lunedì 3 maggio 2010

Unione europea


Una procedura che avrebbe evitato di scatenare i mercati finanziari e di minare la fiducia nell’euro. All’origine di questi ritardi ci sono stati — non c’è dubbio — incertezze, mancanza di leadership, rigurgiti nazionalistici, procedure inefficaci. Sembra facile, a prima vista, individuare i colpevoli. Se si vuole tuttavia che questa crisi rappresenti l’occasione per rafforzare il processo di integrazione europeo bisogna spingere oltre la riflessione su ciò che è avvenuto, partendo da due spunti.

Il primo è che l’euro non è solo la moneta comune di una unione tra 16 Paesi e oltre 300 milioni di cittadini, ma comporta legami politici ben più stretti di quanto pensassimo. Le difficoltà di un Paese si riflettono direttamente sugli altri, con conseguenze non economiche e finanziarie. Come dimostrano i casi recenti della Lettonia e dell’Ungheria, se la crisi fosse avvenuta in uno degli altri Paesi europei fuori dall’area dell’euro, l’Unione avrebbe partecipato al salvataggio, insieme al Fondo Monetario Internazionale, senza particolari difficoltà. Una crisi all’interno dell’area dell’euro comporta invece dimensioni politiche di ben ampia portata.

In secondo luogo, all’origine della crisi greca non c’è stato solo un problema di bilancio, ma una questione politica fondamentale, che molti hanno sottostimato. Se le difficoltà di bilancio della Grecia fossero state prodotte da un evento esogeno, come un terremoto, la crisi si sarebbe risolta rapidamente. La Commissione europea dispone peraltro di risorse finanziarie ingenti per far fronte ad eventi «fuori dal controllo degli Stati Membri». Gli altri Paesi membri non avrebbero fatto mancare la loro solidarietà. La crisi greca è nata invece da una grave violazione dei principi sottostanti alla costruzione politica europea. Il precedente governo greco aveva infatti più che raddoppiato il deficit pubblico, dal 6% del Prodotto lordo a oltre il 13%, senza dichiararlo, nel 2009 — un anno elettorale. In altre parole, la — seppur debole — sorveglianza europea sui bilanci pubblici dei Paesi membri è stata elusa dalla Grecia a fini elettorali interni.

Ci si può chiedere in quale Paese un tale evento non avrebbe innescato una crisi politica di dimensioni paragonabili a quella che è stata vissuta nell’Unione. Non ci si può meravigliare se molti cittadini dell’area dell’euro — una stragrande maggioranza in alcuni Paesi — si siano dichiarati contrari a ripianare i debiti della Grecia. Non ci si può meravigliare se alcuni governi dei Paesi membri, riflettendo il disagio dei propri cittadini, abbiano esitato a lungo prima di dare il loro accordo al sostegno finanziario alla Grecia, e abbiano dato il loro accordo solo in ultima istanza, di fronte alla crisi che si stava generalizzando e condizionato a forti tutele nei confronti di quel Paese. In gioco non era solo la coesione economica e finanziaria dell’Unione, ma soprattutto quella politica.

Quando, alla metà degli anni 70, lo Stato di New York chiese aiuto al governo centrale degli Stati Uniti per far fronte alla montagna di debito accumulato, quest’ultimo si rifiutò fino a quando non fu varato un programma credibile di risanamento. Fu un negoziato lungo e politicamente difficile, che servì però da esempio per gli altri Stati. Anche la lunga crisi europea di queste settimane può servire da esempio per indurre gli altri Stati europei a risanare per tempo i propri bilanci pubblici e all’Europa per dotarsi di procedure e istituzioni più efficienti. Questa crisi può servire anche agli Stati che si vogliono dotare di strutture federali, affinché definiscano meccanismi rigorosi che evitino che lo Stato centrale (cioè le altre regioni) si trovi a dover ripianare i debiti creati a livello regionale.

Lorenzo Bini Smaghi - Membro del Comitato esecutivo della Banca centrale Europea

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