Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l’esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un’altra strada per i riformisti italiani. Tra quelli che hanno creduto nel Pd c’è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: “La favola del Perdente di successo”. Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa. Alle elezioni politiche dell’aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall’armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s’improvvisa in qualche mese. Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L’ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori. La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d’immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell’altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo. Tuttavia, all’orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l’ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa. Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall’eterno Max D’Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini. A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l’avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto. Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all’ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui? La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un’ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva. Ma allora è meglio dichiarare che l’esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un’impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni. Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell’anticapitalismo. Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c’è una via di uscita: trovare un accordo con l’Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino. Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.
lunedì 29 giugno 2009
Sul Pd
È meglio che il Pd muoia di Giampaolo Pansa
Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l’esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un’altra strada per i riformisti italiani. Tra quelli che hanno creduto nel Pd c’è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: “La favola del Perdente di successo”. Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa. Alle elezioni politiche dell’aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall’armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s’improvvisa in qualche mese. Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L’ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori. La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d’immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell’altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo. Tuttavia, all’orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l’ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa. Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall’eterno Max D’Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini. A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l’avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto. Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all’ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui? La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un’ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva. Ma allora è meglio dichiarare che l’esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un’impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni. Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell’anticapitalismo. Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c’è una via di uscita: trovare un accordo con l’Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino. Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.
Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l’esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un’altra strada per i riformisti italiani. Tra quelli che hanno creduto nel Pd c’è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: “La favola del Perdente di successo”. Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa. Alle elezioni politiche dell’aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall’armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s’improvvisa in qualche mese. Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L’ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori. La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d’immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell’altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo. Tuttavia, all’orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l’ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa. Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall’eterno Max D’Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini. A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l’avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto. Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all’ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui? La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un’ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva. Ma allora è meglio dichiarare che l’esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un’impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni. Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell’anticapitalismo. Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c’è una via di uscita: trovare un accordo con l’Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino. Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.
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2 commenti:
Possibile che anche persone che sembrano avre "una marcia in più", poi attribuiscano ai singoli le colpe che non possono essere di D'alema, Franceschini o Veltroni e che coinvolgerebbero anche i Chiamparino o chiunque altro ? Il problema è la sinistra, la sua ideologia, le sue scelte. Chiunque possa diventare segretario del pci(pds/ds/pd verrebbe stritolato da una tendenza che porta a sostenere tese impresentabili e contrarie all'interesse e al benessere di una nazione e dei suoi cittadini. Lo sbaglio è scegliere la sinistra :-)
Pansa mi piace, peccato che sia "dell'altra sponda", in senso politico ovviamente.
Certi vizi ancestrali non vengono mai cancellati, e rimangono come impronta, nel DNA.
Il Pd è morto ? Alleluja ! Il treno per salire sulla socialdemocrazia, la sinistra italiana l'ha perso tanto tempo fa, e quindi il caro Pansa bluffa quando scrive :
"Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista"
Perchè sa che non è così. Del resto, anche un "illuminato" quale crede di essere, cade nel lapsus freudiano... quando cita
"Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti"
dimenticandosi di precisarne l'autore : Mao !
E visto che siamo in tema di motti, se il Pd crepa, e DS e Margherita vanno ognuno per la sua strada, non può che farmi immenso piacere : " Divide et impera "
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