lunedì 10 maggio 2010

Ayaan Hirsi Ali


Sono stata nomade per tutta la vita e ho vagato senza radici. Sono stata costretta a fuggire da ogni luogo in cui mi sono fermata. Ho gettato da parte ogni certezza che mi è stata trasmessa. Sono nata a Mogadiscio, in Somalia, nel 1969. Mio padre venne imprigionato quando ero piccolissima per il suo ruolo nell’opposizione politica alla brutale dittatura; poi fuggì di prigione e andò in esilio. Lo rividi all’età di otto anni, quando mia madre portò i miei fratelli e me in Arabia Saudita per vivere con lui.

L’anno successivo fummo espulsi da questo Paese e ci spostammo in Etiopia, dove si trovava il quartier generale del gruppo di opposizione a cui apparteneva mio padre. Dopo circa diciotto mesi ci trasferimmo di nuovo, questa volta in Kenya. Ciascun cambiamento mi catapultò impreparata in Paesi con lingue totalmente diverse ementalità del tutto differenti dalla mia; ogni volta facevo tristi, spesso vani e infantili tentativi per adattarmi. L’unica costante della mia vita è stato il tenace attaccamento di mia madre all’Islam.

Mio padre abbandonò il Kenya e noi, la sua famiglia, quando avevo undici anni. Non lo vidi più fino a quando ne ebbi ventuno. Durante la sua assenza, sotto l’influenza di un insegnante, ero diventata una musulmana fervente e devota. Tornai per otto mesi in Somalia, dove assistetti allo scoppio della guerra civile, e al caos e alle barbarie del grande esodo del 1991, quando metà del Paese dovette rifugiarsi altrove e 350.000 persone persero la vita.

A ventidue anni, mio padre mi ordinò di sposare un nostro parente — per me un completo sconosciuto — che viveva a Toronto. Nel viaggio dal Kenya al Canada avrei dovuto fare una sosta in Germania per ritirare il visto canadese per poi proseguire. Una specie di istinto disperato però mi spinse a sottrarmi all’imposizione paterna: presi un treno diretto in Olanda. Tra tutti i viaggi che avevo fino ad allora compiuto nella mia vita, questo fu il più difficile: il cuore mi batteva all’impazzata per il timore delle conseguenze del mio gesto, e per la reazione di mio padre e del clan quando avessero scoperto che ero fuggita.

In Olanda scoprii la gentilezza degli estranei: non ero nessuno per queste persone, e tuttavia mi nutrirono emi trovarono una sistemazione, mi insegnarono la loro lingua emi permisero di studiare tutto ciò che volevo. L’Olanda era diversa da qualsiasi altro Paese in cui avessi mai vissuto: era pacifica, stabile, prospera, tollerante, generosa, profondamente buona. Mentre approfondivo l’olandese, cominciai a prefiggermi un obiettivo molto ambizioso: avrei studiato scienze politiche per scoprire perché questa società, sebbene atea, funzionava, mentre quelle in cui avevo fino a quel momento vissuto, per quanto dichiaratamente musulmane, erano marce di corruzione, violenza e soprusi.

Per molto tempo esitai fra i chiari ideali dell’Illuminismo che apprendevo all’università e la sottomissione ai dettami ugualmente chiari di Allah, a cui temevo di disobbedire. Lavorando nei servizi sociali come traduttrice dall’olandese al somalo per mantenermi all’università, incontrai molti musulmani in difficoltà, nelle case-famiglia per donne maltrattate, nelle prigioni o nelle scuole speciali, ma non colsi mai il nesso, anzi evitavo di coglierlo, tra la loro fede nell’Islam e la povertà; tra la loro religione e l’oppressione delle donne e la mancanza di scelte individuali. Per ironia, fu Osama bin Laden a togliermi i paraocchi. Dopo l’11 settembre trovai impossibile ignorare le sue affermazioni secondo cui lo sterminio di vite innocenti (se infedeli) è coerente con il Corano. Cercai conferma in questo libro, e scoprii che era così. Per me ciò significò che non potevo più essere musulmana e, anzi, mi resi conto che non lo ero più da tempo.

Poiché trattavo questi argomenti pubblicamente, cominciai a ricevere minacce di morte. Mi fu anche chiesto di presentarmi alle elezioni per il parlamento olandese come membro del Partito liberale. Diventai deputata ed essendo giovane, nera e donna— e spesso accompagnata da una guardia del corpo — ero molto visibile. Io però godevo di protezione costante, mentre i miei amici e colleghi no.

Decisi di girare un documentario che denunciava l’oppressione delle donne islamiche con il regista Theo van Gogh, nome che aveva ereditato dal nonno, fratello di Vincent van Gogh. Lo stesso anno Theo venne assassinato da un fanatico musulmano, un ventiseienne marocchino immigrato ad Amsterdam insieme ai genitori.

Scrissi un romanzo autobiografico, Infedele, in cui raccontai le mie esperienze e quanto mi sentissi fortunata per essere sfuggita da luoghi in cui le persone sono riunite in tribù e le questioni degli uomini sono guidate dai dettami e dalle tradizioni della fede; e quanto fossi felice di vivere in un posto in cui gli appartenenti a entrambi i sessi sono considerati cittadini alla pari.

Ho riportato gli eventi casuali che avevano reso così vagabonda la mia infanzia, il carattere volubile di mia madre, l’assenza di mio padre, i capricci dei dittatori, come affrontavamo le malattie, le carestie e le guerre. Ho descritto il mio arrivo in Olanda e le mie prime impressioni su un Paese in cui gli abitanti non sono sudditi di tiranni né governati dalle regole dei legami di parentela del clan, ma sono cittadini del governo da loro eletto (...).

Quando scrivevo Infedele, immaginavo che i miei viaggi fossero finiti. Credevo che sarei rimasta per sempre in Olanda: avevo messo radici nel suo ricco suolo e non avrei mai voluto essere costretta a estirparmi nuovamente. Ma mi sbagliavo. Mi trasferii infatti in America, come molti prima di me, in cerca di un’occasione per costruirmi una vita e trovare sostentamento in libertà e sicurezza, una vita lontana un oceano da tutte le guerre a cui avevo assistito e dal conflitto interno che avevo sostenuto. Questo libro, Nomade, spiega i motivi.

Lettori di Infedele di tutto il mondo mi hanno offerto appoggio e incoraggiamento, ma mi hanno anche posto un gran numero di questioni non affrontate nel libro. Mi chiedevano del resto della mia famiglia, delle esperienze di altre donne musulmane. Più di una volta mi è stata rivolta la stessa domanda: «Quanto la tua esperienza è comune ad altre donne? Ti senti in qualche modo rappresentativa?». Quindi Nomade non tratta soltanto della mia vita vagabonda nei Paesi occidentali, parla anche dell’esperienza di molti altri immigrati, delle difficoltà ideologiche e molto concrete di individui, soprattutto donne, che vivono in una cultura musulmana tradizionale molto rigida, immersa in un’altra estremamente aperta; di come gli ideali islamici siano incompatibili con quelli occidentali, dello scontro di civiltà che io e milioni di altri abbiamo provato e continuiamo a provare sulla nostra pelle.

Quando mi trasferii negli Stati Uniti, e per l’ennesima volta cominciai il processo di inserimento in un Paese sconosciuto, venni assalita da un nuovo e intenso tipo di nostalgia dovuto alla morte di mio padre, a Londra. Ristabilendo i legami con i membri della mia famiglia allargata — i cugini e la mia sorellastra — che vivono negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e altrove, li trovai in situazioni tragicamente precarie: una ha contratto l’aids, un’altra è stata accusata di aver accoltellato il marito, e un terzo invia in Somalia tutto il denaro che guadagna per mantenere il clan. Sostengono, nessuno escluso, di rispettare i valori del nostro gruppo tribale e di Allah.

Hanno la residenza e la cittadinanza dei Paesi occidentali in cui abitano, ma il loro cuore e la loro mente sono altrove; sognano un’epoca che in Somalia non èmai esistita: un’epoca di pace, amore, armonia. Metteranno mai radici dove si trovano? Sembra improbabile. La scoperta dei loro guai è uno degli argomenti di Nomade. Forse penserete: e con ciò? Ogni cultura non ha le sue famiglie sconclusionate? Anzi, per l’industria cinematografica hollywoodiana le famiglie disastrate ebree e cristiane sono fonte di gran divertimento, ma ritengo che quelle musulmane costituiscano una vera minaccia per il tessuto stesso della vita occidentale.

La famiglia è il crogiolo dei valori umani. È in famiglia che i bambini imparano a praticare e a perpetuare le tradizioni culturali dei genitori; è in famiglia che viene stabilita una serie di convinzioni da osservare, trasmesse poi alle future generazioni: è quindi della massima importanza comprendere le dinamiche della famiglia musulmana, perché detiene la chiave, fra l’altro, della sensibilità al radicalismo islamico di tanti giovani. È soprattutto tramite le famiglie che le teorie cospirative viaggiano dalle moschee e dalle madrasse dell’Arabia Saudita e dell’Egitto fino ai salotti olandesi, francesi e americani.

2 commenti:

Kizzy ha detto...

Questa è una donna con le p... altro che le femministe nostrane!

Eleonora ha detto...

Si, Kizzy, io la amo almeno quanto amo la Fallaci.