domenica 6 settembre 2009

Smemorando...

D'Alema, lo smemorato di Davide Giacalone

Perdere la memoria è una brutta cosa, che a Massimo D’Alema è capitata due volte nel corso di una sola intervista (al Corriere della Sera di ieri). Egli ha sostenuto, ed è la prima smemoratezza, che quando divenne presidente del Consiglio rimise tutte le querele, rimproverando Berlusconi in virtù d’un presunto principio generale: il capo del governo non querela. Già, peccato che anche D’Alema, da Palazzo Chigi, querelò. Per la precisione Giorgio Forattini. E, per essere ancora più precisi, lo fece senza querelare Repubblica, giornale che aveva ospitato la vignetta incriminata, ma chiedendo a quel vignettista, personalmente, tre miliardi di lire. Un atto, pertanto, diretto a colpire la persona, da sola. Appurata la bugia, o, ad esser buoni, l’amnesia selettiva, veniamo al presunto principio: perché mai un presidente del Consiglio non dovrebbe querelare? Ho una risposta generale: perché è inutile. Nel caso di Berlusconi ho anche una risposta specifica: perché perderà la causa e passeremo settimane a parlare dell’onere della prova circa la potenza virile. Ma che sia un principio del diritto, questo sta solo nella testa di D’Alema e di tanti conformistelli. Il capo del potere esecutivo, in Italia, non ha alcun potere sulla magistratura, non può in alcun modo influenzare né le indagini né l’eventuale processo. Se si sente offeso, se ritiene d’avere subito un danno, che altro dovrebbe fare, se non rivolgersi ad un giudice? Il quale deciderà. Il problema politico ed istituzionale esiste, ma non riguarda i governanti, bensì i magistrati, che, quando querelano, chiamo un collega a stabilire chi ha ragione, quasi sempre sostenendo essere stato offeso l’onore togato, vale a dire quel che li accomuna al giudicante. Brutta faccenda. D’Alema aggiunge un ulteriore argomento, ed è la seconda smemoratezza, per stigmatizzare la posizione di Berlusconi: in tutto il mondo sono i giornali che controllano il potere, non viceversa. Qualcuno lo soccorra, con il fosforo e con il ricordo della commissione parlamentare di vigilanza. Da noi la Rai è controllata, appunto, da una commissine bicamerale. E’ la politica che controlla la televisione. Non lo sapeva? Andiamogli incontro: questo capita grazie alle posizioni assunte dal suo partito (nel tempo e passando per vari nomi). L’accordo spartitorio, che coinvolgeva anche gli altri partiti, volle proprio quello che al D’Alema odierno sembra mostruosamente irragionevole ed antidemocratico. Risolvere il problema della Rai sarebbe semplice, cedendola al mercato e facendola finita con la televisione di Stato, in modo da restaurare la regola aurea. Ma D’Alema, quando si ricorda d’occuparsene, è contrario, meno propenso a prendere esempio dal mondo. Oh, se poi volesse fare una cura della memoria, ce lo dica. Siamo pronti a pubblicare, a puntate, la storia della privatizzazione di Telecom Italia, e del ruolo che lui ebbe, da presidente del Consiglio. Gli sarebbe utile per rammentare tanti amici e capitani coraggiosi, che ancora devono essergli grati per la manna che fece piovere sulle loro teste.

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