e solo la socialdemocrazia tedesca, tra i principali Paesi dell’Ue, sembra dare qualche segno di vitalità. Il socialismo europeo sembra aver smarrito le chiavi di lettura per comprendere l’attuale evoluzione politica, economica e sociale dell’Europa e del mondo globale. L’ultimo sondaggio condotto dai ricercatori della London School of Economics e del dipartimento di Political Science del Trinity College di Dublino (qui la simulazione) conferma la vittoria dei popolari (primo gruppo nonostante l’uscita dei conservatori britannici) che dovrebbero ottenere 262 seggi (sui 736 in palio), mentre i socialisti dovrebbero fermarsi a 217. A questo punto, di fronte ad uno scenario generale così fosco, non mancano i soliti richiami alle «cooperazioni rafforzate» (Venturini sulle colonne de «Il Corriere della Sera» utilizza l’affascinante, ma forse difficilmente realizzabile, formula del «fare l’Europa più piccola per farla più grande») o all’Europa a più velocità (ancora su «Il Corriere della Sera» l’ex Presidente della Repubblica Ciampi). Forse potrebbe però essere necessario rilanciare il dibattito su alcuni temi forti e mobilitanti, proprio perché di immediato impatto simbolico. Almeno tre di questi sono già sul campo e attendono solo di essere rilanciati. Il primo riguarda l’identità dell’Europa, il problema dei suoi confini e di conseguenza il dossier Turchia. Il secondo è in apparenza più sottile ma comunque decisivo: come mai ogni volta che la democrazia cerca di superare i confini nazionali subisce un’ondata di rigetto popolare, come dimostrano in forme differenti l’astensionismo alle europee e i numerosi "no" referendari in Francia, Olanda e Irlanda? Infine, terzo punto, per quale motivo non aprire un dibattito serio e sereno sul futuro istituzionale dell’Europa? Perché non scoprire le carte e prendere posizione apertamente o per un’Europa confederale, di volta in volta sospinta dall’impulso di uno o più dei principali Paesi leader, o per un’Europa federale, una versione aggiornata di quella delle origini, con un ruolo sempre maggiore per gli organi sovranazionali come la Commissione e l’Europarlamento? I cittadini europei, se correttamente sollecitati, potrebbero mostrarsi più ricettivi e lungimiranti delle loro élites politiche. D’altronde difficilmente, cambiando rotta, si potrà incorrere in insuccessi peggiori di quelli ottenuti negli ultimi anni.
venerdì 5 giugno 2009
Geert Wilders
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