domenica 6 settembre 2009

Riflessioni

Poiché ogni italiano vorrebbe fare la formazione della squadra di calcio per cui fa il tifo, e poiché io faccio il tifo per l'Inter, mi sono chiesto se farei giocare domani sera Sulley Muntari nel derby col Milan. E mi sono risposto di no. Non so che cosa deciderà Mourinho, che ne sa certo più di me. Ma da un atleta che digiuna, e soprattutto non beve dall'alba al tramonto in questo torrido agosto, non credo di potermi aspettare un rendimento al top. Avendo fatto questo pensiero, mi sono subito rivolto anche un'altra domanda: il mio ragionamento ha qualcosa di razzista o discriminatorio? È viziato da un pizzico di intolleranza? È compatibile con la società multirazziale in cui viviamo e soprattutto con il club più multirazziale d'Italia che è l'Inter? La domanda è per me imbarazzante per due motivi: il primo è che non sono un leghista, ma mi ritengo un democratico con tendenza cosmopolita. La seconda è che una delle ragioni per cui da ragazzo scelsi l'Inter sta proprio nel fatto che si chiama Internazionale, perché nacque in seguito a una scissione dal Milan che invece accettava solo calciatori italiani. Leggete la formazione del primo campionato vinto dall'Inter e capirete quanto fu, fin dall'inizio, davvero internazionale. La risposta alle domande imbarazzanti che mi sono rivolto è resa più problematica da un altro fatto. Finché parliamo dell'Inter e di Muntari, non rischiamo niente. L'Inter ha come sostituire quel calciatore degnamente, e Muntari non perde una lira del suo notevole stipendio. Ma se io fossi il padroncino di un camion e dovessi decidere se affidarne la guida a un giovane musulmano in ramadan, o se io fossi il direttore di un ospedale e dovessi decidere se lasciar operare un medico in ramadan, o se io fossi un agricoltore e dovessi decidere se lasciar raccogliere pomodori sotto il solleone a una donna in ramadan, le conseguenze della mia decisione sarebbero ben più serie. L'autista, il medico e la bracciante potrebbero perdere il lavoro, o anche solo la giornata, e potrebbero accusarmi per l'appunto di intolleranza religiosa e di discriminazione sociale.Per trovare la risposta alle mie domande bisogna perciò andare al cuore della questione immigrazione. Che, al netto della demagogia xenofoba, è questa: usi, costumi e tradizioni degli ospiti che vengono a vivere e lavorare da noi, sono sempre e comunque compatibili con gli usi, i costumi e soprattutto l'organizzazione della vita e del lavoro nelle nostre società? Voi direte: ma allora come fanno nei paesi musulmani quando c'è il ramadan? La risposta è semplice: si lavora meno, si sonnecchia, ci si riposa, l'intera nazione rallenta e quasi si ferma durante il giorno per consentire ai fedeli di astenersi e di pregare, almeno negli stati più osservanti, che anzi tendono sempre più a radicalizzare gli obblighi e l'osservanza. Ma attenzione: anche in quei paesi le cose si complicano man mano che essi adottano organizzazioni sociali più simili a quelle occidentali. Per esempio, in Iran Ahmadinejiad ha fatto un decreto che riduce l'orario di lavoro dei dipendenti pubblici durante il ramadan, ma il presidente del parlamento Larijani ha denunciato che quella norma è in contrasto con le leggi sulla settimana lavorativa. E d'altra parte: l'interpretazione restrittiva e letterale del dettato del Corano è una cosa recente, frutto del revival integralista, e per niente obbligatoria o tradizionale. Proprio ieri un'alta autorità religiosa egiziana, la “Dar al Fatwa”, ha dichiarato che i calciatori sono autorizzati a interrompere il digiuno nel caso in cui siano impegnati in gare ufficiali. Quella di Muntari dunque è una scelta. E allora, in una società liberale come si fa? Due cose sono impossibili: la prima è proibire a chicchessia di osservare i comandamenti della sua fede; la seconda è obbligare chicchessia a subire dei danni personali o collettivi a causa di quei comandamenti. Per questo Muntari è libero di digiunare e Mourinho di non farlo giocare. E, per quanto mi riguarda, lo stesso vale per ogni altro lavoratore che presta la sua opera. Lo Stato non può ingerirsi in alcun modo né dell'uno né dell'altro comportamento. Ingerenza sarebbe se stabilisse per legge le ore e i giorni dell'anno in cui si può pregare e digiunare; ma ingerenza sarebbe anche se pretendesse che il datore di lavoro sia indifferente alla qualità della prestazione d'opera. Lo Stato può solo dare una mano operando perché la collettività comprenda meglio le ragioni di certi precetti religiosi (in fin dei conti anche i cattolici praticanti digiunano, e anche gli ebrei osservanti non lavorano al sabato); e tendendo una rete di protezione sociale perchè lavoratori e datori di lavoro possano trovare tra di loro accordi in loco e soluzioni caso per caso. Questo, almeno è ciò che penso. E potrei sbagliarmi, perché in materie come queste è davvero difficile distinguere il giusto dall'ingiusto. Ciò di cui sono sicuro è che una società multirazziale non ha tra i suoi doveri di ospitalità quello di modificare i propri standard di sicurezza e di efficienza, o la propria organizzazione sociale, o i propri tempi di lavoro.

Antonio Polito

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